Come chiamare la morte lenta e inesorabile del popolo sardo?

Il mio ultimo articolo apparso su S’Indipendente (Il “genocidio” bianco dei sardi: cronaca di una colonizzazione terminale ) ha fatto scalpore e ha suscitato un dibattito insolito, scatenando una corsa alla presa di distanza da un lato e una serie di apprezzamenti dall’altro.
Alcuni mi hanno fatto notare che hanno trovato disturbante l’uso della categoria “genocidio bianco” riferito alla condizione di agonia, astenia ed entropia sociale e, in fin dei conti, morte lenta che sta vivendo la comunità dei sardi.
Ciò che ha disturbato è l’utilizzo di un termine che nel dibattito attuale viene utilizzato per descrivere l’annientamento sistematico dei palestinesi da parte del sistema sionista.
Credo fermamente che nel dibattito politico sardo manchino due elementi fondamentali quali la franchezza e l’empatia. Nel primo articolo sono stato franco fino alla sfrontatezza, in questo non posso che accogliere le critiche costruttive che mi sono state mosse e rispondere che in alcun modo ho voluto stabilire connessioni meccaniche e analogie dirette tra ciò che accade per esempio in Palestina e quanto subisce la nostra comunità.
Infatti ho usato “genocidio” tra virgolette, aggettivandolo come “bianco”, il che naturalmente non ha nulla a che vedere con le teorie del complotto del piano Kalergi, ma si riferisce semplicemente al fatto che nel caso sardo manca completamente l’elemento dell’annientamento fisico diretto, della violenza militare generalizzata, degli assedi per fame, del terrorismo di stato ecc..
Comprendo profondamente — e lo voglio dire con chiarezza — il disagio di chi ha trovato disturbante l’uso della parola “genocidio” nel titolo del mio articolo. Lo capisco ancor più in un momento storico in cui il mondo assiste, con dolore e rabbia, alla tragedia che si consuma in Palestina. È per questo che desidero chiarire subito che non vi è, nelle mie parole, alcuna intenzione di stabilire un’equivalenza o una connessione diretta tra vicende tanto diverse.
Quando ho parlato di “genocidio bianco”, l’ho fatto proprio per distinguere il processo in atto in Sardegna da quelli caratterizzati dalla violenza fisica e dallo sterminio materiale dei corpi. Qui non ci sono campi di concentramento, deportazioni di massa o bombardamenti sulle città. Eppure, ciò che sta avvenendo nel tessuto demografico, sociale e culturale del nostro popolo ha una portata distruttiva che non può essere banalizzata o derubricata a “semplice spopolamento” o ancora peggio a “crisi”.
Quindi chiedo venia a quanti si sono sentiti urtati da questa mia riflessione e accolgo l’invito a non usare, nemmeno in maniera analogica, il termine “genocidio”.
A questo punto però ci troviamo davanti ad un bivio e la maggior parte dei critici e la totalità dei detrattori del mio articolo che si sono sperticati in urla scomposte gridando allo scandalo e addirittura invocando punizioni esemplari nei miei riguardi, hanno già scelto quale direzione imboccare: occuparsi di tutti i mali del mondo tranne che di quelli che affliggono il nostro popolo.
La questione invece è seria e i dati parlano chiaro: in cinquant’anni la popolazione dell’isola si è contratta drammaticamente; interi paesi si sono svuotati; il tasso di natalità è tra i più bassi d’Europa e del mondo; i giovani emigrano in massa; il tessuto produttivo è stato smantellato; le terre e le coste passano progressivamente in mano a investitori esterni; la lingua e la cultura sarde vengono non solo marginalizzate ma del tutto escluse dall’uso pubblico e veicolare; l’autonomia politica è ridotta a una parodia amministrativa. Tutto questo non è il risultato del caso, ma di un sistema ben preciso.
Un sistema che combina dipendenza economica, subalternità politica e colonizzazione economica e culturale.
È la conseguenza di decenni di politiche di “sviluppo” eterodiretto, di un modello energetico e industriale concepito per sfruttare la Sardegna, non per emanciparla; di un impianto mediatico e scolastico che ha reso vergognosa la nostra lingua e ha semplicemente bandito l’insegnamento della nostra storia; di una trasformazione urbanistica e turistica che espelle i sardi dalle loro stesse terre e li riduce a manodopera precaria per interessi altrui.
Quando ho usato la categoria “genocidio bianco” l’ho certamente fatto in maniera iperbolica, esattamente come quando nel dibattito attuale si parla di “ritorno del fascismo”. È chiaro che non non sta tornando il fascismo nel senso storico del termine, che non si viene arrestati per semplice appartenenza politica e che non esiste il Tribunale Speciale che giudica reati ideologici e spedisce al confino i dissidenti.
Eppure il problema di un pesante giro di vite dello stato di diritto esiste e come e le analogie con il fascismo storico non mancano.
Allo stesso modo ho fatto io cercando di nominare correttamente un processo di dissoluzione collettiva che non è frutto della sfortuna, del caso, dell’«indolenza antica» dei sardi ma ha cause storiche e politiche ben precise. Un processo di annichilimento di un génos (γένος) può assumere forme lente, fredde, silenziose: può passare attraverso la perdita di senso, di comunità, di lingua, di futuro. E la Sardegna, oggi, è dentro questo processo terminale.
Molti mi hanno attaccato perché “genocidio” assume un preciso significato giuridico, ma io non sono un giurista e chiaramente non ho mai avuto l’ambizione di scrivere un articolo in tal senso. Il mio è stato un atto di filosofia della prassi, di pensiero militante.
Con Deleuze, credo che la filosofia non debba essere una disciplina contemplativa, ma un’attività di creazione e di distorsione di concetti.
Nel suo “Che cos’è la filosofia?” (scritto con Félix Guattari), si legge che «la filosofia è l’arte di formare, inventare, fabbricare concetti».
Fare filosofia significa proprio questo: generare nuovi modi di pensare, spesso contro le abitudini intellettuali dominanti.
In questo senso, la filosofia deve infastidire il pensiero comune, rompere l’automatismo – ciò che da Parmenide a Deleuze viene chiamato doxa, e che oggi potremmo definire semplicemente conformismo.
Pensare è difficile.
Spesso è un’attività dolorosa, paragonabile a uno shock che ci costringe ad andare fino in fondo ai problemi, anche usando categorie e strumenti lessicali che prima impiegavamo in tutt’altro modo e per descrivere altre realtà.
“Genocidio bianco” urta la vostra sensibilità? Al netto degli insulti, delle contumelie e delle minacce che ho ricevuto, le poche voci costruttive che hanno risposto alla mia provocazione intellettuale, morale e politica hanno suggerito categorie alternative quali «assimilazione culturale» e «etnocidio».
Non credo che rendano l’ida di quanto sta avvenendo in Sardegna e della drammaticità che ci raccontano i dati che troviamo per esempio nelle inchieste della Caritas e delle Acli perché si riferiscono solo agli aspetti culturali.
Anche chi non riconosce i sardi come una «nazione», se è onesto intellettualmente, deve ammettere che la nostra comunità marcia stancamente verso la dissoluzione, languendo mortalmente in una stordente afania.
Allora qual è la categoria appropriata per rompere la retorica rassicurante del “declino naturale”, restituire nome e responsabilità politiche a ciò che ci accade e infrangere il tabù della rassegnazione? Non per appropriarsi del dolore altrui, ma per denunciare che anche noi — in un’altra forma, con altri mezzi — stiamo subendo una cancellazione sistematica del nostro essere popolo.
Da sempre sono esposto per la Palestina e il mio ultimo articolo non ha fatto che sviluppare riflessioni che ho elaborato tra una breve e l’altra del primissimo periodo della mobilitazione pro Palestina, quando ancora moltissimi dei miei detrattori attuali, negavano l’impiego delle categorie “genocidio”, “pulizia etnica” a proposito del popolo palestinese, più o meno per le stesse ragioni per cui ora sbracciano scompostamente contro il mio articolo.
Chi trova quel termine disturbante, ha ragione a provare disagio: perché la parola “genocidio” dovrebbe disturbare sempre. Ma forse è tempo di accettare che la nostra sofferenza storica non è una fatalità, e che chiamare le cose col loro nome — anche quando fa male — è il primo passo per ricominciare a vivere come popolo.
È un fatto è che i sardi, qualunque cosa siano, stanno andando verso il binario morto della loro civiltà.
Moriremo in silenzio o inizieremo a dire a gran voce che ne siamo consapevoli e che la cosa non ci va bene?
“Genocidio bianco” è disturbante?
Parliamo allora di “democidio”, di “sardicidio”? O semplicemente continueremo a voltarci dall’altra parte per non turbare la splendida atarassia in cui molti si sono rifugiati per non percepire il dolore di un popolo instradato colpevolmente sulla strada dell’annientamento?
Immagine: Cagliaripad
2 commenti
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Carissimo professore, il mio umile pensiero è che questo termine così aborrito ” genocidio” , da lei utilizzato,racchiude una grande verità,che magari da tanti non vuol essere detta. Non vogliono che trapeli la realtà che il popolo sardo vive ormai da anni,forse perché dietro ci sono interessi di vario genere da parte di chi in questo ” genocidio bianco” ne trae risorsa? O forse perché la potenza del termine è tale da risvegliare le coscienze? (lo spero tanto). Detto ciò,concludo questo mio breve commento ringraziandola come sempre per la sua onestà intellettuale,e per la sua verità a porte aperte.
La sua alunna devota, del corso serale
Est annos chi naro chi tocat a èssere sintzeros. b’at gente indinniada cando narant “dialetto sardo” e si imbolant torrende sa resposta “il sardo è una lingua, non un dialetto” e sighint in toscanu anticapadu totu su restu fatende carchi bàtida in sardu de carchi barzelletta “ajò che in sardo fa più ridere” – narant. Sa Sardigna est vivende s’annichilimentu de s’essèntzia sua, de s’ànima, de totu e b’est chie “toscaneggia” chie “milaneggia”. In sa bidda a sa gente chi andaiat a fora li naraiant “sardos mezorados” comente chi bi siet unu megioru andende a si infundere “nelle acque” de carchi riu fragosu italianu. Nde torraiant atzentados e fieros bentulende sa limba issoro noa cun orgòlliu finu e evidente. Rispondiant a sa mama in sa “àtera limba” e pro sos nativos est istadu unu comportamentu normalizadu. Oe est unu abomìniu linguìsticu cun peràulas inglesas postas “ad fallus” in positzione inùtile in sos cartellones publitzitàrios. bastat ca si no no apo a pòdere drommire …