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Il Cagliari in serie A, la Sardegna ancora no

de Omar Onnis

Il Cagliari ritorna in serie A e con la squadra – secondo la vulgata – ci ritorna anche la Sardegna. “In Italia con voi”, cantano i tifosi organizzati. Perché forse è uno dei pochissimi modi in cui la Sardegna sia considerata a tutti gli effetti parte dell’Italia (come riconosceva nel 1970 Gianni Brera, subito dopo lo scudetto).  

Un legame forte, benché sofferto, quello tra la squadra della capitale e il popolo sardo. Lo slogan che campeggia sulla tribuna dei Distinti nello stadio cagliaritano, “Una terra, un popolo, una squadra, può suonare enfatico e persino irrealistico. Molte persone sarde appassionate di calcio tengono per squadre forestiere, specie le blasonate squadre del Nord Italia. Eppure c’è qualcosa, nel rapporto tra il Cagliari calcio, la Sardegna e la sua gente, che è innegabile quanto difficile da spiegare. 

Le contraddizioni accompagnano il Cagliari fin dai tempi gloriosi della prima apparizione nel massimo campionato di calcio italiano, in quel lontano 1964. L’interessamento quasi immediato di Angelo Moratti, padrone della SARAS da pochi anni, così come dell’Inter di Milano. L’influsso di Moratti, come quello di Rovelli, sulla realtà politica, mediatica e anche sportiva di quel periodo è noto. Nonostante le nobili motivazioni sempre addotte, è evidente che si è sempre trattato di una captatio benevolentiae e di una restituzione sotto forma di glorie sportive di qualcosa che le due potenti famiglie lombarde hanno preso dall’isola. Una restituzione ruffiana e anche limitata.

Nel caso di Moratti, il fatto che il Cagliari avesse finito per umiliare la sua Inter (per giunta, a San Siro: 25 ottobre 1970) e il seguente rifiuto di Gigi Riva di trasferirsi alla sua corte ne avevano decretato l’abbandono del programma panem (o meglio, stipendi) et circenses. Al contempo, sul piano sociale e politico, l’orgoglio suscitato in molte persone sarde dalle gesta di Gigi Riva e compagni minacciava di intrecciarsi fin troppo strettamente coi fermenti culturali e sociali di quel tempo, anziché sopirli e disperderli. 

Lo stesso vessillo dei quattro mori non sarebbe il simbolo popolare che è oggi, a dispetto della sua provenienza e del suo senso originario, se non fosse stato per quel Cagliari e per la scelta della dirigenza di fregiarsi, nell’iconografia della società e sulle maglie di gioco, di quell’emblema. 

La politica sarda ha sempre guardato con prudenza al Cagliari. Ne ha sempre percepito la potenzialità propagandistica, ma anche la pericolosità. Troppo facile farne un simbolo collettivo di riscatto e di rivendicazioni extra-sportive. Niente che al nostro ceto politico “podatario” sia mai piaciuto troppo. Per questo, se da un lato, specie nei momenti di successo, ha sempre fatto gioco presentarsi come tifosi, da un altro sindaci della città e presidenti della Regione Autonoma hanno sempre evitato di calcare troppo la mano. La stessa società calcistica, pur nel passare di mano in mano, ha sempre evitato di eccedere nel marketing “identitario”.

Al contrario della Dinamo basket Sassari, la cui comunicazione, negli ultimi dieci anni, ha sempre enfatizzato il legame con l’isola e con la sua storia, non disdegnando l’uso del sardo e riferimenti costanti a simbologie e richiami emancipativi (basti pensare alla celebrazione di Sa Die de sa Sardigna). Il Cagliari, no. Solo limitatissimi e spesso abborracciati esperimenti, senza molto senso né seguito. Ultimo, la ridicola scelta della mascotte e soprattutto del suo nome, il piccolo fenicottero Pully. Solo chi non sappia nulla di Cagliari, del suo tifo, della terra che rappresenta, poteva concepire una simile sciocchezza. Non tanto per il povero fenicottero (rosa, benché implume, quando si sa che i pulli sono grigi), quanto per il nome. Costava molto chiamarlo Mango, Mangheddu, Arrubieddu, o qualsiasi altro nomignolo che alluda al nome sardo della “gente rossa” e che non sembri una presa in giro o un’allusione sconcia? 

Altra faccenda mai risolta, da anni, è quella dello stadio. Se si tiene presente che il calcio italiano, cui il Cagliari ahinoi ancora appartiene, è seguito in tutto il mondo, la precaria situazione infrastrutturale dei “rossoblu” non è esattamente un bel biglietto da visita. Oltre a penalizzare il seguito della squadra. Ma alla politica interessa solo ciò da cui può trarre vantaggi concreti e preferibilmente rapidi. Tant’è vero che sulla partita “nuovo stadio” al momento si scontrano le due amministrazioni cittadina e regionale, entrambe di destra, ma con interessi confliggenti da promuovere. Non a caso il presidente della RAS Solinas, sempre prodigo di comunicati e di esternazioni opportuniste, sul clamoroso successo del Cagliari non ha aperto bocca. Coda di paglia? Poca voglia di enfatizzare una situazione che lo vedrebbe automaticamente costretto a dare spiegazioni? Molto meglio dedicarsi a un elogio funebre, sperticato quanto imbarazzante, di Silvio Berlusconi. 

A ben guardare, però, non è solo col Cagliari calcio che la politica sarda ha problemi relazionali. In realtà tutto lo sport isolano, per quanto vivo e sorprendentemente di successo, sembra funzionare nonostante la politica, anziché grazie alle sue scelte. Che, quando ci sono, sono solo di natura clientelare e speculativa (come le elargizioni a pioggia, ma non proprio a tutti, dell’ultima legge finanziaria). Non esiste una pianificazione che tenga conto della rilevanza sociale e culturale dello sport, e anche le sponsorizzazioni delle realtà maggiori non avvengono secondo un programma di cui si valutino i progressi e gli effetti. Anche in questo caso, mala fede, ignoranza e cialtronaggine compongono un quadro desolante.  

Bisogna ricordarsene, anche in questi giorni di festa. Bisogna ragionare su cosa sia lo sport in Sardegna, sulle sue potenzialità e sulle sue necessità. Che poi si legano agli altri problemi cronici dell’isola, dallo spopolamento ai trasporti, dall’energia alla debolezza del tessuto economico. E se la politica ha paura dei successi sportivi, specie quelli a maggiore visibilità, è solo un ulteriore motivo per tifare “Cagliari e bo’” e dire ancora una volta “Fortza Casteddu!”. 


Immagine: alfredopedulla.com

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Un commento

  1. Piccola correzione storica: c’è un errore marchiano nel passaggio sulla simbologia dei Quattro Mori. Non fu il Cagliari dello scudetto a “sdoganarli” ma i Quattro Mori erano già da decenni utilizzati comunemente dai sardi, soprattutto quando andavano in Italia e quindi sentirono la necessità di differenziarsi e riconoscersi. Già le squadre sarde (Eleonora d’Arborea, Amsicora, Josto, Torres ecc. ecc.) quando andavano a gareggiare in Italia in sport come atletica, ginnastica, pesi, canottaggio, ciclismo ecc., aggiunsero lo stemma ai propri vessilli, e parliamo dei primissimi del ‘900 (Proprio all’ultimo Monumenti Aperti a Cagliari l’Eleonora d’Arborea ha aperto le porte della sua palestra e nella sala dei trofei c’è un gonfalone del 1901 con i Quattro Mori al centro). Il Cagliari Calcio fu il primo a usarli nel calcio, perchè fu la prima ad andare in Italia da campione sardo, ma lo fece nel 1928, 8 anni dopo la sua fondazione e ben oltre 40 anni prima dell’era di Gigi Riva ?

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