
Su riarmo europeo, esercitazioni, democrazia
È dei giorni scorsi la notizia che nel corso dell’esercitazione Joint Stars 2025 alcuni militari sono rimasti feriti. Si simulava la repressione di disordini di piazza o di cosiddetta guerriglia urbana, uno scenario fin troppo familiare nell’Europa di questi anni e, evidentemente, piuttosto realistico. Come nella realtà, a dispetto delle cronache (basate sempre sulle veline delle questure), ci hanno rimesso i manifestanti civili (benché “finti”). Ha un che di grottesco e persino di comico, questa storia. E infatti è stata commentata con sarcasmo in giro per i social. Resta però il fatto che nelle esercitazioni militari, svolte con così grande dispiegamento di mezzi e dispendio di risorse, nonché largo uso di propaganda e strumenti di persuasione delle masse (vedi Joint Stars Charity), ci si eserciti a contrastare le proteste popolari.
Non è un caso isolato e occasionale. Nel 2023, sempre in occasione della mega esercitazione sarda di quell’anno, lo scenario era simile, ma aveva una connotazione ancora più inquietante: veniva inscenato un conflitto “separatista” (una delle fazioni coinvolte era denominata “Nuragicum”: chissà a cosa alludeva).
Non sono notizie che campeggiano sulle prime pagine delle testate sarde. Su quelle italiane non hanno il benché minimo spazio. Ma il punto non è tanto la questione dell’asservimento della Sardegna agli interessi del comparto militar-industriale (pure faccenda serissima), e nemmeno soltanto il ruolo che appunto la Sardegna ha agli occhi della Difesa italiana e di quelle degli altri paesi europei e/o della NATO e/o di altri alleati (paganti).
Credo che il punto fondamentale che emerge da queste notizie sia la natura dell’impegno militare a cui si stanno dedicando gli stati europei e il senso della stessa politica di riarmo promossa dalla Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen.
Il dibattito sul riarmo europeo
Le due posizioni che si contendono la scena enfatizzano alcuni aspetti della questione, partendo da argomentazioni diverse: una assume come centrale la necessità dell’UE di potersi difendere a dispetto del (dichiarato e presunto ma non ancora realizzato) disimpegno USA, soprattutto contro la minaccia russa; l’altra critica essenzialmente la scelta di dirottare le risorse degli stati membri verso la spesa militare piuttosto che verso gli investimenti nel welfare e nell’istruzione.
Il dibattito è complicato, date queste premesse. Ed è – diciamolo subito – precisamente il contesto preferito dalle élite europee e dalle loro (presunte) controparti di destra estrema.
È vero che l’UE e in generale i paesi europei di cultura (più o meno) democratica hanno qualcosa da temere dalla Russia del regime putiniano. Ma non tanto nel senso che von der Leyen e soci fanno intendere. La Russia non ha alcuna intenzione né alcun interesse a scatenare un conflitto aperto nel tentativo di conquistare il Vecchio Continente fino alle sponde dell’Atlantico (come pure alcuni fautori del riarmo sostengono). Magari ha interesse a riconquistare o almeno a imporre una sua egemonia politica sui paesi dell’ex impero sovietico e prima ancora zarista (paesi baltici, Moldova, Georgia, Finlandia). La stessa guerra contro l’Ucraina, letta (puerilmente?) da molti come una “guerra per procura” (in nome e per conto della NATO o addirittura degli USA) in realtà si basa sulla pretesa russa che l’Ucraina non sia uno stato vero e tanto meno una comunità nazionale legittima, bensì solo una riottosa provincia della Grande Madre Russia (l’hanno detto e ripetuto pressoché tutti i membri e i portavoce del governo russo, da Putin in giù: basta ascoltarli). Una riottosa provincia che per giunta aspirerebbe ad essere democratica e aperta, aderendo ai valori degenerati dell’Occidente. Degenerati agli occhi dell’ideologia dominante nella leadership politica e religiosa di Mosca, alimentata dalle tesi di Dugin e da una chiara postura patriarcale, oscurantista e anti-moderna.
Questi aspetti ideologici affascinano e attraggono tutte le destre europee (e non solo). Da qui viene il legame strettissimo che il regime putiniano è riuscito a stringere con robuste, benché minoritarie, porzioni dei vari scenari politici del Vecchio Continente. A botte di finanziamenti, corruzione, incursioni sistematiche e pianificate negli spazi internettiani, ecc. È su questo piano che il conflitto con la Russia assume una dimensione concreta, non certo su quello dello scontro bellico campale. E su questo fronte l’Europa è molto indietro, nella sua difesa. Quando prova a fare qualcosa (come successo in Romania), rischia di combinare pasticci, perché dà l’impressione di voler togliere ai popoli la libertà di scegliere le proprie leadership.
Il danno purtroppo è stato fatto a monte, sul piano sociale e culturale, prima ancora che politico. Imponendo una visione unicamente liberista e individualista, sensibile agli interessi privati, su tutti gli aspetti della vita associata; rinunciando a dotarsi di principi costituzionali che evocassero diritti e libertà civili, prima ancora che astratti principi di libera concorrenza e divieti di ingerenze pubbliche nei meccanismi economici. Le élite europee hanno edificato una costruzione politica estremamente fragile, che fatica a reggere le sollecitazioni storiche di questa epoca. La responsabilità dell’ascesa delle destre populiste e la loro permeabilità al discorso reazionario del regime putiniano è soprattutto loro. Ritengono di poterle gestire, di usarle come spauracchio per mantenere lo status quo, ma si sa che questo genere di cose sfocia più facilmente in derive autoritarie, specie in momenti di crisi generalizzata. Le élite europee si illudono di poter controllare la situazione a proprio vantaggio. Ma in ogni caso hanno buone probabilità di uscirne comunque indenni, dato che sappiamo come il fascismo, nelle sue varie, possibili incarnazioni (da quello classico di Mussolini e Hitler, ai regimi golpisti sudamericani degli anni Settanta del secolo scorso), ha sempre un occhio di riguardo per i ceti socialmente ed economicamente dominanti.
La critica al riarmo europeo è molto simile sia a destra sia a sinistra. Il che dovrebbe far suonare un forte campanello d’allarme proprio a sinistra. Ma a sinistra la confusione regna sovrana da un pezzo e ormai prevalgono le fascinazioni rossobrune, le nostalgie staliniste e altro pattume ideologico. Il fulcro tematico della critica al riarmo europeo è l’argomentazione dello spreco di risorse a danno di partite di spesa pubblica più essenziali (come abbiamo visto) e il richiamo alla pace. La pace prima di tutto. Per questo, dall’altro lato del campo di gioco, coloro che promuovono queste posizioni vengono etichettati come “pacifinti”. Associandoli, però, capziosamente, a coloro che invece propugnano la costruzione della pace in termini seri e democratici.
La pace e la salvaguardia degli investimenti in sanità, servizi pubblici, istruzione e ricerca civile sono infatti obiettivi politici sacrosanti. Vanno promossi con tutti i mezzi necessari, a patto però di non diventare diversivi o essere sorretti, nella discussione in merito, da argomentazioni fallaci. Negare che la Russia di Putin rappresenti una minaccia per l’Europa, non meno dell’amministrazione USA targata Trump (infatti i due sono amiconi), è possibile solo mistificando la realtà. Addossare all’Ucraina la responsabilità del conflitto che la colpisce, aderendo in questo alla narrazione putiniana (e a quella trumpiana) è prima di tutto un errore grossolano, non rispettoso della vita e delle legittime aspirazioni della comunità umana ucraina. Che esiste, ha una sua propria agency e suoi diritti collettivi, in primo luogo quello all’autodeterminazione. In Ucraina, a dispetto di quel che sostiene molta sinistra europea e soprattutto italiana, passa una delle linee del fronte tra le ancora integre possibilità di democrazia e l’ondata nera reazionaria montante. La stessa linea del fronte che attraversa la Palestina. Alle élite europee, ad un certo punto, l’ondata nera potrebbe fare comodo come strumento di garanzia del proprio status, se proprio non funzionasse quello che hanno in mente. Tant’è che non hanno molto da ridire sulle pratiche genocidiarie del governo Netanyahu.
E le esercitazioni militari in Sardegna?
È a questo punto che mi ricollego al senso profondo e inquietante delle esercitazioni militari in Sardegna.
Lo scenario a cui i ceti dirigenti europei intendono prepararsi non è affatto un conflitto bellico su vasta scala con la Russia o con qualsiasi altra potenza extra-europea, bensì un dissenso sociale generalizzato, mobilitazioni di massa più o meno ampie, contestazioni violente di scelte politiche anti-popolari, richieste di autodeterminazione democratica e di ridisegno dell’assetto politico europeo in termini meno verticistici e oligarchici. I ceti dirigenti europei temono di più i propri popoli che la Russia di Putin (con cui, ricordiamolo, facevano affari in modo estremamente cordiale fino all’altro giorno). E i primi agenti sul campo della deriva a destra in Europa sono le fazioni fasciste, para-fasciste, cripto-fasciste e i loro fiancheggiatori di (presunta e confusa) sinistra.
Già oggi vediamo come le stesse forze dell’ordine siano estremamente attive e attente contro sia pur minime manifestazioni di dissenso pericolose per l’assetto di cose attuale (per esempio, punendo chi semplicemente espone la bandiera palestinese) mentre sono del tutto tolleranti, se non proprio protettive, verso le manifestazioni apertamente fasciste. Non sono casi sporadici e occasionali, ma una politica sistematica, gestita dall’alto. Il discorso si può estendere a livello europeo. Molte cose sono già evidenti.
La pace che dobbiamo pretendere, dunque, non è solo la “pace giusta” di cui si chiacchiera astrattamente a proposito di Ucraina e di Palestina o – un po’ egoisticamente – per la vecchia Europa. Bisogna definirne i contorni e il contenuto, bisogna associarci obiettivi e valori chiari, bisogna mantenere uno sguardo solidale e internazionalista. Non renderci conto di quello che sta succedendo davvero ci espone a un rischio terribile. Soprattutto in un luogo come la Sardegna, così deprivato, indebolito socialmente e culturalmente, amministrato da una classe politica di podatari subalterna, cialtrona e mediocre.
Dobbiamo assumere uno sguardo lucido, *nostro*, e una postura che sia basata sulla realtà delle dinamiche macroscopiche in corso, con le loro ricadute dirette e indirette sul territorio e sulla società dell’isola, o pagheremo un prezzo molto caro. Un prezzo che metterà a dura prova la nostra stessa sopravvivenza storica come comunità umana.
Immagine: ispionline.it