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PSNAI

Dipendenza e subalternità: destino, vocazione naturale o condizione storica da contrastare?

Tutti i dati e tutte le analisi a disposizione indicano che la Sardegna è in una drammatica fase di impoverimento demografico e sociale, di deterioramento del tessuto civile e produttivo. Benché tutto questo sia risaputo e la politica ogni tanto ne faccia cenno, retoricamente, per propagandare i propri salvifici intendimenti (sempre vani), negli ultimi trent’anni non si è fatto nulla per cercare di contrastare l’andamento in corso.

Il fatto è tanto più drammatico in quanto è esclusa dall’agenda politica e dal dibattito mediatico e intellettuale una delle questioni nodali della nostra contemporaneità: la relazione asimmetrica e penalizzante con lo Stato italiano. 

Faccio pochi esempi per chiarire meglio la portata concreta del problema, connettendo situazioni e circostanze apparentemente non collegate.

Nei giorni scorsi è emerso nelle cronache e sui social un documento governativo italiano di rilevanza strategica, che però fatica a trovare posto nel già asfittico dibattito pubblico sardo. Si tratta del Piano Strategico Nazionale per le Aree Interne (PSNAI). 

Nelle 164 pagine del Piano sono contenute le linee guida per gli interventi statali a favore delle aree interne di tutta Italia, così come definite e mappate da apposite tabelle, sulla base dei dati raccolti dall’ISTAT e di una relazione del CENSIS. Sono anche elencati gli investimenti dedicati alla realizzazione del Piano, con gli stanziamenti previsti zona per zona.

Al di là delle premesse e delle dichiarazioni di principio, ridondanti e fin troppo retoriche, ne emerge la sostanziale volontà del governo italiano di abbandonare a se stesse le zone interne e periferiche e di non contrastare davvero un fenomeno di portata storica che, per un territorio così eterogeneo come quello dello stato italiano, avrebbe bisogno di una pianificazione molto più articolata e diversificata, da realizzare con stanziamenti adeguati. 

Tra pag. 44 e pag. 45 del Piano si possono leggere gli obiettivi perseguibili:

Alla luce di quanto descritto è possibile distinguere quattro tipologie di obiettivi, nella prospettiva di rafforzare le condizioni delle Aree Interne, in funzione delle condizioni di partenza delle realtà locali:

Obiettivo 1: Inversione di tendenza relativamente alla popolazione

Come rappresentato dall’analisi statistica, non esistono margini per realizzare tale obiettivo a livello nazionale. La popolazione può crescere solo in alcune grandi città e in specifiche località particolarmente attrattive.

Obiettivo 2: Inversione di tendenza relativamente alle nascite

Nello scenario nazionale più favorevole tra quelli contemplati dalle previsioni Istat la popolazione non cresce ma le nascite tornano a salire. In tale scenario la popolazione anziana aumenta comunque più della popolazione giovanile e i decessi rimangono maggiori rispetto alle nascite, ma la base demografica non va a indebolirsi ulteriormente. Tale risultato richiede però una combinazione tra attrattività verso le nuove generazioni (che rafforzano la componente in età riproduttiva) e condizioni favorevoli alle scelte di genitorialità. Una parte del Paese potrebbe riuscire ad avvicinarsi a tale scenario, ma verosimilmente non gran parte del Mezzogiorno e la maggioranza delle Aree interne (come evidenziano i dati stessi delle previsioni ISTAT disaggregati per regione).

Obiettivo 3: Contenimento della riduzione delle nascite (da diminuzione accentuata a moderata)

Questa è la tipologia che potrebbe riguardare il gruppo più ampio di Comuni delle Aree interne. Corrisponde ad un percorso che evita di rassegnarsi allo scenario peggiore e cerca di rimanere vicino allo scenario mediano delle previsioni ISTAT. Data la struttura per età della popolazione di molte Aree interne (caratterizzata da forte indebolimento della componente giovane-adulta), il rallentamento della diminuzione delle nascite richiede comunque un aumento del numero medio di figli per donna (nello scenario mediano italiano passa dagli attuali 1,2 a quasi 1,4 nel 2050) e una progressiva riduzione del saldo migratorio negativo. Questo obiettivo non mette in sicurezza la struttura demografica, ma evita che peggiori in modo tale da compromettere del tutto la sostenibilità nel breve-medio periodo. Questo consente di tenere aperta la possibilità di miglioramenti futuri.

Obiettivo 4: Accompagnamento in un percorso di spopolamento irreversibile

Un numero non trascurabile di Aree interne si trova già con una struttura demografica compromessa (popolazione di piccole dimensioni, in forte declino, con accentuato squilibrio nel rapporto tra vecchie e nuove generazioni) oltre che con basse prospettive di sviluppo economico e deboli condizioni di attrattività. Queste Aree non possono porsi alcun obiettivo di inversione di tendenza ma non possono nemmeno essere abbandonate a sé stesse. Hanno bisogno di un piano mirato che le possa assistere in un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento in modo da renderlo socialmente dignitoso per chi ancora vi abita. Ogni Comune deve poter valutare in quale di queste quattro tipologie si colloca, in base ai dati disponibili sulla situazione demografica e sulle condizioni sociali ed economiche, e potersi dotare di competenze e di strumenti più adatti al proprio caso per ottenere gli obiettivi specifici. Le specificità locali sono fattori chiave su cui puntare per favorire uno sviluppo endogeno con effetti duraturi nel tempo in grado di limitare lo spopolamento e rendere questi territori attraenti per i giovani.

C’è materia su cui ragionare.
Ma ci sono anche altri aspetti che vale la pena sottolineare, in ottica sarda. Uno è che la tanto decantata “insularità in costituzione”, su cui la politica sarda tutta intera si è gingillata per anni, spacciandola come una panacea risolutiva di tutti i nostri mali, non è mai nemmeno citata. Come se non esistesse. Facciamoci delle domande. Un altro è che le aree sarde interessate dagli interventi pianificati sono pochissime ed estremamente circoscritte, non rispecchiando affatto la comune definizione di zone interne della Sardegna. Terzo aspetto non trascurabile è l’estrema esiguità – al limite della presa in giro – delle somme stanziate: pochi milioni di euro. 

Uno dei rilievi sollevati dallo stesso Piano è che fino a oggi i vari interventi statali a sostegno delle aree periferiche sono stati distribuiti in modo omogeneo, senza considerare ubicazione, contesto territoriale, demografia, tratti antropologici, storia locale dei territori interessati. Come se una valle piemontese o una zona montana degli Appennini abruzzesi o dell’interno della Sicilia fossero grosso modo la stessa cosa. Invece dai dati raccolti e presentati emergono delle differenze consistenti tra le varie aree dello stato, anche tra le aree interne di diverse sue porzioni. Si dirà: che scoperta! E tuttavia fa specie leggere queste constatazioni, sostenute da dati consistenti, in un documento governativo, a fronte di un’azione pluridecennale di governi di diverso colore, che hanno perseguito invece tutt’altre strategie di fatto. Il costante favore per certe aree a discapito di altre è un tratto costitutivo dello Stato italiano fin dalla sua creazione. Non ci si può stupire ora degli effetti di tale impostazione politica di lungo corso.

Lascio alla lettura delle persone interessate ulteriori considerazioni su questo documento, tanto significativo quanto sostanzialmente ignorato dalla politica sarda, sia quella che occupa le istituzioni regionali, sia quella locale (pure direttamente toccata, e in modo molto concreto, dal tema).

Sempre dei giorni scorsi è la notizia che il poligono del Salto di Quirra (pessima traduzione all’impronta di un toponimo sardo, detto per inciso) diventerà un “cosmodromo” (così ne scrivono le cronache). La notizia è data su alcuni siti specializzati italiani e sui media sardi. Nei primi, si enfatizza – in modo fieramente nazionalista – la portata storica di una simile operazione. Una sperimentazione tutt’altro che clamorosa, in realtà, ma proiettata in una prospettiva di conquista italiana dello spazio (tipo Fascisti su Marte). Il fatto che il cosmodromo si trovi in Sardegna non costituisce motivo di analisi o di alcuna considerazione aggiuntiva. La Sardegna è “a disposizione” e il PISQ medesimo è un “fiore all’occhiello” della Difesa italiana. Del resto, l’isola è notoriamente piccola e spopolata, povera, marginale. Vive solo grazie alla generosità dei turisti italiani (come ci tengono a ricordarci costantemente). Deve essere solo grata di questa opportunità. Il fatto più grave è che questa visione è sposata e rilanciata anche dai media sardi, dove più dove meno, e in larga misura dalla nostra classe politica. Entusiasmo e gratitudine alle stelle(tte). 

Eppure anche in questo caso sarebbe doveroso andare oltre la patina propagandistica e la retorica, per cercare di capire gli aspetti meno edificanti della faccenda. Che la Sardegna per l’Italia sia solo un mero oggetto di cui disporre a seconda delle esigenze – come ubicazione di supercarceri, come sede di una grandiosa speculazione energetica coloniale, come pattumiera industriale, come luogo di sperimentazioni e di esercitazioni belliche – sembrerebbe riempire molte persone sarde di compiacimento. Di sicuro la politica istituzionale sarda ha sempre pochissimo da dire, in proposito. L’approccio a questa iniziativa del cosmodromo non promette nulla di buono.

Soprattutto se la si mette in relazione a un’altra pensata governativa, proprio riguardo alle numerose aree sarde sottoposte a usi militari. In questo caso parliamo di aree dismesse dal Ministero della Difesa, o in fase di dismissione, ma mai restituite alla Regione, come invece prevede l’art. 14 dello Statuto sardo (fino a prova contraria, legge di rango costituzionale). C’è in rampa di lancio un Disegno di Legge (il DDL 1887) che prevede l’utilizzo di tali aree, molte delle quali ubicate a Cagliari e dintorni, come siti per installazioni di produzione energetica. L’amministrazione comunale cagliaritana, di solito compiacente e anzi facilmente sedotta dal fascino delle divise (come dimostrato dalla squallida sceneggiata della Joint Stars Charity), in questo caso si espone, proclamandosi contraria all’operazione. Non abbiamo percepito la stessa preoccupazione quando il resto della Sardegna si mobilita contro la speculazione energetica o altre aggressioni coloniali al territorio isolano. Il localismo egoistico e a tratti “suprematista” dei nostri centri urbani maggiori è una delle cause di diversi nostri mali collettivi (altro tema di possibile dibattito, a proposito di Aree Interne ecc.).

Michele Zuddas il 1 luglio, su FB, segnala la questione in questi termini:

[…] c’è un disegno di legge dello Stato italiano, il DDL 1887, che potrebbe cambiare per sempre la geografia del potere e dell’ambiente nella nostra isola. Ma non in meglio.

Questo disegno di legge, presentato come una semplificazione per favorire lo sviluppo delle energie rinnovabili, nasconde in realtà un meccanismo molto più subdolo e pericoloso perché esautora le Regioni, le svuota di competenze, le marginalizza nei processi decisionali. In particolare, prevede che si possano realizzare impianti di produzione energetica – eolici, fotovoltaici, ma anche impianti di accumulo e conversione – in aree militari dismesse o non più attive, senza dover rispettare le norme urbanistiche e paesaggistiche regionali. Il tutto, ovviamente, nel nome del “supremo interesse nazionale”.

Ecco il punto: non si tratta solo di una scorciatoia burocratica, si tratta di una riscrittura dei rapporti tra Stato e Regioni. Di fatto, si crea una corsia preferenziale, blindata, che permette allo Stato di decidere unilateralmente dove, come e con chi fare gli impianti, scavalcando la pianificazione regionale, le comunità locali, le valutazioni ambientali e culturali, le economie territoriali. In Sardegna, tutto questo rischia di avere conseguenze enormi.
Perché?
Perché la Sardegna è, ancora oggi, la regione con la più vasta estensione di aree sottoposte a servitù militare: oltre il 60% del totale nazionale. E cosa accadrà quando queste aree verranno dismesse? Cosa accadrà al colle di Sant’Elia, a Capo Teulada, a Perdasdefogu, a Capo Frasca, a tutte quelle porzioni di terra che per decenni sono state sottratte ai sardi in nome della “difesa nazionale”? Verranno restituite ai cittadini, alla natura, all’uso collettivo?

No. Se passa il DDL 1887, verranno semplicemente privatizzate, riconvertite in hub energetici “verdi” al servizio del mercato, con concessioni trentennali o cinquantennali a grandi aziende, italiane o multinazionali. E la Regione Sardegna, quella stessa Regione che dovrebbe pianificare il suo futuro energetico, ambientale, agricolo, turistico e culturale, verrà esclusa da ogni decisione rilevante.

In passato, pressoché solo gli indipendentisti e qualche voce ambientalista hanno sollevato la questione dei beni militari dismessi da recuperare al demanio pubblico sardo. La politica se ne è bellamente disinteressata. Fino a oggi. Ma anche oggi lo fa in modo puramente di facciata, agendo solo sul piano comunicativo, come per pararsi le spalle dalle future critiche. Non ci sarà alcuna vera opposizione ad alcun proposito governativo.

Non c’è niente di cui stupirci, purtroppo. Il che però non ci esime dal prendere atto di queste vicende e trarne le dovute considerazioni, sia in termini puntuali e circostanziati, sia in termini generali.

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