
Lontani ma non assenti: i figli minori della Sardegna
Ci scrive Alessandra Saiu, 33 anni di Iglesias. Vive da dieci anni a Padova, attualmente lavora nel Dipartimento di Medicina dell’Università di Padova come amministrativa, dove, fra le altre cose, cura un progetto sulle pari opportunità. Ha una formazione in ambito politico-internazionale, con competenze nella progettazione di politiche e servizi pubblici e nella comunicazione.
Cosa significa essere sardi lontano dalla propria terra? In questo articolo si riflette sull’identità sarda vissuta da fuorisede, tra stereotipi e senso di appartenenza. Un confronto con lo sguardo degli altri che diventa occasione per riscoprire le proprie radici. La distanza geografica si trasforma così in consapevolezza culturale e nell’occasione di farsi ambasciatori della Sardegna, anche quando non la si abita più.
“Ma voi sardi come vi identificate? Siete del sud, del centro oppure…” questa è la domanda che mi ha posto un mio collega dell’università il mio primo giorno di lezione a Padova. Io, sorpresa, ci ho pensato un po’. Per le problematiche economiche e sociali abbiamo molto in comune col sud Italia, eppure – in linea d’aria – geograficamente, potremmo essere del centro Italia. Forse avrei potuto cavarmela con un generico “delle isole”, ma qualcosa non tornava. Allora ho risposto: “Siamo solo sardi.”
Dieci anni fa mi è sembrata la cosa più sensata da dire e, con il tempo, questa convinzione si è rafforzata. Quando ho lasciato la mia isola la questione dell’identità sarda era un pensiero remoto. Mi era capitato di sentire tra un turista continentale e l’altro qualche “terùn” lanciato con nonchalance, ma non ci avevo mai dato troppo peso.
Le cose sono cambiate quando durante la mia prima settimana a Padova, in cerca di alloggio, una signora mi domandò di dove fossi originaria. Il mio “sono sarda” venne accolto con un verso di dissenso che significava, nell’accezione più sarcastica, “andiamo proprio bene!”
È stata una doccia fredda. Da quel momento in poi, pur di avere una casa, ho provato ad alleggerire la mia cadenza e a rivelare il più tardi possibile da dove venissi e perciò chi fossi. Non ho mai avuto un accento marcato e ne sono sempre andata fiera, vittima di quel pregiudizio instillato in molti e molte di noi, secondo il quale “il dialetto” è poco educato, se poi è del sud o delle isole è da ignoranti e sgradevole da ascoltare. Negli anni successivi, da studentessa prima e da lavoratrice poi, dichiarare “sono sarda” è diventato liberatorio. Non c’è cosa che mi renda più felice di quando mi domandano di dove io sia originaria.
Questo percorso di riappropriazione della mia identità è iniziato proprio grazie alla percezione degli altri della mia sardità. Una cosa per me scontata, un accessorio con cui sono nata, qualcosa che non ho scelto. Ma oggi scelgo ogni giorno di muovermi nel mondo identificandomi come sarda. Il primo scambio con quella signora mi ha fatto riflettere: intanto ho capito che potenzialmente tutti possiamo essere considerati inferiori rispetto a qualcuno e, in secondo luogo, ho capito che chi ti ritiene in qualche modo inferiore, si aspetta che tu sia connivente con questa percezione che ha di te. Un caro amico siciliano, lavorando in ambito ospedaliero, si è sentito dire: “Per fortuna che il suo accento non è marcato!” come se fosse un’ovvia osservazione, perdipiù in un contesto regionale, il Veneto, in cui chiunque parla in dialetto in qualsiasi luogo, anche in situazioni formali, anche se l’interlocutore non capisce, con grandissimo orgoglio.
Il bello di crescere in un’isola è che ti protegge dallo sguardo degli altri, ma è anche il suo limite. Quando esci da lì, l’idea che hai dell’essere diverso in modo positivo, crolla. Badate bene: la maggior parte delle persone continentali che incontrerete vi farà i complimenti per la nostra bella isola. Vi dirà che l’ha girata in lungo e in largo. Persino indosserà un abito che ha comprato in Sardegna “per solidarietà per gli incendi che ci sono lì in questo periodo!”. Vanterà l’ospitalità della nostra gente e vi chiederà con genuino stupore come mai avete lasciato un posto così bello, affondando lame invisibili nel vostro stomaco.
Tutto questo è il frutto di una conoscenza superficiale della Sardegna e delle sue problematiche. Siamo totalmente assenti dalla narrazione di questo Stato, se non in qualche reminiscenza degli abitanti del nord-est rispetto a quanto i sardi fossero temuti dai nemici durante la Prima guerra mondiale. Infatti, prima che fossero creati gli Arditi – mi raccontò una guida – erano quelli che andavano a fronteggiare il nemico col coltello fra i denti e nessuna paura di morire. Questo, in alcune zone, ha generato una sorta di riconoscimento nei nostri confronti, che, però, va perdendosi col passare del tempo.
Quello che resta oggi dell’immaginario dei sardi nel continente è forse più simile al macchiettistico personaggio Nico di Giovanni Storti. In uno dei posti in cui ho lavorato prima di quello attuale, per mesi i miei colleghi mi si sono rivolti scimmiottando la parlata sarda. In uno degli alloggi in cui ho vissuto da universitaria una ragazza faceva lo stesso trovando questo “numero” divertentissimo, nonostante avessi esplicitato il mio disagio in proposito. Mi è capitato di sentire osservazioni sull’aggressività e selvaticità delle persone sarde, certamente sulla loro arretratezza, sia da persone del nord che del sud. Non posso contare le battute sul mondo pastorale. Come non posso contare le persone prive di qualunque conoscenza sulla civiltà nuragica, sulla carta una delle più importanti del Mediterraneo, ma così sottovalutata che non la studiamo neanche nelle nostre stesse scuole.
I primi anni da sarda fuorisede mi hanno spaccato l’identità a metà: “come posso definirmi sarda con orgoglio senza vivere nella mia terra? Sono una traditrice. Sto contribuendo all’impoverimento della mia isola” e mi hanno riempita di preoccupazioni e rimorsi nei confronti della famiglia. Sono sparita dalla maggior parte delle foto delle celebrazioni dei parenti, qualcuno mi ha detto che ho perso l’accento, qualcun altro che mi sono dimenticata da dove vengo. Poi sono arrivati i primi funerali importanti e la decisione di prendere ferie per parteciparvi, trovarmi a spendere anche cinquecento euro per un biglietto di solo andata e, persino, ringraziare per il privilegio di potermelo permettere.
Non poco tempo fa ho visto su Instagram un post che invitava i sardi fuorisede a rientrare nella propria terra e a “non farsi solo i selfie d’estate al mare”. Come a dire: voi avete fatto la scelta comoda, avete abbandonato la nave e vi prendete solo il meglio, come i turisti. Eppure, citando Emigraos dei Menhir: “Gai comente una mama cresche fizos chin amore, sa Sardigna no s’irmentica de unu fizu minore”
Dopo tanti anni, vivendo in una città che mi ha permesso di entrare in contatto con persone di qualsiasi parte d’Italia e del mondo, ho rimesso assieme i pezzi. Raccontando la mia isola agli altri e vedendomi attraverso il loro sguardo, ho ritrovato me stessa. Forse, il fatto che io non calpesti ogni giorno la mia terra può rendermi una figlia minore, ma io la racconto a chi non la conosce: spiego le ragioni del no alla speculazione energetica, racconto che non esistono solo i Mamuthones e che quelli non sono solo riti apotropaici, mostro le foto del giro delle sette chiese della mia Iglesias, pratico sa mexina come facevano le mie nonne, metto in mano le novelle di Grazia Deledda agli ospiti che invito a casa e tanto altro.
Forse è questo il valore aggiunto dei sardi fuorisede, che si fanno ambasciatori di una terra relegata alla periferia di uno Stato che la conosce quasi per nulla. E, fintanto che di questo Stato facciamo parte, fintanto che altri scelgono per noi, essere compresi dai continentali non è poca roba. Quindi, cari fratelli e sorelle sardi in Sardegna, abbiate pazienza con noi che aneliamo il bagno nelle nostre acque come un battesimo di rinascita alla vita. Sappiate che voi portate un’estremità della croce e noi l’altra.
Immagine: blogsicilia.it
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Noi veneziani sopraffatti e disarmati da un turismo che ci è estraneo, percepiamo la tua presenza anche nel silenzio. Forse è un legame magico e profondo, radicato nel tempo che ci unisce in modo inconfondibile.