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160 anni d’Italia. Ma esiste una coscienza nazionale italiana?

de Alessandro Frongia

Ieri in Italia si celebrava la “Giornata dell’Unità Nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera”, quest’anno, teoricamente, non di poco conto dato che l’anniversario ha raggiunto una “cifra tonda”. Il 17 marzo 1861 infatti, 160 anni fa, il Parlamento del Regno di Sardegna riunitosi a Torino, formalizzò l’intitolazione a Re d’Italia per l’allora regnante Vittorio Emanuele II di Savoia e i suoi successori, ufficializzando quindi l’Unità d’Italia. Una data cardine che in qualsiasi Stato verrebbe festeggiata e onorata, ma non in Italia.

È stata infatti vagamente celebrata dalle istituzioni in primis, se non con un comunicato pro forma del Presidente della Repubblica Mattarella emanato in mattinata e da qualche dichiarazione delle alte cariche con toni ovviamente trionfalistici e nazionalistici, ma questa dimenticanza è mostrata soprattutto dai media e dal sentiment della popolazione.

Nessun quotidiano a tiratura nazionale
 mostrava ieri in prima pagina alcun accenno all’evento, se si esclude La Stampa, che dedicava sopra la testata un’anteprima dello speciale di due pagine. È quasi emblematico che a farlo fosse solo il giornale con sede a Torino, storicamente legato alla borghesia piemontese e alla Casa sabauda.
Tra l’altro, se le opinioni dei docenti di storia contemporanea intervistati – Luciano Villari e Emilio Gentile – esaltavano l’Unità, invece l’articolo a firma di Gianni Oliva titolava L’anniversario 160 anni fa, l’Italia fra interessi e coscienza nazionale, oltre a riportare un excursus sulla genesi di quell’Unità, criticava apertamente le fasi immediatamente successive – “La classe dirigente nazionale applica una politica di rigida centralizzazione, estendendo a tutto il Paese le leggi e l’organizzazione piemontese. Sordi alle voci che parlano di federalismo e di attenzione alle differenze storiche del Paese, i vari che si succedono alla guida del governo, impongono una «piemontesizzazione» a tappe forzate che delude le attese delle regioni meridionali” valutandole come la causa dell’assenza di celebrazione – Impossibile, in quel contesto storico, pensare al 17 marzo come data unificante: …gli italiani sono ancora «da fare», hanno storie, tradizioni, costumi, dialetti, attitudini differenti.”).

I cittadini hanno invece ignorato l’evento
 o addirittura l’hanno usato come occasione di scontro: su Twitter ad esempio sono arrivati in tendenza contemporaneamente gli hashtag #UnitadItalia e #IONONFESTEGGIO.

Ecco quindi che è lecito chiedersi: “Esiste una coscienza nazionale italiana?”. Beh, non si può non concordare con l’analisi di Oliva: gli italiani son da fare e forse non si faranno mai. E osservare come vengano prese le celebrazioni nazionali, in teoria occasione di unione, è esercizio facile per capire quanto il traguardo sia molto lontano. Non sorprende che il loro Stato non abbia l’Unità come giorno rosso in calendario, ma celebri con un festivo, ad esempio, il 2 giugno la proclamazione della Repubblica, cioè la celebrazione di un esito referendario sull’orlo del fifty-fifty, e il 25 aprile la Liberazione dal nazifascismo, annuale occasione più per scontri politici che altro, di certo non festività emblema di coesione nazionale. Paradossalmente, quest’ultima è capace di unire sardi e italiani, inclusi diversi esponenti politici dell’autodeterminazione nonché suoi semplici militanti e simpatizzanti, sotto il segno dei valori della Resistenza nonostante essa in Sardegna non ci sia mai stata, ma questo forse merita un approfondimento a parte.

Personalmente, poi, mi colpì l’uscita del direttore de L’Espresso Marco Damilano il 19 febbraio scorso che, dal palco della trasmissione televisiva Propaganda Live su La7, analizzava ironicamente le parole di Michaela Biancofiore dopo il discorso di Mario Draghi alla Camera. “Un discorso gravido di italianismo” disse lei, e Damilano commentò con tanto di risata e spallucce: Italianismo: qualunque cosa esso voglia dire.E in effetti basta fare una ricerca per notare come non ne esista una definizione.

Subito mi è venuto in mente il nostro contraltare, la parola “sardismo”. Ecco, sebbene spesso abusata ma anche sbeffeggiata, osannata ma anche stravolta, forse dovremmo in primis non darla per scontata questa parola. Al netto delle proprie opinioni politiche, bisognerebbe quindi sempre tenere in mente che solo l’esistenza del “sardismo” è sinonimo di esistenza di un popolo, e quindi legittimazione di coscienza nazionale.
Sardismo e celebrazioni: a differenza degli italiani, quindi, siamo un popolo. E un popolo ha diritto e dovere di celebrarsi per testimoniare di esistere. È pertanto doveroso, ma anche motivo d’orgoglio, ricordare che fra poco più di un mese avremo l’occasione di celebrare Sa Die de sa Sardigna, chiamata ufficialmente proprio “Giornata del Popolo Sardo”. Una festa natzionale vera e propria, festiva e di tutti, simbolo di coscienza nazionale.

L’unica cosa in comune con l’Italia è che troppo spesso anche la Regione Sardegna ha sminuito e ignorato la celebrazione, seppur non per mancanza di riconoscimento dell’esistenza di un popolo quanto più per motivi politici (al contrario di ieri, in cui ha illuminato di tricolore il Consiglio Regionale…). Sarebbe bello quindi che anno dopo anno l’Assemblea Natzionale Sarda si facesse promotrice della crescita di tale commemorazione sostituendosi sempre più a viale Trento, magari ampliandone il significato e lo scopo. Non più un’occasione di rivendicazione, spesso ad occhi esterni risultante sterile e obsoleta visti i fatti ormai pluricentenari, non una “festa feticcio” per indipendentisti e autonomisti come a volte capita, ma seppur mantenendo l’importanza della rievocazione storica, diventi semplicemente la celebrazione dell’essere sardi.

Una festa laica e di popolo, spesso anche sopra le righe, sulla scia del 14 luglio per i francesi e del Koningsdag in Olanda, agli antipodi nel concetto (repubblicana la prima, monarchica l’altra), ma analoghi nell’identificazione comune. Un momento non solo per riflettere ma anche e soprattutto per sentirsi uniti, per sentirsi un Popolo e quindi progressivamente per acquisire quella consapevolezza che solo noi possiamo decidere il nostro destino.

Sarebbe bellissimo quindi che sempre più sardi aderiscano ad Assemblea Natzionale Sarda e lavorino a questo progetto comune, proprio perché nessuno farà le cose al posto nostro e nessuno raggiungerà il benessere in Sardegna senza muovere un dito in prima persona. Perciò, con buona pace degli italiani e delle loro non feste, esaltiamo con orgoglio la nostra coscienza nazionale: celebriamo l’essere Sardi, e basta.


Fotografia: Consiglio Regionale della Sardegna (Facebook)

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3 commenti

  1. Tutt’altra storia la Francia perché unificata prima perché se si fosse unificata nel 1900 ad esempio oggi sarebbe più disunita di noi e perché avuto molto più tempo per eliminare i dialetti nazionali francesi regionali? E soprattutto amalgamare la popolazione con le emigrazioni interne?

  2. Salve, sono Alessandro Frongia, l’autore dell’articolo. Il discorso linguistico nell’articolo non è stato trattato e non era inerente nello specifico. Se volessimo discuterne però, l’oppressione linguistica italiana è avvenuta già prima che l’Italia diventasse uno Stato unitario, ci sono tracce di italianizzazione e oppressione del sardo dai tempi del Regno di Sardegna sabaudo. Ciò nonostante, a differenza della Francia, questa omologazione non è avvenuta totalmente.
    A prescindere da questo, l’articolo mostrava come non esista, a oggi, un sentimento condiviso di popolo in Italia in quanto le celebrazioni nazionali non sono neanche conosciute e quelle conosciute son spesso divisive. L'”italianità” è un concetto che spesso si propaga con stereotipi o auto-elogi che gli stessi italiani autoalimentano. In futuro chissà, ma al momento non sembrano esserci le condizioni per le quali il compimento di questo sentimento possa avvenire diventarlo a breve.

    Un saluto.

  3. Risponde l’autore:

    “Non a priori, ma allo stato attuale l’Italia non ne ha le caratteristiche e non sembrano esserci le condizioni per le quali possa diventarlo a breve.

    È la storia che parla. L’Italia esiste da poco e non è mai stata robustissima, come comunità immaginata. La Francia ha tutt’altra storia ‘nazionale’.”

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