Le elezioni confermano la Sardegna come periferia subalterna dell’Italia

de Omar Onnis

A urne ancora calde, possiamo fare giusto alcune valutazioni generali, senza addentrarci nell’analisi puntuale del voto. 

Alessandra Todde batte di poco Paolo Truzzu e diventa la prima donna presidente della Regione Autonoma Sardegna: è già una notizia. Senonché, la prima cosa che fa è festeggiare con i suoi padrini/mandanti, ossia i segretari del PD e del Mov. 5 stelle. È chiaro a chi risponderà del proprio operato. Per inciso, le donne elette sono comunque pochissime: 9 su 60.  

Il centrodestra a trazione Fratelli d’Italia perde sì la presidenza ma tutto sommato non sembra nemmeno che abbia perso. Del resto, a livello di liste, ha surclassato il centrosinistra. Hanno vinto un po’ tutti, dunque, nel sistema bloccato dell’oligarchia sarda. Soprattutto perché è stato escluso qualsiasi terzo incomodo. 

Al di là di questo, uno degli aspetti che mi ha colpito di più della campagna elettorale è stato lo sguardo con cui è stata seguita dai mass media e dall’informazione italiani. Sostanzialmente ignorata fino all’ultimo, la competizione elettorale sarda è stata infine osservata con distacco da oltre Tirreno e solo ed esclusivamente in ottica italiana. La Sardegna doveva essere “un laboratorio”, per capire i rapporti di forza tra partiti di maggioranza e di minoranza a Roma. Una cavia, insomma.

Tanto le precedenti esperienze di governo, quanto le questioni fondamentali ancora aperte su cui erano chiamati a confrontarsi le quattro candidature sarde non hanno avuto alcun peso. Non si è mai parlato dei problemi concreti dell’isola, dei disastri delle varie giunte regionali, della pessima legge elettorale o di qualsiasi altro elemento rilevante nel dibattito sardo, bensì pressoché solo dei riflessi che il voto sardo avrebbe avuto sul quadro politico italiano.

La Sardegna per i mass media italiani rimane ancora oggi un oggetto misconosciuto, sempre da scoprire con sorpresa. Ma i suoi problemi strutturali e le loro radici storiche non sono mai contemplati. La lettura è sempre quella paternalistica e coloniale di una terra bella e misteriosa, ancorata a un passato ancestrale, “diversa”, ma chiaramente italiana al 100% (specie se c’è qualche eccellenza da vantare).

Non è considerata la possibilità che la popolazione locale abbia una propria soggettività, sia animata da proprie dinamiche sociali e politiche, che esista in quanto tale e non come proiezione periferica e marginale dell’Italia.

I “big nazionali” (come vengono definiti dai media sardi i leader e i rappresentanti delle case madri politiche in visita nell’isola) si sono approcciati alla campagna elettorale con la solita commistione di paternalismo e malcelato razzismo. I sardi sono stati per l’ennesima volta etichettati come orgogliosi, ospitali, fedeli: un po’ i migliori amici dell’uomo, insomma.

E nessuno li ha gettati in mare a calci nel sedere. Del resto, non può esserci soggezione e subalternità senza la compiacenza dei subalterni. Anche la sorpresa generalizzata con cui è stata accolta la vittoria di Alessandra Todde discende dalla totale ignoranza italiana a proposito della Sardegna.

Il bias interpretativo che vuole la politica sarda come emanazione ancillare dei processi politici italiani impedisce di vederne le dinamiche interne. La pigrizia e la noncuranza tipiche di molto giornalismo mainstream fanno sì che non si tenga conto nemmeno di dati macroscopici e facilmente conoscibili.

Per esempio, la costanza con cui, da quando esiste l’elezione diretta del Presidente della Regione (2004), si alternano alla guida dell’isola centrodestra e centrosinistra. Dinamica cristallizzata, nelle ultime tre tornate elettorali, dalla legge che ne presiede il funzionamento (del 2013).

Una legge elettorale oggettivamente antidemocratica (benché difesa e giustificata dagli esponenti politici delle forze egemoni in Sardegna e dall’intellighenzia ad esse organica), che ha bloccato il già marcescente sistema politico isolano e lo ha consegnato alla messinscena di una competizione democratica fittizia, in cui a perdere è sostanzialmente la maggioranza dell’elettorato, vuoi perché ormai una sua parte consistente non vota nemmeno più, vuoi perché ogni possibile alternativa reale viene esclusa dalla rappresentanza.

Chi vince le elezioni, le vince in virtù di un consenso elargito da meno di un quarto del corpo elettorale. Il consiglio regionale è interamente occupato da forze politiche che rappresentano meno della metà dell’intero elettorato. Di tutto questo non c’è traccia nelle cronache italiane e nelle dichiarazioni dei “big nazionali”.

Così come non c’è traccia della questione trasporti e della cronica carenza infrastrutturale, del pesante sfruttamento militare di una porzione enorme del territorio, del disastro della sanità pubblica, della drammatica situazione demografica, dell’estrema difficoltà del comparto scolastico, della povertà crescente, del rapace attacco speculativo in ambito energetico. Su cui, per l’ennesima volta, la neo-eletta maggioranza e la giunta da essa sostenuta non potranno fare nulla di decisivo, se non in termini peggiorativi.
Ma andrà bene comunque.

Immagine: tg24sky.it

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