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«Protettori poderosu de Sardigna spetziali»

Culto, identità e resistenza nei festeggiamenti di sant’Efisio

Ogni anno, tra il 1° e il 4 maggio, Casteddu si trasforma in santuario a cielo aperto. Migliaia di pellegrini, fedeli, devoti e semplici spettatori affollano le vie della città per accompagnare il simulacro di sant’Efisio dalla chiesa di Stampace a quella martiriale di Nora, poco fuori dalla moderna Pula. Una devozione che si ripete ininterrottamente dal 1656, anno in cui venne sciolto per la prima volta il voto solenne, legato alla liberazione della città dalla peste, ma anche un evento profondamente identitario: una manifestazione collettiva, nella quale il popolo sardo (o quantomeno buona parte di esso) riafferma la propria appartenenza, la propria storia e – ma questo è più che altro un augurio – la propria volontà di autodeterminazione. La festa di sant’Efisio, in un’ottica antropologica, costituisce, dunque, molto più di un semplice atto di fede: vi si trovano le tracce di una ritualità antica, indicativa di una resistenza culturale e un linguaggio simbolico, attraverso i quali la comunità racconta se stessa, senza timore di fare ricorso, talvolta, a una spontanea e vitale mitopoiesi, ma anche le proprie aspirazioni a essere soggetto e non oggetto della storia.

Il Santo guerriero e il popolo vinto

La figura di sant’Efisio, ufficiale romano, nato ad Antiochia sull’Oronte, convertito al cristianesimo e martirizzato in Sardegna al tempo di Diocleziano, può essere, dunque, letta in chiave simbolica. Nell’immaginario collettivo, oltre al santo guerriero che si sacrifica per il bene comune, Efisio rappresenta lo straniero “venuto da fuori”, ma che ha scelto di morire con i sardi e per i sardi, legandosi profondamente all’Isola e partecipando al suo destino. Nel contrasto tra dominazione militare romana e fedeltà alla propria coscienza, tra obbedienza all’autorità costituita e ribellione profetica, Efisio diventa il paradigma di conflitti profondamente connaturati nell’identità sarda. Una dicotomia che, per ragioni di brevità, può essere riassunta – rischiando di scivolare nel baratro della facile semplificazione – nell’opposizione, irrisolta e forse irrisolvibile, tra dominio esterno e radicamento territoriale.

In tale ottica, il culto di sant’Efisio diventa una forma di appropriazione simbolica del potere da parte del popolo sardo: un martire dell’impero romano che viene trasformato in santo della resistenza.

La Sardegna, storicamente soggetta a invasioni, colonizzazioni e marginalizzazioni, trova, così, in Efisio una figura nella quale specchiarsi: un cittadino romano, un nemico, che – attraverso un processo di metanoia spirituale e laica al contempo – si fece pienamente sardo. La figura del santo, in questo senso, non è soltanto religiosa, ma politica: è un alleato simbolico nella lunga lotta per la sopravvivenza e la dignità.

La festa come teatro dell’identità collettiva

La festa di sant’Efisio, inoltre, può essere letta come un “rito di comunità”, usando una definizione cara all’antropologo scozzese Victor Turner. È un momento liminale (e la Sardegna, a differenza dell’Italia, ancora ne conserva molti), nel quale differenze sociali si sospendono per affermare un’identità condivisa e una memoria comune. I gruppi in abito tradizionale, provenienti da buona parte dell’isola, portano con loro le micro-identità locali che, nel contesto della festa, si fondono in un macro-racconto unitario: quello del popolo sardo in cammino.

Il corteo, con i suoi ritmi lenti, cun is passus in sa ramadura, le traccas addobbate, i cavalli e i cavalieri, rappresenta una Sardegna ancestrale, ma non nostalgica, resistente, ma non chiusa. È una Sardegna che si riconosce in simboli condivisi e che si affida a essi per rinnovare il senso del proprio essere. Lungo le strade polverose che si snodano per 35 km tra Casteddu e Nora, la statua e la processione che l’accompagna attraversano territori reali e simbolici: si toccano comunità e si ravvivano relazioni, tramandando esperienze e saperi altrimenti marginalizzati. È un pellegrinaggio laico-religioso che riconnette l’isola e gli individui con se stessi, rendendo visibile quella trama sotterranea di appartenenza che è spesso invisibile, ma – fortunatamente – mai del tutto sopita.

Memoria, resistenza culturale e autodeterminazione

Da una prospettiva identitaria, il culto di sant’Efisio diventa una contro-narrazione (in senso positivo, s’intende) della storia ufficiale: non quella imposta dai poteri centrali, ma quella custodita nella memoria popolare. In tale ottica, come accennato in apertura, Efisio non rappresenta soltanto un santo, ma un emblema della continuità storica e spirituale della Sardegna, della sua capacità di sopravvivere ai traumi collettivi, alle violenze storiche, alle negazioni sistemiche. La festa potrebbe diventare un atto di resistenza culturale, una forma di insorgenza identitaria che si serve del sacro per parlare di giustizia, autonomia e futuro. E qualora non conseguisse questo intento, perderebbe un’opportunità importante e tradirebbe una sua potenziale vocazione.

In buona sostanza, il modo con il quale i festeggiamenti legati a sant’Efisio sono stati tramandati, reinventati, mantenuti in vita nonostante secoli di tentativi di omologazione, di riduzione folkloristica, di depotenziamento simbolico potrebbero dare ragione alla teoria della c.d. costante resistenziale sarda, citata tanto spesso e tanto a sproposito. Lungi dall’essere la cristallizzazione di una società che non vuole cambiare, la devozione a sant’Efisio, e con essa altre analoghe espressioni della religiosità popolare, costituiscono un linguaggio attraverso il quale il popolo sardo afferma a piena voce: noi esistiamo, resistiamo, ci riconosciamo. Non un relitto passatista, ma un atto di costruzione dell’identità collettiva e della coesione sociale, rivolto al futuro. Un rituale, che per sua stessa natura, non può e non deve sostituirsi alla celebrazione laica di Sa die de sa Sardigna, come da qualcuno è stato proposto, ma che, in un certo senso, lo integra e lo arricchisce, tracciando un ideale trait d’union tra i Sardi del IV secolo, quelli del 1656, i rivoluzionari del 1794 e noi Sardi – di nascita o di adozione, come lo era Efisio – del secolo XXI.

Al netto dei significati religiosi, certamente importanti per i credenti e dunque degni di rispetto, la funzione primaria che i festeggiamenti di sant’Efisio non devono tradire è quella di rinnovare ogni anno un patto tra il popolo sardo e la propria memoria storica. Laddove la religione si intreccia con la politica, e il rito con la memoria, il martire di Antiochia diventa figura simbolica di un popolo che non vuole – e non deve – smettere di raccontarsi e di esistere con dignità. Non solo un santo da venerare, ma un segno da interpretare, un simbolo da rivendicare, una voce collettiva che, da più di tre secoli e mezzo, continua a dire: siamo sardi, siamo vivi, siamo liberi.


Immagine: Wikipedia

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