In Sardegna non temiamo il maremoto, ma dobbiamo imparare a scegliere le onde

Una riflessione nuova e coraggiosa sul mito di Atlantide, sul rapporto tra storia e natura, sulla necessità di aprire gli occhi su interpretazioni leggendarie che possono annebbiare il senso critico e la capacità di leggere il presente in tutte le sue drammatiche e problematiche realtà, per poterle affrontare e magari risolvere.


De Giovanni Oliva

Il mito di Atlantide e della sua fine, da un po’ di anni è arrivato, approdato, “spiaggiato” in Sardegna, e ha suscitato molte reazioni e commenti. Noi sardi, che siamo in fondo parte in causa, più di altri, dobbiamo conservare intatto il nostro vigile senso critico, perché il contenuto del racconto propostoci può essere pericoloso, può avere effetti negativi sulle nostre facoltà mentali, produrre allucinazioni, generare una sorta di “dipendenza” e può inibire e bloccare chi è alla ricerca di chiavi e percorsi per l’emancipazione dal colonialismo e dal post-colonialismo (non solo culturale) e dagli effetti del pensiero neo-liberale dominante.

È opportuno quindi ragionare lucidamente, dopo l’ubriacatura di belle inquadrature di paesaggi naturali e monumenti antichi e simulazioni di catastrofi che ci propongono di tanto in tanto anche popolari programmi televisivi. Che cosa sarebbe successo, a detta dei sostenitori della neo-favola della Sardegna-Atlantide, alla civiltà dei costruttori di torri, ovvero al popolo dei nuraghi, proprio nel momento del massimo splendore?

La spiazzante risposta a questa domanda è che quella civiltà sarebbe stata spazzata via da un evento naturale di dimensioni catastrofiche, da una manifestazione, imprevedibile e per gli umani impossibile da fronteggiare; una entrata improvvisa nella scena da parte della crudelissima e inclemente Natura (ovvero della/delle Divinità, cui si sarebbe recata offesa, secondo il mito d’Atlantide), con le sue forze nella versione più terrificante: lo “schiaffo” di Poseidone (materializzatosi in un maremoto di proporzioni uniche).

Sarebbe stata proprio la Natura, proprio quella che oggi invece sembrerebbe essere il principale elemento amico, l’alleato speciale, l’eccezionale risorsa della Sardegna, e in particolare il suo Mare, gioiello di ineguagliabile bellezza invidiatoci da tanti, la causa del disastro che avrebbe spento le luci dei nuraghi? Sarebbero state forze ctonie e talassiche, combinate assieme, forse, si dice, fatalmente scatenate e sollecitate addirittura da forze cosmiche, precipitate dal cielo sotto forma di un meteorite, a provocare la subitanea fine o comunque ad assestare il primo durissimo colpo demolitore che avrebbe avviato l’inarrestabile decadenza dei nostri mitici antenati costruttori di torri.

Il racconto lascia letteralmente a bocca aperta chi lo segue.

Non quindi potenze nemiche, eserciti invasori, conquistatori attirati dai suoi tesori, spedizioni punitive di concorrenti al dominio e al controllo delle rotte fra le coste del Mediterraneo, non conflitti, guerre e crisi interne, divisioni, tradimenti, con tutte le tragedie e i disastri che si portarono appresso, ma un’ “onda di tsunami” (come si dice ormai per dire “maremoto”). Questo avrebbe colpito l’isola sarda, all’improvviso, in un passato remoto (ma non troppo). Come un pugno senza preavviso che manda k.o. anche un gigante, come una sonora sberla che istupidisce. E questo effetto del catastrofico evento naturale, sul popolo sardo, si sarebbe riverberato, protratto nel tempo, per secoli e millenni? Evidentemente fino ai nostri giorni, ci verrebbe da dire, se ci lasciassimo conquistare e imbambolare da una simile fantasiosa ricostruzione credendola degna, oltre che del legittimo eventuale godimento dei sensi (come un buon scanzonato brano musicale o il testo di un romanzo di fantascienza), anche di considerazione scientifica, fosse anche solo come una originale stravagante ipotesi di ricerca.

Sarebbe in fondo come pensare che la fine di alcune civiltà precolombiane, i cui monumenti si trovano a volte ancora oggi sommersi da rigogliosa e impenetrabile vegetazione, fosse dipesa dall’inarrestabile avanzare della esuberante foresta pluviale equatoriale, quasi uno tsunami di piante, con la sua onda d’urto verde. Scordando cosa sia avvenuto a monte. Ma noi sappiamo che il declino delle civiltà precolombiane (di quelle che ancora si trovavano fiorenti ai tempi dei conquistadores, perché altre invece erano già decadute) non avvenne in un attimo, ci vollero alcuni secoli, battaglie, distruzioni, incendi, stermini, crisi interne, tradimenti, epidemie, sconfitte, deportazioni, riduzioni in schiavitù degli abitanti di quelle terre, ecc. e che la fine delle civiltà che costruirono quegli eccezionali monumenti, ora ridotti in rovina, fu dovuta principalmente agli effetti della spietata violenza dei conquistatori che vennero dal mare in armi.

Vennero dal mare in armi anche coloro che causarono la fine della civiltà dei sardi costruttori di torri, vennero dal mare in armi non una volta sola ma tante volte: questa ci sembra un’ipotesi assai più credibile. Altro che “onda di tsunami”, altro che “maremoto”, altro che “schiaffo” di Poseidone. Certo la superiorità strategica degli invasori potrebbe essere ricercata proprio nell’”energia cinetica” in cui si manifestò lo strumento usato nello scontro, ossia il moto della forza militare, la capacità di movimento dei loro eserciti, che agirono appunto proprio come un’onda d’urto, contro la staticità di un assetto insediativo e di una difesa degli abitanti dell’isola evidentemente insufficiente a contenerli.

Pensare ad una fine dovuta all’evento “tsunami” (natura, fato o divinità che sia) significa non solo assolvere o comunque mettere in dissolvenza l’onda d’urto dei conquistatori venuti dal mare in armi ma in fondo anche offrire un alibi ai conquistati per rielaborare la frustrazione per la sconfitta, il senso di vergogna per la debolezza dimostrata.

Eppure, nella tradizione sarda c’è un detto che dovrebbe illuminarci “furat chie benit de su mare (ruba chi viene dal mare). Ruba chi viene dal mare, in armi e con l’evidente intenzione di rubare. Come oggi, nello scenario mondiale, i giacimenti di petrolio, e di varie altre materie prime, considerate risorse strategiche, sono la fortuna o la sciagura per vari piccoli o grandi paesi, perché attirano immancabilmente l’interesse morboso dei paesi più potenti e se necessario i loro eserciti, così probabilmente dovette essere alla lunga una sciagura per la Sardegna nuragica proprio la ricchezza dei suoi giacimenti di minerali, di metalli ed altre risorse preziose e conosciute a quel tempo dai popoli che si affacciavano nel Mediterraneo. Potremmo dire che il racconto fantastico che ci viene proposto, per quanto può essere preso come argomento di gustoso intrattenimento, non serve comunque a noi sardi perché non è un’arma “caricata di futuro”. Paradossalmente, neanche lasciandolo nella categoria del puro mito.

Ovvero non offre ai sardi contemporanei alcun argomento o insegnamento per affrontare i problemi della contemporaneità, né tanto meno per lavorare al proprio riscatto. Forse potrebbe fornire solo dei pietosi alibi. Non serve alla consapevolezza dei sardi di fronte alle sfide e ai conflitti attuali, proprio perché offre una versione della loro storia ancora come, essenzialmente, una “storia naturale”, “neutra”, depurata dalle vicende secolari delle relazioni fra gli umani, non ancora quindi una “storia propriamente umana”, ma una storia in cui gli umani sono mere insignificanti comparse di un colossal postmoderno. Personaggi minori sullo sfondo, senza possibilità di influire sui comportamenti dei protagonisti, gli attori principali, le star (ovvero le Divinità che scatenano le immense forze della Natura), né sulle vicende.

In questa storia che ci viene raccontata non c’è la colpa dei conquistatori né quella dei conquistati che si sono rivelati incapaci di difendersi e resistere, incapaci di risollevarsi. Dal racconto della catastrofe che avrebbe colpito la Sardegna-Atlantide, la figura dei vincitori scompare o è notevolmente sfumata, lasciando così i sardi da soli, disperati, alle prese con un nemico cui è impossibile resistere, da cui si è quindi inevitabilmente e definitivamente sconfitti (e per sempre intontiti dai suoi colpi dopo un unico round), senza responsabilità per l’incapacità dimostrata di far fronte agli eventi, eccezionalmente catastrofici e del tutto aldilà delle umane possibilità di poterli fronteggiare, proprio perché questi si danno nell’ordine e nella scala della Natura come manifestazione del supremo volere della/delle Divinità.

È una storia da cui non si può imparare niente. Si rimane bastonati e succubi, immobili e tremanti in una angosciosa attesa dell’imperscrutabile. Un meteorite, un’onda di maremoto, chissà cos’altro… A chi può servire questa nuova versione del vecchio mito di Atlantide? Non certo ai sardi. Nel frattempo, noi abbiamo imparato invece, dall’osservazione della Natura e dalla lunga Storia degli umani, che non tutte le onde sono uguali.

In Sardegna non dobbiamo aver paura del maremoto, piuttosto dobbiamo saper scegliere le onde. Ci sono le ondate che fanno danni, quelle dei conquistatori, persone senza scrupoli, imprenditori imbroglioni e razziatori di risorse (per parlare dei nostri giorni: dai signori della petrolchimica a quelli del cemento sulle coste e quelli delle discoteche), profittatori stagionali (la stagione dell’industrializzazione con soldi pubblici e la stagione estiva). E ci sono le ondate malefiche dei nuovi incantatori ideologici, i razzisti dei partiti di destra italiani (come la Lega e i nazionalisti neofascisti) che istupidiscono i sardi rendendoli subalterni ad una idiota rivendicazione di istanze reazionarie che vorrebbero riportare indietro la storia, negando all’umanità un destino di fratellanza universale.

Ci sono invece le ondate benefiche della moltitudine umana sofferente incarnata dai naufraghi, dai profughi che scappano dalle guerre, migranti alla ricerca di una terra della speranza dove poter vivere in pace, disposti ad abitare sull’isola, con noi sardi, tutto l’anno (in una terra segnata dallo spopolamento non si capisce perché qualcuno vorrebbe ributtare a mare questi suoi nuovi abitanti, preziosissimi). E ci sono anche le ondate delle idee e delle istanze libertarie, socialiste, ecologiste, internazionaliste, contro l’imbroglio del capitalismo e del suo modello di sviluppo che distrugge le condizioni della vita e sottrae alla moltitudine umana la ricchezza socialmente prodotta a profitto di una infima minoranza di egoisti accumulatori seriali che accrescono il loro patrimonio ai danni del patrimonio ambientale, della biodiversità, dei paesaggi, dei beni comuni che sono risorsa della collettività e condizione della sua salute.

Dobbiamo studiare le onde, conoscere da dove arrivano le onde, quale è la loro forza, dove ci potrebbero spingere. Dobbiamo magari acquisire la pazienza e la capacità dei surfisti di aspettare quella buona e imparare a cavalcarla.

Fotografia: Jeremy Bishop (Unsplash)

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Un commento

  1. Leggo con colpevole ritardo il bell’articolo di Giovanni Oliva e condivido una buona parte delle osservazioni, e la vicinanza alle nuove ondate, positive, a partire dai naufraghi, per continuare con le idee. Nell’analisi, che condivido sulla inutilità e pericolosità della narrazione della catastrofe naturale, allo stesso tempo consolatoria (il destino cinico e baro) e assolutoria, mi trova perplesso il modello opposto, anch’esso catastrofistico, della fine (“fine”?) della “Civiltà” nuragica a seguito dell’ondata delle invasioni, simil Conquistadores spagnoli, che avrebbe condannato i nuragici a perdersi.
    Un modello che in realtà fa proprio il modello catastrofistico capovolgendolo da naturale a culturale. Ma la lettura è la stessa e fa a pugni con la realtà storica delle trasformazioni, delle contaminazioni, dei cambiamenti culturali, con fasi pacifiche e fasi violente, che non interessano nello stesso tempo l’intera Sardegna, ma che si svolgono in modi e tempi diversi a seconda delle varie regioni più o meno storiche. Che dire, poi, del modello colonialista delle “Civiltà”, superiori (e possibilmente occidentali) rispetto alle “culture” e dotate di una storia evolutiva: origini, crescita, acme, declino, scomparsa. Ma, poi, sono mai esistite le Civiltà, al di là del pensiero coloniale? Cordialmente.
    Alfonso Stiglitz

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