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Brutte notizie dal CPR di Macomer

Martedì scorso i reclusi nel blocco destro del lager (CPR) di Macomer sono stati male dopo aver mangiato il cibo datogli dall’amministrazione. In particolare un ragazzo ha accusato un forte malore e perciò è stato portato in ospedale. I medici hanno confermato che il malore era causato dall’ingestione di cibo avariato. Ieri i suoi compagni del blocco hanno iniziato uno sciopero, rifiutando il cibo e protestando contro l’amministrazione di Officine Sociali, diretta, in Sardegna, da Elizabeth Rijo, già candidata alle scorse elezioni regionali con la lista di Soru e alle comunali di Cagliari con una lista per Massimo Zedda”. Cosi segnala il blog rifiuti.noblogs.org.

E’ solo l’ultimo, tragico episodio di una condizione esplosiva cui sono costretti i “reclusi” del CPR sardo che rimane tragicamente invariata nonostante si siano succedute due ispezioni in un anno, la senatrice Ghirra nel gennaio 24 (con conseguente esposto alla procura di Nuoro), e l’assessore Bartolazzi con la senatrice Sabrina Licheri a febbraio 2025. Insomma nulla è cambiato. Nello stesso mese (febbraio 25) è stato “rilasciato”, in realtà abbandonato in una stazione, un paziente psichiatrico grave, già segnalato da oltre un anno, senza alcuna protezione o percorso di cura o accompagnamento. Pare che da allora si siano perse le tracce. E non parliamo dei numerosi tentativi di suicidio, degli scioperi della fame o delle rivolte represse. Insomma una situazione di degrado che passa il più delle volte sotto silenzio.

Eppure negli anni precedenti ci sono state alcune inchieste, servizi tv e a mezzo stampa, denunce dalle associazioni sulle intollerabili e disumane condizioni di persone “detenute” senza una causa o una colpa se non quella di essere in attesa di identificazione o riconoscimento di uno stato di diritto. Dallo scorso anno Il decreto prefettizi​​o del 23 luglio ha assegnato la gestione del CPR alla cooperativa siciliana Officine sociali. A settembre, appunto dopo le ultime verifiche, la nuova gestione è subentrata alla tristemente nota cooperativa Ekene (responsabile della situazione precedente ma senza aver dato conto delle sue azioni). La nuova gestione era stata esclusa da precedenti bandi perché l’offerta era stata giudicata eccessivamente bassa. Questo in parte chiarisce le condizioni attuali. A denunciare tutto questo in Sardegna, sono state nel tempo numerose associazioni come Assemblea NO CPR Macomer, Lasciateci Entrare, NAGA, Rete mai più lager, che hanno sempre lottato per mettere fine a questo luogo di disumanità e sofferenza.

Ma ripercorriamo una breve storia di questo ex carcere trasformato in lager.

Dal gennaio 2020, a Macomer è attivo il CPR, Centro di Permanenza per il Rimpatrio. Si tratta di un luogo in cui uomini e donne stranieri vengono privati della libertà, non per reati commessi, ma per le difficoltà nell’ottenere o rinnovare un permesso di soggiorno. Ma prima di entrare nel merito della gravissima situazione sarda, facciamo qualche passo indietro sui passaggi che hanno portato alla istituzione di questi luoghi in cui i diritti umani minimi spesso vengono violati o cancellati.

Nel loro percorso dalle origini, questi centri, noti anche come CPT, CIE e oggi CPR, esistono dal 1998 e sono a tutti gli effetti luoghi di privazione della libertà personale, riservati a cittadini non provenienti dai paesi UE, risultati al controllo delle forze dell’ordine, presenti irregolarmente e in attesa di una loro identificazione o riconoscimento di condizione (tra cui profughi, rifugiati politici, migranti in attesa di documenti). Il Testo Unico Legge 40/1998, noto come Turco-Napolitano, stabilisce la realizzazione dei primi Cpta/CPT (Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza) in cui le persone potevano essere trattenute per un periodo massimo di 30 giorni. La Bossi-Fini, Legge del 30 luglio 2002, n. 189, raddoppia il tempo massimo di detenzione che diviene di 60 giorni. I centri non diventano per questo “più efficienti” nel provvedere ai rimpatri dei destinatari di decreti di espulsione, anzi, c’è un calo del numero dei rimpatriati, mentre aumentano le denunce per violazioni dei diritti umani ai danni dei migranti.

Fin da subito appare evidente lo stato di degrado dei luoghi predisposti all’accoglienza, con situazioni spesso ai limiti della disumanità: strutture fatiscenti, cibo scarso e malsano, assistenza sanitaria inadeguata o peggio, nessuna possibilità di rapportarsi con il mondo esterno. Si apre un’inchiesta parlamentare, numerose associazioni per i diritti umani protestano e tentano di intervenire all’interno dei centri, ma le risposte che vengono dai governi si dirigono nel senso opposto. Nonostante la cosiddetta “direttiva rimpatri” (115/2008) emanata dalla UE stabilisca che il trattenimento deve costituire l’estrema ratio per identificare una persona irregolarmente presente sul territorio di uno dei paesi membri, il governo Berlusconi porta a sei mesi, attraverso il “pacchetto sicurezza”, il tempo massimo di detenzione e modifica il loro nome in CIE.

Nel luglio 2009 l’ulteriore stretta, il termine viene portato a 180 giorni. Strutture pensate per essere di transito diventano, per ammissione degli stessi “ospiti”, peggiori delle carceri e in questo momento si registra il maggior numero di rivolte, di tentativi di fuga o di suicidi. Con il Decreto legge 89 del 2011 il termine della detenzione viene protratto a 1 anno e mezzo. Qualche mese prima, intanto, attraverso la direttiva 1305 del primo aprile, il governo Berlusconi aveva deciso di restringere l’accesso ai Cie solo ad alcuni soggetti con esclusione della stampa. Da qui parte la campagna LasciateCIEntrare, organizzazione presente anche in Sardegna da quando, nel 2020, è stato istituito il centro di Macomer e che ha contribuito a diffondere informazione su questi “lager” in cui spesso a malapena si sopravvive. Una nuova fase sembrava aperta dopo le mobilitazioni di questa associazione, dopo una parziale messa in discussione delle politiche fallimentari di detenzione e una sensibile diminuzione dei giorni di trattenimento: a ottobre del 2014, un emendamento dei senatori Manconi e Lo Giudice alla legge Europea 2013 bis ha consentito la riduzione del periodo massimo di trattenimento degli stranieri all’interno dei CIE a novanta giorni. È inoltre diminuito il numero dei Centri.

Tuttavia le disposizioni della Legge Minniti-Orlando (decreto n. 13 del 17 febbraio 2017), riprese in seguito dal ministro dell’Interno Salvini, sono andate in tutt’altra direzione: sono stati rinominati come Centri di Permanenza per il Rimpatrio (gli attuali CPR) con la previsione di un aumento della loro dislocazione nei territori (altro che chiusura!) e l’incremento dei giorni di trattenimento è tornato da 90 a 180 giorni (Decreto su immigrazione e Sicurezza del 5 ottobre 2018) . Attualmente, i Cpr in Italia sono 10: Milano (Via Corelli dove di recente si è suicidato un giovane gambiano), Torino, Gradisca d’Isonzo, Roma, Palazzo San Gervasio, Macomer, Brindisi-Restinco, BariPalese, Trapani-Milo, Caltanissetta-Pian del Lago, con una capienza teorica di circa 1.105 posti. Nel marzo 2023 è stato chiuso il Cpr di Torino (capienza 144 posti), a seguito delle proteste dei migranti contro le condizioni di detenzione, che hanno reso del tutto inagibile la struttura. Tranne che per le grandi città come Roma e Milano, gli attuali centri sono collocati in aree periferiche, distanti dai centri abitati, spesso in edifici abbandonati o dismessi come carceri o caserme e riadattati ma sempre con funzioni di coercizione e super controllo, circondati da fili spinati, presidiati da forze dell’ordine, in una situazione di pericolosissima “extraterritorialità giuridica”, in cui non trovano applicazione neanche quei principi costituzionali che dovrebbero considerarsi inderogabili per tutti e tutte.

Inoltre, e qui si apre un capitolo davvero inquietante, se inizialmente la gestione dei Centri era stata affidata alla Croce Rossa, si è poi verificata una privatizzazione del servizio, che riguarda ogni ambito della gestione interna. Le singole Prefetture, infine, nelle gare per la gestione dei Centri, aggiudicano gli appalti in base al criterio di una “offerta economicamente più vantaggiosa” rispetto alla base d’asta. Dunque maggiore è il ribasso offerto dai concorrenti, maggiori saranno le possibilità di vedersi aggiudicata la gara. «In Sardegna l’apertura del Cpr ha trovato il pieno consenso politico degli amministratori regionali e locali coinvolti». È stata presentata «come strumento di deterrenza per lo sviluppo della rotta Algeria-Sardegna, attraverso la quale per lo più algerini, ma anche tunisini e libici, salpano dalla zona di Annaba per giungere sulle coste sud-occidentali dell’isola a bordo di piccole imbarcazioni»; così scrive Francesca Mazzuzzi di LasciateCIEntrare Sardegna in un documento del 2020.

«Per il territorio del Marghine si tratta dell’ennesima servitù dello Stato italiano che lascia briciole nella ex zona industriale del centro Sardegna. Briciole per sfamare pochi lavoratori il cui scopo è quello di trattenere in prigione altri disperati senza un documento di soggiorno ma che combattono la stessa guerra per i diritti, la dignità e il lavoro. Il sistema di affidamento a privati della gestione dei Centri di detenzione amministrativa per stranieri comporta il prevalere delle logiche di mercato, traducendosi nella riduzione della qualità dei servizi erogati e nella frequente violazione del rispetto dei diritti fondamentali delle persone ristrette» (Comitato NO CPR Sardegna). Nello stesso documento sono denunciati episodi di estrema gravità: «Risse, ferimenti, tentativi di suicidio, atti di autolesionismo e molto altro hanno continuato a susseguirsi … ricordiamo l’episodio che ha visto protagonista uno dei prigionieri, che esasperato dal rinvio del suo rilascio dalla struttura è salito su un muro per urlare il suo desiderio di libertà precipitando poi giù. Tempo fa, un uomo si è cucito la bocca con ago e filo, e a questi episodi si aggiungono gli scioperi della fame e i tanti momenti di una rivolta ininterrotta all’interno del CPR che porta spesso le persone rinchiuse a salire sul tetto della struttura in segno di protesta per condizioni di vita disumane».

Per capire ancora di più la situazione alle origini “’idea è stata fortemente voluta dall’amministrazione dell’epoca di Macomer- ribadisce in un’intervista Edoardo Lai dell’assemblea NO CPR Macomer- con l’ottica tipica poi di certi gruppi di potere locali, ovvero quella di creare dei posti di lavoro, e inizialmente le uniche opposizioni a questo centro sono state quelle delle compagini di centrodestra che allora erano all’opposizione, sia in Regione che in Comune, agitando lo spettro del pericolo immigrazione. In questi anni è sempre stato un po’ difficile parlare del CPR a Macomer per vari motivi: un motivo è un po’ questa situazione qua, nel senso che comunque chi ha voluto questa struttura era un gruppo di potere molto forte nel territorio.Oltretutto stiamo comunque parlando di un’area molto poco densamente popolata e molto in difficoltà da un punto di vista socio-economico. Cioè, è un paese che ha perso comunque più di 2.000 abitanti in 20 anni, che si reggeva grazie alla presenza di una zona industriale che è entrata in grave crisi già dagli anni 90 e che non si è mai realmente risollevata; quindi è un paese che sta perdendo popolazione e in cui c’è un grosso problema economico legato alla mancanza di prospettive occupazionali.”

Insomma stiamo parlando di una realtà che vede la Sardegna sempre subalterna a decisioni esterne e centraliste collegate a gruppi di potere locali trasversali dalle quali emerge una visione colonialista anche nell’ambito delle strutture detentive (dunque carceri e anche CPR). In generale la politica nei confronti dei migranti resta quella repressiva, tanto che per il 2023 il Governo in carica ha stanziato fondi in bilancio per la costruzione di un Cpr in ogni regione e nel 2024 ha realizzato l’accordo con il primo ministro albanese Edi Rama per la creazione di centri simili in Albania, gestiti e pagati dal nostro paese. Dei quali abbiamo finalmente visto tutta l’inconsistenza nonché il pasticcio giuridico che ne ha fortemente condizionato l’utilizzo.


Immagine: rivista Camineras

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