È lo stato italiano ad aver portato la Camorra in Sardegna?

Sono le 17 di un tiepido venerdì primaverile, una donna parcheggia la sua auto per andare a lavoro. Pochi attimi dopo, dalle strade adiacenti, sbuca fuori una moto con targa coperta. A bordo ci sono due uomini col volto nascosto da un casco integrale, hanno con loro una tanica di benzina. La versano sull’auto, le danno fuoco e si allontanano facendo perdere le loro tracce. Sembra una scena uscita fuori da una puntata di Gomorra, ma ci troviamo a l’Alguer, ai Bastioni, uno dei luoghi più amati per le passeggiate serali di chi vuole godersi lo spettacolo del tramonto su Cap de la Caça.
Era il 27 aprile del 2022 e quello descritto è un episodio tuttaltro che isolato per cittadina della Riviera del Corallo. È sufficiente fare una semplice ricerca on-line per imbattersi in decine e decine di simili episodi di cronaca: locali e auto date alle fiamme, minacce a proprietari di ristoranti, discoteche o stabilimenti balneari.
Recentemente hanno avuto grande eco – in seguito alla pubblicazione di un articolo su Il Fatto Quotidiano – le minacce subite da una imprenditrice che non accetta le proposte di acquisto del suo locale. In risposta a questi rifiuti avrebbe ricevuto una lettera in cui, sotto la foto di una spiaggia, si leggeva la frase: “Scegli il punto in cui scavarti la fossa”.
Tra le strade di Alghero il tema delle infiltrazioni camorristiche è estremamente ricorrente, e benché non ci siano sentenze a confermare i sospetti, le voci che corrono di bocca in bocca lo riportano col tono di una certezza monolitica: “quella gelateria l’hanno acquistata “i napoletani”, “le hanno incendiato l’auto perché non gli cede il locale”, “questa attività la utilizano per riciclare denaro”, “quel ristorante è proprietà di un loro prestanome”.
Badu ‘e Carros: il primo focolaio di una penetrazione silenziosa
Il virus della criminalità organizzata non è arrivato in Sardegna trasportato dal vento, e bisogna tornare indietro di alcuni anni per capire perché possiamo sostenere che le infiltrazioni mafiose siano state favorite da decisioni dello Stato Italiano, in una terra che fino a non troppo tempo fa, l’esperto di contrasto alla mafia Pino Arlacchi – nel suo libro “Perché non c’è la mafia in Sardegna” – descriveva come immune al fenomeno per ragioni culturali.
Era il 4 maggio del 1977 quando un decreto interministeriale stabiliva che nel carcere nuorese di Badu ‘e Carros sarebbero stati trasferiti decine militanti della lotta armata e con loro i più pericolosi boss della criminalità organizzata provenienti dall’Italia, con l’obiettivo di isolarli. Misura considerata “emergenziale” e quindi insindacabile. La scelta non destò in un primo momento grosse preoccupazioni, ma col tempo iniziò a farsi strada il sospetto che l’entourage dei boss, al fine di stabilire una rete di appoggio fuori dalle mura del carcere, si sarebbe potuto trasferire o avrebbe potuto iniziare a frequentare la cittadina barbaricina stringendo legami con la criminalità locale.
Dalle ipotesi alle certezze
E così successe. Già negli anni ’70, esponenti della malavita mamoiadina furono sorpresi in compagnia di boss mafiosi, e fu poi la Commissione Parlamentare Antimafia – secondo quanto riporta La Nuova Sardegna in un articolo del 2012 – a dichiarare che proprio i rapporti creatisi tra camorristi e criminali locali a Badu ‘e Carros fecero fare un “salto di qualità” alla malavita barbaricina e ogliastrina, con l’emergere di tecniche mafiose mai viste prima in Sardegna e lo svilupparsi del mercato della droga fino ad allora vista di cattivo occhio.
A ulteriore riprova, e a dimostrazione che i viaggi verso l’isola non si erano mai fermati, nel 2010 vennero arrestati al loro sbarco a Olbia Michele e Carmine Zagaria, rispettivamente padre e fratello dell’allora latitante Michele Zagaria – boss dei Casalesi – che si stavano recando proprio a Nuoro a visitare un altro fratello – Pasquale – senza sapere che intanto era stato spiccato un mandato d’arresto nei loro confronti.
Dalla Barbagia al nord dell’isola: i boss portati a Tàtari
Il secondo capitolo – ma non l’ultimo – di questa infelice concatenazione di eventi ha inizio negli anni ’10 del 2000, quando si posero i primi mattoni per la costruzione del nuovo penitenziario di Bancali, destinato a ospitare decine di personalità di spicco di Camorra, Ndrangheta e Mafia sottoposti al regime di 41 bis.
Mentre alcuni esponenti della provincia difendevano la scelta sbandierando il sempreverde “indotto sul territorio” – grimaldello valido per indorare qualsiasi genere di imposizione e speculazione sulla nostra terra – altre personalità più esperte in materia lanciavano l’allarme.
Beppe Pisanu – presindete della Commissione Parlamentare Antimafia tra il 2008 e il 2013 – dichiarava che la contaminazione del territorio, con l’arrivo dei detenuti al carcere di Bancali, sarebbe stata inevitabile, e lo stesso Pino Arlacchi, che pochi anni prima pubblicava il libro sull’assenza della mafia in Sardegna, si scagliava contro il trasferimento, tra gli altri, di Totò Riina nel carcere di Sassari.
Intervistato da Radiolina avrebbe dichiarato che questa scelta significava “considerare la Sardegna una colonia dove tutto è consentito”, e non opporsi con ogni mezzo “far vincere la politica coloniale dello Stato verso la Sardegna”
Inutile specificarlo: nonostante l’esperienza di Nùgoro avesse già messo in chiara luce il pericolo di una tale operazione, nonostante gli allarmi di chi la mafia la combatte e ne conosce le dinamiche, non è stato fatto mezzo passo indietro, e attualmente al carcere di Bancali sono ospitati circa ottanta detenuti sottoposti al 41 bis.
Uta: un nuovo capitolo della colonizzazione mafiosa a guida italiana.
Questa lunga saga di un’isola trattata come una sconfinata colonia penale non finisce purtroppo qui. È notizia recente, infatti, la decisione di trasferire ben 92 carcerati in regime di 41 bis al penitenziario di Uta, portando così le famiglie mafiose a due passi dal capoluogo sardo, al momento almeno apparentemente immune da infiltrazioni. In questo modo la Sardegna si appresta a diventare la regione dello Stato con col più alto numero di detenuti sottoposti a tale misura di detenzione, arrivando a ospitarne circa 200, ossia quasi il 30% del totale di tutto il territorio statale.
Un coro di indignazione si è levato alla diffusione della notizia, ma poco importa, l’”interesse di stato” – che evidentemente è in contrasto con l’interese dei sardi – prevale.
Se non fosse sufficiente l’intuito e l’esperienza del passato a capire cosa potrebbe provocare questa manovra, ci ha pensato l’ex procuratore antimafia Cafiero de Raho a mettere le cose in chiaro in una intervista a La Nuova Sardegna, spiegando che i capi chiusi in carcere portano dietro di sé centinaia di familiari con grosse diponibilità economiche che, spesso tramite prestanome, iniziano a investire nel territorio, acquistando immobili e attività e dando così via al processo di colonizzazione.
Esattamente ciò che, secondo quanto riportato da numerosi quotidiani e ripetuto dalla popolazione locale, sarebbe successo ad l’Alguer, con alcune famiglie legate alla criminalità campana che controllerebbero ormai decine di locali nel centro storico.
La situazione che vivono l’ALguer e i suoi cittadini in un misto di rabbia, preoccupazione e desiderio di riscatto, è la cartina tornasole di ciò che, senza un forte movimento di opposizione popolare, potremmo vedere verificarsi in sempre maggiori aree della Sardegna.
L’Alguer come esempio di ribellione alla colonizzazione mafiosa
Se fino ad ora l’Alguer ha catturato l’interesse mediatico in senso negativo per via degli episodi di cronaca legati alle presunte infiltrazioni, la stessa città potrebbe d’ora in avanti rappresentare un esempio per tutta la Sardegna anche in un ottica di riscatto.
Da diverse settimane, infatti, i collettivi Dignitat e Alghero Antifascista, hanno cominciato a organizzare assemblee pubbliche, in piazza, aperte a tutti, nelle quali confrontarsi sui problemi della città. L’assemblea del 6 luglio, svoltasi in piazza Pino Piras, non lasciava spazio a dubbi. Nel manifesto si leggeva infatti “Chi possiede Alghero? Assemblea contro la camorra e la svendita della nostra terra” e il comunicato continuava in questo modo: “Viviamo in una città che cambia – ma non per noi. Palazzi ristrutturati, dehors ovunque, affitti alle stelle, ma le nostre case crollano. I giovani partono, i poveri vengono cacciati, gli spazi liberi vengono chiusi. E nel silenzio delle istituzioni, la camorra si prende tutto quello che resta”.
All’assemblea del 6 luglio ne è seguita una il 27 dello stesso mese in Piazza Civica e successivamente un’altra in Piazza Sventramento il 17 agosto. La partecipazione è stata sempre abbondante, con la presenza di numerosi giovani, a dimostrazione che il problema è sentito da tutta la popolazione algherese. Nelle assemblee si è parlato senza mezzi termini di infiltrazioni camorristiche e di come queste siano strettamente intrecciate con la speculazione turistica e con lo sfruttamente sul lavoro.
In tutto questo, le istituzioni locali non sembrano essere troppo preoccupate, tanto che, come riportato nel summenzionato articolo de “Il Fatto Quotidiano”, a una domanda sulle presunte infiltrazioni camorriste in città, il primo cittadino Raimondo Caciotto, esponente del PD ed eletto in una coalizione di centrosinistra, avrebbe risposto di “non aver mai sentito nulla”. In un maldestro post sui social successivo alle critiche ricevute in seguito a tale dichiarazioni, avrebbe poi scritto che “non è il mio compito indagare su eventuali attività criminali”. Una dichiarazione che suona come una conferma delle preoccupazioni dei cittadini.
Quel che è certo è che, grazie alle persone, sempre più numerose, che stanno decidendo di prendere parola e ribellarsi allo stato di cose, non si potrà più far finta di nulla e pian piano anche chi per tanto tempo ha preferito far finta di nulla si vede costretto a parlare. L’Alguer sta dimostrando quanto sia necessario e sia possibile ribellarsi ai soprusi, ci sta dimostrando che quando vengono forniti gli spazi, i cittadini hanno voglia di esprimersi, di confrontarsi e di far sentire la propria voce fuori dalle evanescenti e inutili proteste da social network. E i ragazzi dell’Alguer ci mostrano una strada da seguire per pretendere giustizia e mettere chi è in potere di intervenire di fronte alle sue responsabilità.
Rimane tuttavia una domanda: possiamo davvero liberarci dalla contaminazione mafiosa senza mettere in discussione la dipendenza da chi, di questa infezione, si è fatto veicolo?
[Aggiornamento. Riceviamo e pubblichiamo una nota dell’autore.
“Gli elementi dell’articolo, l’attentato incendiario e le minacce ricevute – recentemente – dal proprietario di un locale sono separati e non riconducibili ad un unico caso. Come specificato, non ci sono sentenze a confermare i moventi dei vari episodi di cronaca, ma si parla di sospetti diffusi tra la popolazione algherese.“]
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Sardigna NO EST italia A FORAS italia dae Sardigna
Le bestie di Satana e camorra, distruggeranno il nostro mare, diventerà grigio come quello di un porto, inquineranno le falde acquifere, e porteranno tumori a tutti, morti per morti combattiamo. Fuori gli Italiazzi, tornate a casa vostra che avete già devastato.