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A cosa serve la storia?

de Omar Onnis

La lunga intervista concessa da Giovanni Ugas a S’Indipendente ha toccato diversi temi che esulano dallo specifico oggetto del mestiere di archeologo e chiamano in causa questioni decisive, sempre poco amate da larga parte dell’intellettualità sarda, accademica e non, eppure sempre sul tappeto.

La lettura che diamo del passato non è mai neutra e nemmeno neutrale. Per quanto possa essere onesta e pignola, la ricerca storica pone sempre nuove domande alle vicende delle epoche trascorse, dunque è possibile che trovi risposte anche diverse. Non tanto, o non prevalentemente, riguardo la ricostruzione dei fatti, quanto sul loro senso, le loro connessioni, le loro cause e i loro effetti. Inoltre è inevitabile che le domande mutino in funzione degli assetti di potere, culturale e politico, in cui si esercita la funzione dello storico o dell’archeologo. 

In Sardegna esiste da tempo una grande attenzione verso il lontano passato dell’isola. In parte è comprensibile, data l’incombenza materiale dei manufatti ereditati da epoche antiche. È impossibile vivere o anche solo passare in Sardegna senza imbattersi nei lasciti monumentali dell’Età del bronzo. Così com’è difficile ignorare la diffusione dell’architettura romanica medievale, che tuttavia è quasi sempre etichettata come “pisana” e molto meno celebrata dei nuraghi. 

Forse è anche per questa presenza fisica di testimonianze del passato che la Sardegna, in epoca contemporanea, ha facilmente assorbito lo stereotipo della terra antica, in cui il tempo non sembra essere trascorso come altrove e in cui il passato è sempre presente e attivo. Da un lato, è un elemento della mitologia identitaria coloniale, che ci portiamo appresso da quando è stato necessario classificare l’isola e chi la abita per inserirla nel contesto statale (dunque culturale e storico) italiano. La diversità come mancanza, come condizione irrisolta, non autosufficiente. Stereotipo a cui si connettono poi tutti gli altri: la barbaricità congenita, specie delle aree interne; la diffidenza che però può trasformarsi in ospitalità; l’indole passionale, che si sfoga o nella propensione criminale o nel valore militaresco; l’incapacità di unirsi e di lavorare insieme; e via elencando. Il problema di una parte dell’opinione pubblica isolana e di alcuni intellettuali, militanti a difesa dell’identità sarda, è che non hanno mai messo in discussione tale mitologia, ma semplicemente – come fece a suo tempo il sardismo, e in primis i leader del movimento dei reduci post Prima guerra mondiale e poi del PSdAz – l’hanno acquisita, metabolizzata e ribaltata di segno. 

L’identitarismo sardo attuale ha molta difficoltà a sottoporre a scrutinio il costrutto storico, situato e obiettivamente sminuente dell’identità sarda comunemente intesa. 

In questo, il culto della grandezza passata della Sardegna nuragica, il mito della “costante resistenziale”, il permanentismo radicato per cui la popolazione sarda di oggi ha la sua ascendenza diretta e non mediata in quella di 30 o 35 secoli fa, e dunque tutta l’enfasi sulla storia antichissima dell’isola, hanno un peso determinante. La stessa identificazione tra Sardi (dell’Età del bronzo) e gli Shrdn di alcune fonti di quei tempi lontani (pronunciatelo come volete, tanto non sapremo mai se è giusto o sbagliato) è un problema che avrebbe un ruolo minimo, negli studi archeologici e storici, se non si portasse appresso connotazioni culturali e politiche così ingombranti.

Naturalmente, le tesi di Giovanni Ugas sono legittime. Del resto, come esponente accademico, ha avuto modo di esporle e pubblicarle senza difficoltà. Sottoposte al vaglio  della comunità scientifica, hanno suscitato perplessità e obiezioni, com’è inevitabile. Ciò non toglie che abbiano dalla loro delle argomentazioni e degli agganci con le fonti e gli studi disponibili. Personalmente, non essendo un addetto ai lavori, non posso entrare nel merito delle sue conclusioni. Posso giusto esprimere delle generiche riserve di tipo metodologico. Credo che non si possa fare così tanto affidamento su fonti difficilissime da interpretare, come quelle egizie o quelle mitologiche o protostoriche antiche, su cui i riscontri sono complessi e spesso impossibili, anche in presenza di lasciti materiali significativi. Del passato sappiamo sempre molto poco. Sappiamo poco dell’epoca romana, figuriamoci dell’Età del bronzo o del ferro. Possiamo serenamente affermare che non abbiamo speranza di saperne molto di più, salvo aggiungere pezzetti di informazione tramite nuove tecniche di indagine e/o nuovi ritrovamenti. Ma si tratterebbe comunque sempre di avanzamenti relativi e parziali, per altro sempre falsificabili.

Questo per dire che trarre conclusioni troppo definite e categoriche su quei tempi lontani ha sempre un che di convinzione personale, di narrazione idiosincratica, legata alle proprie esperienze, ai propri studi specifici, alle proprie sensibilità ideologiche e a mille altri fattori esterni alla disciplina storica o archeologica in quanto tale.

Prendiamo atto delle tesi di Giovanni Ugas, così come prendiamo atto delle obiezioni che sono state fatte in risposta, senza trarne inferenze che esulino dal loro oggetto.

Andando oltre, invece, l’obiezione più importante che mi sento di fare è che qualsiasi ricostruzione del nostro lontanissimo passato, glorioso o anonimo che sia, non ci dice nulla sulla Sardegna di oggi, sulla nostra condizione storica attuale, sui nostri problemi e su come affrontarli. È davvero necessario ancorare la nostra identità collettiva contemporanea a un mondo tanto diverso e su cui sappiamo così poco? Possiamo avere ogni legittima idea sul concetto di nazione e su come applicarlo alla Sardegna, ma ciò non ha alcun legame su quello che facevano, pensavano, dicevano le comunità umane che abitavano l’isola millenni fa, comunque si chiamassero.

Sia chiaro, ciò non significa che non dobbiamo perseguire la conoscenza *anche* di quelle epoche e di quelle genti. Anzi, questo rimane un dovere, data la rilevanza anche solo visiva e materiale che hanno i loro lasciti. È doveroso studiare, ricostruire, narrare ed è doveroso farlo in connessione con gli studi internazionali, inserendo la ricerca sarda a pieno titolo dentro la circolazione di informazioni e idee che poi è l’anima stessa della ricerca storica e scientifica. Forse su questo piano la Sardegna è ancora indietro, un po’ troppo ripiegata su se stessa e troppo tributaria verso l’ambito accademico e culturale italiano. Qui forse si potrebbe aprire un ulteriore inciso sullo stato di salute degli studi in Italia e di conseguenza in Sardegna, ma sarebbe un tema a sé stante, per il quale rimando ad altra sede e ad altre voci, più competenti della mia.

In definitiva, i problemi posti dall’intervista a Giovanni Ugas non attengono tanto alla validità scientifica della sua identificazione tra genti sarde dell’Età del bronzo e gli Shrdn. È una teoria, se ne può discutere. Comunque sia, anche se fosse confermata e accettata dalla comunità archeologica e storica, essa non ci direbbe poi molto sulla vita, gli usi, le conoscenze e la cultura di quei nostri lontani antenati. Ci direbbe qualcosa, forse aiuterebbe a inserire meglio le vicende sarde dentro i processi di quei tempi, ma entro certi limiti. Che la Sardegna dei nuraghi fosse una terra importante, probabilmente ricca e con relazioni attive in giro per il Mediterraneo mi paiono conoscenze abbastanza acquisite, persino presso la parte di comunità archeologica che guarda sempre con estremo sospetto alle posizioni eterodosse e con conclamata ostilità a qualsiasi cosa suoni anche solo vagamente – per usare la discutibile terminologia di Rubens D’Oriano – fantarcheosardista.

La storia ha sempre avuto un suo portato politico. La stessa disciplina storiografica dopotutto nasce nel corso dell’Ottocento come “narrazione nazionale”, come elemento del processo di nation e state building e anche come giustificazione delle pretese di supremazia delle potenze europee una sull’altra e sul resto del pianeta. L’archeologia non è mai sfuggita a questa proiezione politica sul passato. Il ruolo dell’archeologia e della storiografia romana in Italia è ben noto. Ma basterebbe pensare a ciò che significano per Israele gli studi archeologici, in connessione con i fondamenti biblici del sionismo. Non mi stupisce che anche in Sardegna le discipline storiche rispondano a esigenze e aspettative che con la ricostruzione del passato hanno a che fare solo strumentalmente. Tanto più che la nostra condizione di comunità storica subalterna, sottoposta a forme a tratti molto pervasive di acculturazione forzata e di colonizzazione culturale, spiega di suo l’esigenza di cercare nel passato le giustificazioni per rivendicazioni attuali. E prima ancora spiega e giustifica la pretesa che sia la comunità umana sarda ad avere voce in capitolo nella narrazione del proprio passato (cosa ancora oggi non così scontata). Tuttavia, ancorare la nostra conoscenza del passato a tesi precostituite, che la ricerca dovrebbe limitarsi a confermare o avvalorare, è comunque sbagliato. Sia che lo si faccia per giustificare la nostra subalternità e la nostra dipendenza, come a lungo si è fatto in epoca contemporanea (e in parte si fa ancora), sia che lo si faccia per corroborare aneliti nazionalisti e aspirazioni all’autodeterminazione.

L’aspirazione all’autodeterminazione, legittima e non contestabile, non ha bisogno di miti delle origini né di essenzialismi identitari. Non è più giustificata se dimostriamo la grandiosità delle culture sarde dell’Età del bronzo e nemmeno tramite la riappropriazione delle glorie giudicali (altro elemento mitologico entrato in qualche misura nel senso comune). Tale aspirazione nasce da una condizione di fatto che è ampiamente sotto gli occhi di tutti. Gli studi archeologici e storici sono utili per fornirci strumenti di comprensione e per consentirci di collocarci più correttamente nel tempo e nello spazio. Ci servono per comprendere come tanti problemi, che ci sembrano tutti nostri e completamente attuali, magari invece hanno una storia più lunga alle spalle, fatta anche di errori che sarebbe meglio non ripetere. In questo senso, per noi, sono indispensabili.

Ma lo studio del passato non può insegnarci molto se non quello che siamo disposti a imparare, e di sicuro non basta a dotarci di una forza collettiva che dobbiamo poter trovare in noi stessi, come hanno provato a fare altri in altre epoche. Non abbiamo bisogno di trovare giustificazioni in età antichissime e in presunte permanenze culturali a-storiche per il nostro desiderio di riscatto. Dobbiamo invece farne un obiettivo democratico, di emancipazione collettiva e di ricerca di una vita migliore per chi abita la Sardegna di oggi e la abiterà domani. È un impegno nostro, del nostro tempo, la cui responsabilità non possiamo addossare ad altri che a noi. 


Immagine: Cagliaripad

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7 commenti

  1. Omar, direi, spiega che quando si sono effettivamente decise le prevalenze di alcune identità storiche sulle altre (chi stava davanti e chi dietro, senza troppi scrupoli) si ragionava male, ma gli effetti di quelle decisioni sulle storiografie (e, a cascata, sul formarsi delle menti) ancora agiscono a tutti i livelli; e a chi tocca (il posto dietro) non si ingrugna.
    Se ora si fa avanti qualcuno a dimostrare che chi è stato letto indietro non sarebbe effettivamente stato dietro, allora gli scrupoli sul metodo, uguali a dire che Achille (analizzando ogni frammento di istante) non potrà mai dirsi aver superato la tartaruga, otterrebbero di lasciare tutto come prima. E chi è stato messo indietro, sempre senza ingrugnarsi, non può sperare in questi ricorsi al tribunale della Storia, che i suoi vantaggi, giusti o sbagliati, li ha già dati.
    Perciò i Sardi cerchino di farcela accrescendo la consapevolezza del presente e alimentandosene (cercando di non farsene deprimere), senza alcun booster (potenziamento) di autostima e fiducia (brutta roba, pericolosa) da un periodo della Sardegna troppo lontano da loro, cui non hanno il diritto di rifarsi. Tranquilli che quelli davanti i loro booster ora li giudicheranno altrettanto illeciti (glielo spiegherà Omar) e, sportivamente, li dismetteranno (magari, se Omar si impegna, insieme ai vantaggi che fin qui ne hanno tratto). 🙏

    • Francesco, un appunto di metodo, prima di risponderti. Entrare in casa altrui con fare strafottente non è mai un bel vedere. Le obiezioni sono legittime, ma c’è anche un’etichetta da tenere presente. In questo caso, abbi pazienza, hai sconfinato nella maleducazione. Peccato.
      Ma ti rispondo.
      Prima di tutto non è proprio chiarissimo cos’è che non ti quadra dell’articolo. Io l’ho capita così: ti dà fastidio che si contesti l’uso politico e identitario della storia antichissima sarda. Sostieni che, siccome altri, la parte diciamo dominante, ha fatto e fa un uso politico della storia a nostro danno, dunque noi, subalterni, dobbiamo fare un uso politico della storia analogo, di segno opposto, magari ancora più forte.
      È un’opinione legittima. Non sono del tutto d’accordo, ma ne capisco le motivazioni.
      Non sono d’accordo per due ragioni.
      La prima è che bisogna distinguere se si parla di disciplina storica, di ricostruzione storiografica, di divulgazione, o se invece si fa appunto una narrazione politica usando elementi storici. Le due cose non coincidono. In Sardegna, per come la vedo io, prima ancora che una carenza di uso politico della storia, c’è una carenza di storia. Cioè, non esiste nella popolazione sarda un patrimonio di nozioni, conoscenze e punti di riferimento in ambito storico che consentano alla nostra collettività, con tutte le sue articolazioni e differenze interne, di collocarsi compiutamente nel tempo e nello spazio. Questo, a mio avviso, è un grosso problema di natura *anche* politica. Ma ciò non significa che la risposta diretta e immediata debba essere costruire una narrazione di comodo, orientata, nazionalista, che ci liberi magicamente dalla subalternità. Significa invece che dobbiamo cercare di imporre una conoscenza storica diffusa non solo consistente ed efficace, ma prima di tutto il più possibile corretta. Chiaro, qualsiasi ricostruzione storica parte da un punto di vista. Come ho scritto più volte, la storiografia non è mai neutra e neutrale. Il fatto stesso di cercare di imporre uno sguardo sardo-centrico sulla storia sarda è un fatto rilevante e anch’esso ha una portata politica. Ce l’ha di suo. Soprattutto perché, appunto, ci troviamo da generazioni in una condizione di subalternità materiale e culturale, a cui è necessario sottrarci (almeno, io penso che sia necessario, altri no). L’uso pubblico della storia però è un’altra faccenda. È legittimo, si può fare, ma bisogna sempre essere onesti almeno con se stessi e ammettere che si sta facendo questo.
      L’altra ragione riguarda invece proprio l’uso pubblico della storia e soprattutto l’uso *identitario* della storia. I miti delle origini, la ricerca di un passato glorioso, magari nascosto e negato, da rivendicare e a cui rifarsi per pretendere di essere riconosciuti come collettività storica dotata di una sua identità, sono operazioni già viste, estremamente delicate e direi pericolose. Non hanno pressoché nulla di davvero emancipativo. Di norma fanno comodo a gruppi ristretti che egemonizzano il discorso e lo piegano ai loro scopi. È un uso molto manipolatorio della storia. Con risvolti inquietanti. Inoltre, in un contesto come quello sardo, in cui vige una larga e diffusa ignoranza storica – soprattutto della storia contemporanea, dei fatti degli ultimi due secoli, quelli che spiegano direttamente perché siamo nella situazione disastrosa in cui siamo – le narrazioni orientate politicamente, identitarie, rischiano di occupare uno spazio molto, molto ampio, che non è il loro proprio. Questa cosa non mi piace. A parte essere facilmente attaccabile da parte di chi ha il controllo della comunicazione culturale e voce in capitolo nei media e nelle istituzioni, ci sono anche da tenere presenti gli esiti di queste operazioni. Sappiamo cosa hanno rappresentato storicamente queste narrazioni, quando sono diventate egemoniche, e non penso proprio che ne abbiamo bisogno, oggi, in Sardegna. Il mondo, e la vecchia Europa soprattutto, sta già scivolando lungo una china pericolosissima di conflittualità diffusa, di confini e barriere identitarie, di culture reazionarie sempre più sdoganate nel senso comune. Non vorrei proprio contribuire ad accelerare questa inerzia distruttiva. È un problema che vorrei che fosse, non dico condiviso, ma almeno colto da chi propala o difende l’uso politico e identitario del lontano passato sardo. Che, ribadisco, non conosciamo affatto, a dispetto delle certezze sciorinate in giro da esperti più o meno certificati, e in ogni caso con noi, col nostro oggi, non ha nulla a che fare.

  2. Caro Omar (se posso),
    è perfettamente vero che se avessi scritto pensando di rivolgermi a te, su questa pagina, il modo sarebbe stato un altro, tale da non sembrarti (voglio sperare) maleducato e tantomeno strafottente. É andata che scrivevo del tuo articolo in un’altra discussione, quindi mi è sembrato utile rappresentarti qui le medesime abiezioni, che per economia di tempo hanno mantenuto quella forma (l’ho rivisto solo affrettatamente; e mi sono detto che aveva, sì, del frizzante, ma nell’insieme anche questo si giustificava).
    Perciò, insomma, le mie scuse per come ti è giunta la forma; e soprattutto grazie per aver comunque risposto.
    A mio parere, la tua analisi (per il resto condivisibile e centrata)
    minimizza eccessivamente le reali possibilità che le tesi di Ugas (sugli Shardana), nei prossimi anni, vengano avvalorate e si impongano come convenute dai più;
    minimizza eccessivamente le conseguenze, sul piano degli studi e non solo, del possibile avvalorarsi delle tesi di Ugas;
    e minimizza eccessivamente le resistenze (accademiche e probabilmente non solo) che alle stesse tesi vengono opposte, al punto di non vedere che il quadro di una Sardegna nuragica importante, ricca e con relazioni attive in giro per il Mediterraneo, é ormai sostenuto persino (come dici) da quella parte di comunità archeologica che guarda sempre con estremo sospetto alle posizioni eterodosse, perché è la sostenibile trincea su cui arroccarsi per non concedere di più, per non rompere gli argini.
    Detto questo, credi che non falsificherei alcunché per condizionare l’esito di nulla; e che non mi piace l’uso strumentale della storia. Non ignoro, però, l’effetto della conoscenza di un certo passato sulle menti anzitutto degli scolari. E arrivo a dire, in sintesi, che già l’insegnare nella Primaria il quadro della suddetta sostenibile trincea (seguito, certo, dalla storia che segue) otterrebbe di ridurre, in qualche misura, l’abbandono scolastico nella nostra Regione (e poi di avere adulti con maggior fiducia, mediamente, nelle loro possibilità, anche imprenditoriali e di carriera). Non mi piace pensare non si debba giungere a insegnare pure che i Nuragici erano gli Shardana perché qualcuno ne teme le conseguenze e per questo vi resiste. Sono queste resistenze, non la dovuta cautela e il necessario scrupolo, che vedo pericolose per tutti noi.
    Tu proprio nemmeno le intravedi?

    • Onestamente, credo che il problema sia al contempo più ampio e profondo, ma, sul punto specifico, meno rilevante di quanto lo veda tu.
      Se nel futuro le teorie di Ugas troveranno validazione e diventeranno patrimonio comune acquisito, ne prenderò atto. Non ho strumenti per dire qualcosa di diverso.
      Ma sarà così decisivo? Che le popolazioni sarde dell’Età del bronzo finale si definissero o fossero definite Shrdn o meno, cambia poco nella nostra conoscenza di quelle genti e di quel periodo. E cambia poco anche nella valutazione che se ne può dare. E poi, se anche fosse? Cosa ne trarrebbe di buono la Sardegna di oggi che già non potrebbe trarre in virtù di altre istanze? Le necessità attuali a cui rispondere sono grandi e pressanti. Dovremmo farlo non con la forza del nostro lontano passato ma con una forza che serve adesso e che dobbiamo trovare in noi. Nessun costruttore di nuraghi ci salverà, se non ci diamo una mossa noi. E dovremmo farlo anche se in Sardegna non esistesse nemmeno un nuraghe, nemmeno tre pietre messe una sull’altra.
      Tu dirai: eh, ma l’identificazione con popoli così importanti della lontana antichità può avere effetti di autostima collettiva, fino a contaminare positivamente l’ambito politico. Io non credo. Di megalomania circa il nostro passato ce n’è fin troppa, in giro, nell’isola, e non mi sembra che ci abbiamo guadagnato gran che.
      L’ostilità che tu e altri intravvedete verso le posizioni di Ugas e altre analoghe è dovuta a diversi fattori e non è ascrivibile, banalmente, a un complotto di istituzioni malevole, dedite a nascondere la verità per biechi interessi di parte. Non escludo che esista, in qualche forma e in qualche misura, anche questo atteggiamento, in qualche esponente dell’archeologia e della storiografia sarde. Ma lo vedo più come una difesa corporativa, che come un grande complotto anti-sardo. Certo, non è che sia meglio. È solo che si inscrive in un altro ambito: quello della meschinità umana. Che esiste e ha sempre una parte fin troppo rilevante nella storia, e mica solo in questo ambito e in Sardegna.
      Però ci sono anche obiezioni molto più serie e solide, che bisogna considerare. Obiezioni di metodo e obiezioni di merito che mi sembrano sempre escluse dal dibattito, con la scusa che tanto è tutto un complotto malvagio. Il complottismo in fondo è sempre comodo e consolatorio, ma non è che faccia mai avanzare alcuna discussione. Oltre ad essere intimamente reazionario e socialmente diseducativo.
      Sul fatto che sia importante che soprattutto le nuove generazioni imparino qualcosa di diverso da ciò che studiano ancora oggi circa la storia sarda, non devi convincermi tu. Come forse sai, partecipo al progetto La Storia sarda nella Scuola italiana, oltre a fare divulgazione e a scrivere di storia per conto mio. Quel progetto nasce e prosegue proprio al fine di colmare le vistose lacune storiche cui la scuola ci espone. Non si tratta di chiacchiere su FB (legittime, ma sterili) e nemmeno di ricerca di colpe e di colpevoli: è una risposta pratica, seria e, nelle intenzioni, di qualità a un problema reale. Ovviamente, si basa sulle conoscenze acquisite e su informazioni consolidate. Produciamo materiale didattico, non svolgiamo ricerche né proponiamo tesi innovative. Perché è così che funzione la storiografia, la divulgazione seria e la didattica responsabile. Ti assicuro – per averlo sperimentato innumerevoli volte – che già solo il fatto di raccontarla la storia sarda – e non solo quella antichissima, santissimi numi! – ha il suo bell’effetto. Su discenti in età scolare e anche su persone adulte. Non c’è nessun bisogno di affidarsi a tesi alternative a tutti i costi o di pretendere di identificarci con i nostri lontanissimi antenati, per giunta ricoperti di una patina mitica. Antenati con cui, ripeto ancora una volta, non abbiamo nulla a che fare. Al contrario dei nostri predecessori immediati, quelli vissuti negli ultimi due secoli. Enfatizzare eccessivamente un passato lontano, che conosciamo pochissimo e ci è del tutto estraneo, a danno del passato recente, che invece ha conformato e condizionato il nostro presente, mi pare un effetto negativo di tanta passione protostorica.
      La preistoria e la protostoria sarde sono affascinantissime e ci hanno lasciato una tale mole di testimonianze materiali, che nessuno potrà mai ignorarle. Ed è giusto che gli studi proseguano, che ci siano avanzamenti nelle nostre conoscenze e che di volta in volta si mettano in discussione le conoscenze acquisite, secondo il più sano dei metodi scientifici e storici. Va fatto con criterio e comunicato in modo accurato e nei canali giusti. A cominciare dalle sedi internazionali, dove la Sardegna è quasi assente (a parte alcune pubblicazioni di studiosi quasi sempre non sardi né italiani). Anche questo è un problema. Fin troppo sottovalutato. Forse merita almeno la stessa attenzione che dedichiamo ad attaccare scompostamente chi scrive cose che magari non abbiamo nemmeno capito bene (per mancanza di nozioni e di studi necessari? mah… ) o che semplicemente non ci piacciono.
      In ogni caso, la conoscenza, più o meno approfondita, sul lontano passato non può né dovrebbe avere effetti politici. Se li avesse, dubito che sarebbero positivi. E il nostro patrimonio archeologico, anche qualora fosse studiato e valorizzato meglio, non dovrebbe essere spacciato per una potenziale risorsa economica risolutiva, data l’estrema pericolosità (questa sì studiata e conclamata) della dipendenza dal turismo, fosse anche culturale, per qualsiasi comunità.

  3. Tu aspetti sufficientemente sereno che emergano, casomai, maggiori certezze (sugli Shardana), perché gli strumenti li hanno gli archeologi (qualunque interferenza esterna, valuterai, avrebbe effetti nulli o controproducenti) e perché già così la Civiltà Sarda è sufficientemente grande lo stesso. Saremo d’accordo: gli antichi Sardi non diventano ragguardevoli perché assurgono a Shardana; gli antichi Sardi potranno sostenere tutte le prove o gli indizi di un’identificazione con gli Shardana in quanto ragguardevoli.
    Quindi dici che cambierebbe poco. A mio avviso, quel pur poco che cambierebbe starebbe semplicemente portando la Sardegna Nuragica (altrimenti sempre estranea, fin quando non diviene preda, alle documentate vicende storiche) dalla Protostoria nella Storia (avendo gli Shardana un’antica storia senza una geografia e senza un popolo definiti; ed essendo la Sardegna con la sua gente, ad allora, una geografia e un popolo senza una definita storia antica).
    Ma vale dedicare tante attenzioni a questo, nel presente, con i problemi che ci pressano?
    Su questo punto hai gioco facile a mettermi in discussione.
    Ammesso (e da te non concesso) che la consapevolezza di una tale storia (insieme a tutta quella successiva, non a suo scapito; saremo inoltre d’accordo a non trascurare la lingua e la letteratura, altro su cui non ho da insegnarti) inneschi processi di cambiamento positivi e magari pure decisivi, cosa vale che tanti seguano da vicino, senza titoli specifici, il necessario lavoro dei titolati? Cosa si ha la pretesa di rappresentare? Quale ruolo, in definitiva, ci si attribuisce?
    Ho idea che in tanti si sia maturata la convinzione che diffondere la consapevolezza del patrimonio storico della Sardegna e quindi della sua storia non valga, é vero, l’immediata soluzione ai problemi del presente, ma sia l’investimento più lungimirante per il futuro (e non generatore di una megalomania, tanto più ostentata quanto meno le sue basi si avvertano sicure e riconosciute).
    Così capita di entusiasmarsi nel seguire il superamento di tabù secolari, come quello sui Sardi che non navigavano; e di cogliere resistenze nel mondo archeologico (accademico e delle Soprintendenze; fossero pure solo meschinità umane) ad accettare le letture supportate dai dati.
    Quindi, davanti al palese ostracismo inflitto a Giovanni Ugas per la sua tesi (ma ricorderai, forse, come personalmente segua anche le negligenze rispetto al tema della scrittura), può venire da considerare:
    non è detto che il passato, tanto più quando molto lontano, riservi prove così schiaccianti da sbaragliare tutte le resistenze;
    non si può escludere le prove che verranno continueranno a essere, per sé stesse, solo indiziarie (un po’ quello che dicevi tu), una per una contestabili, interpretabili. Chi determina che cumuli di indizi facciano prove? Si tratterebbe di un quadro largamente condizionabile dalle resistenze (dai poteri e/o dalle meschinità) in campo. Di nuovo, si può aspettare con ascetica fiducia, o si può farsi prendere dalle dinamiche in gioco e proporsi di seguirle e divulgarle, perché queste resistenze non abbiano un gioco troppo facile (sapendo che per i titolati fuori dal coro non è semplice esporsi liberamente).
    Inevitabile il rischio di recar danno o anche solo di perdere inutilmente tempo; si cerca, ti assicuro, di farci i conti.

  4. Va bene, Francesco. Stiamo spostando il focus della discussione, ma ti seguo.
    L’interesse e l’attenzione di appassionati e cultori dilettanti delle questiono storiche e archeologiche non solo non sono un male, ma anzi denotano curiosità e vivacità intellettuale. Niente da dire. Che esista una diffusa sollecitazione critica verso le risultanze della ricerca storica è un bene. Porsi come detentori di una verità finalmente svelata, a dispetto delle trame oscurantiste di qualche opaca casta accademica, che vorrebbe tenere il popolo nell’ignoranza, è però un’altra faccenda.
    Sui limiti e le mancanze del nostro ceto intellettuale istituzionale e accademico mi sono espresso più volte. La stessa Filosofia de Logu nasce anche per rispondere a questo problema, o se non altro per chiarirlo nei suoi contorni e nelle sue cause.
    Però esiste anche un decisivo problema di metodo, a cui non possiamo sottrarci a buon mercato. Ne ho parlato diverse volte (per esempio qui: https://sardegnamondo.eu/2020/01/09/fantalinguistica-fantarcheologia-fantastoria-risposte-metodologicamente-errate-a-un-problema-reale/) e non mi ci vorrei dilungare troppo.
    Il metodo e gli obiettivi per cui promuovi una certa ricostruzione del nostro passato sono fondamentali.
    Le sedi privilegiate delle contro-cospirazioni – chiamiamole così – sono soprattutto profili e pagine social, in cui il tono è perlopiù assertivo e quasi sempre ostile verso i (presunti) nemici. Non di rado si sconfina nel giudizio sommario e nell’attacco personale. Non è un bel vedere. E non è nemmeno quella la sede più consona a un vero e produttivo dibattito culturale. I social possono essere un veicolo potente, ma bisogna andarci cauti. Non sono progettati per favorire la discussione e il libero confronto, ma per innescare dinamiche competitive e feed-back ricorsivi e auto-referenziali. Sono una trappola, insomma. Vogliamo tenerne conto?
    La divulgazione storica – così come qualsiasi altra forma di condivisione del sapere – è una faccenda estremamente seria e importante. Servono molto studio, molto senso critico, molto senso civico e anche capacità comunicative e narrative. È un lavoro difficile, insomma. Svolgerlo malamente produce danni multipli alla già precaria consapevolezza di sé di una popolazione piegata dalla subalternità e dalla dipendenza come quella sarda.
    Serve rigore, in ogni caso. E rispetto. Rispetto dei ruoli, delle conoscenze altrui e anche del pubblico.
    Chi propone una posizione o una teoria diverse dalle nostre non è necessariamente in mala fede. Non nego i problemi, come detto, ma a tutto ciò si risponde con più serietà con un dibattito pubblico più costruttivo, con una base metodologica solida, non con le teorie del complotto e le posture dogmatiche e fideistiche.
    E resta aperto il problema delle derive “identitarie” sollecitate da mitologie delle origini e pretese di continuità storiche fittizie, i cui esiti nefasti abbiamo già visto in moto troppe volte. È o no un problema di cui tenere conto?
    Non credo che la discussione si concluda qui, ma io ho detto quello che volevo dire e non intendo proseguire oltre. Credo che ci siano tutti gli elementi per cui chi legge abbia la possibilità di farsi un’idea sui temi sollevati. Grazie per l’attenzione e il tempo dedicati.

    • “Che esista una diffusa sollecitazione critica verso le risultanze della ricerca storica è un bene”: mi aggrappo a questa considerazione, dandoti pure ragione su tutto il resto.
      É vero che i social facilitano molto l’allargamento della base e, al contempo, aprono il fianco a contenuti tossici. Difficile (e dispendioso) porre dei limiti alla libertà di espressione, vagliare e censurare i contributi; fino a muovere verso qualcosa di più controllato che rasenterebbe l’istituzionale (lasciando così i social a sé stessi, cioè alla deriva?).
      Ringrazio anch’io.

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