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Intervista a Prof. Giovanni Ugas (prima parte) – Nazione e Questione Sarda: Autonomia o Indipendenza?

de Ivan Monni

Giovanni Ugas, professore di preistoria e protostoria all’Università di Cagliari, allievo dell’archeologo e intellettuale Giovanni Lilliu, ha pubblicato nel 2016 il libro “Shardana e Sardegna i popoli del mare, gli alleati del Nordafrica e la fine dei Grandi Regni (XV-XII secolo a.C.), Edizioni della Torre, con cui vengono poste fondamentali basi scientifiche sulla ricerca riguardo agli Shardana e i Popoli del Mare. In particolare, la ricerca fa emergere l’identificazione tra Shardana e Sardi che operavano durante il periodo nuragico, di cui si è trovato traccia in larga parte del Mediterraneo e che, insieme ai Popoli del Mare, causarono la caduta dei grandi imperi d’oriente.

Lo abbiamo intervistato per S’Indipendente con un’intervista suddivisa in due parti.
In questa prima parte, in occasione de Sa Die de sa Sardigna, abbiamo interrogato il prof. Giovanni Ugas su aspetti meno noti del suo pensiero, da cui emerge una figura intellettuale a tutto tondo.

Emergono diverse questioni politico-culturali, che ritornano ciclicamente in Sardegna, come la “questione sarda”, in quanto questione nazionale sarda, da cui scaturisce una messa in discussione dei rapporti con lo stato italiano. Il punto di vista è quello di chi ha studiato la preistoria sarda, dunque, se in questo percorso ha avuto un nobile predecessore, prof. Giovanni Lilliu, gli esiti politici cui approda prof. Giovanni Ugas sono notevolmente differenti. Il dibattito è tuttora aperto, forse oggi più che qualche decennio fa.
Prof. Ugas parte dal concetto storico della parola “natio”, nel senso latino del termine, affrontando un lungo percorso storico che ci porterà ad affrontare i problemi attuali, quali lingua sarda, i poteri limitati della Sardegna e della necessità di dare una dimensione indipendentista alla questione sarda.

Insomma, un prof. Ugas (che ringraziamo per l’apertura) totalmente inedito, capace di innescare un serio dibattito nella società sarda, inclusa l’intellettualità universitaria, normalmente restia ad affrontare temi di un certo tipo.
Qui trovate la seconda parte.
Buona lettura!


LA NAZIONE SARDA

D: Giovanni Lilliu scrisse che i nuragici non fecero in tempo a diventare nazione, il cui processo di costruzione fu bloccato dall’arrivo dei punici. Lussu riprese questo concetto per parlare di nazione mancata. Questa visione è ancora valida, riferita all’epoca nuragica?

R: Giovanni Lilliu ed Emilio Lussu sono stati straordinari messaggeri di ideali e hanno offerto lo spunto per tante riflessioni. Riguardo alla domanda, va chiarito che il Lilliu non solo afferma che i Cartaginesi spezzarono il processo di formazione delle città nell’Isola, ma anche che era propenso a ritenere che i Sardi fossero una nazione “morale” già in età nuragica.

Giovanni Lilliu e Emilio Lussu

Nel volume I della Storia dei Sardi e della Sardegna del 1988, riferendosi agli intensi commerci che intercorsero tra i Sardi e le alte regioni del Mediterraneo “con il contributo dei mercanti e della marineria nuragica”, il Lilliu scrive: “La competizione che sta dietro tutto questo intrico di rapporti d’affari pretende la saldezza di una ‘nazione’ sarda, almeno nel senso culturale e morale, e di un popolo forte e agguerrito ed espansivo che contava nelle faccende del Mediterraneo. Sarà questo il popolo dei Shardina il più prestigioso dei popoli cosiddetti ‘del Mare’ ricordato ed effigiato in papiri e monumenti egizi datati tra il 1285 e il 1144?”. Nella sostanza, il Lilliu si avvicinava all’idea che gli Shardana fossero i Sardi e lascia intendere che questi divennero “una nazione, un popolo forte e agguerrito”, proprio al tempo delle vicende degli Shardana nel Mediterraneo.

È dunque opportuno valutare se, al tempo dei nuraghi, l’unità dei Sardi era culturale e morale, quasi ideale, come affermava il mio maestro, oppure era sostanziale, propria di una vera nazione. Se ci atteniamo all’etimologia del nome, e dunque alla derivazione del termine nazione dal latino natio, il significato originario di nazione è quello di “popolo formato dai nativi di un luogo”, cioè da autoctoni, indigeni, ed è palese che le nazioni piccole o grandi, hanno avuto origine in tempi e modi molto differenti tra loro. Nella sostanza il termine nazione equivale a popolo natio ed è del tutto indipendente dalle sue specificità culturali e dalla forma politica che esso si è scelto, monarchia, aristocrazia etc.

Spesso, i popoli, si sono impossessati del termine nazione adattandolo alle proprie esigenze, rivendicando a posteriori il possesso di una terra altrui e dunque il diritto alla nazionalità, ricreando in letteratura una legittimazione storica, riportando indietro nel tempo l’occupazione del suolo e considerandola come un ritorno nella terra dei padri. Ciò è avvenuto, con la prepotenza delle armi, a scapito dei popoli che in precedenza occupavano legittimamente la terra per diritto di nascita. Ci si deve chiedere quando nasce la nazione sarda e in quale forma.

Al tempo dei nuraghi dimoravano in Sardegna almeno tre popolazioni principali, Iliesi o Iolei nel Centro sud, Balari (Iberi) nella Nurra e Logudoro, Corsi in Gallura (e in Corsica), oltre che vari gruppi tribali, tra i quali i Gallilesi, Siculesi e Lugudonesi. Pertanto, vi era un complesso di popoli di origine e provenienza diversa, ma occorre rilevare che, in questo periodo e nelle età successive, gli abitanti dell’isola nel loro insieme erano menzionati dagli altri popoli indistintamente e sistematicamente con un nome affine a quello che tutt’ora hanno i Sardi. I Fenici già almeno dal sec. IX a.C. li chiamavano Shrdn, i Greci Sardanioi/Sardonioi sin dal secolo VIII a.C., e più tardi Sardoi e forse Serdaioi, gli israeliti Sharid, i Romani Sardi e Sardinienses. Se poi teniamo presente che gli Shardana vanno riconosciuti nei Sardi, il nome è attestato già nelle prime fasi dell’età nuragica. Infatti, nel XV-XIV sec. a.C., gli Shrdn dei geroglifici egizi sono menzionati Sherdanu (singolare) a Biblo, Seridanni, Sertaanni e Sirtanni in scrittura sillabica e shrtn e grdn in grafia alfabetica a Ugarit, Shardias e Shartiian a Efeso e infine Shertani ad Hattushas dagli Ittiti.

A questo punto è opportuno richiamare la notizia del geografo greco Pausania, che forse accoglie un’antichissima tradizione locale adattata alle esigenze politiche dei Cartaginesi, secondo cui il nome dei Sardi e della loro isola deriva da Sardo, figlio di una remota divinità, l’Eracle libio-egizio. Sardo sostiene Pausania, condusse i Libi a vivere nell’isola in capanne e caverne insieme agli Indigeni, dunque in uno stadio culturale antichissimo, neolitico. In questi Libi, che pervennero nell’isola da Sud, si possono riconoscere gli Iolei o Iliesi insediati al tempo dei nuraghi a Sud del Tirso (nei Campidani e nelle Barbagie), i quali per Diodoro Siculo erano diversamente di origine greca, mentre qualche autore romano affermava, non di meno artatamente, che essi i provenivano da Troia (Ilio), la patria del loro avo Enea.
A giudicare dai dati dell’archeologia e da quelli della genetica, che documentano un primo filone etnico mesolitico, risalente al IX millennio a.C., proveniente attraverso la Corsica, da una terra continentale (la Toscana), lo stadio culturale prospettato da Pausania per i Libi, che abitavano in capanne e caverne, è quello delle prime fasi del Neolitico (Antico e Medio), quando si sviluppò il primo commercio dell’ossidiana tra il VI e il V millennio a, C., e pertanto gli Indigeni che li precedettero in Sardegna vanno riconosciuti nei Corsi, insediatisi all’inizio dello stesso Neolitico se non già nel Mesolitico.

L’amico Carlo Lugliè, straordinario paletnologo che ci ha lasciato troppo presto, ha ritenuto che questo primo filone mesolitico, proveniente dalla Corsica fosse scomparso del tutto nel Neolitico Antico poiché permane uno iato tra i dati cronologici relativi al Mesolitico e quelli riguardanti il Neolitico Antico. Ora, poiché questi dati sono ancora molto limitati, non si può ancora escludere che nella Gallura abitata dai Corsi e nella stessa Corsica, questo primo filone etnico di origine mesolitica abbia continuato il suo cammino nel Neolitico e in tempi successivi. Proprio a questa conclusione indirizza il fatto che i Corsi della Sardegna possono essere riconosciuti, oltre che con gli Indigeni, anche con i Tirreni che secondo Strabone giunsero nell’isola prima degli Iliesi, ovviamente dalla Tyrrhenia, cioè dalla Toscana, ed è possibile che i due popoli, Corsi (Indigeni) e Iliesi (Libi) abbiano percorso in Sardegna un cammino parallelo dal Neolitico Antico o Medio sino all’età romana e, sia pure con altri nomi, sino ai nostri giorni.

Al di là del fatto che, seguendo Pausania, il nome della Sardegna e dei suoi abitanti risale a circa sette/otto millenni orsono, non ci sono ragioni per pensare che tale nome sia successivo all’età nuragica perché nessun’altra denominazione è ricordata per la Sardegna nell’antichità, a parte gli appellativi poetici greci Ichnousa. Sandalion e Argyroflps nesos, ai quali però non si accompagnano mai nomi di popoli, per intenderci non ci sono mai stati Ichnussii, Sandalioti o argiroflessini, e dunque non hanno alcuna rilevanza sul piano etnico.

Nella sostanza, già al tempo dei nuraghi, gli abitanti della Sardegna, insediati nell’isola da varie centinaia e talora migliaia d’anni e chiamati dagli stranieri “Sardi”, dovevano ritenere di far parte di un complesso di popoli specificamente della Sardegna, e in essi doveva albergare il comune sentimento di essere Sardi, in quanto abitanti da tempi remoti nell’isola, oramai la terra dei padri. Questo sentimento di sardità o sardismo, cioè dell’appartenenza alla Sardegna, dovette essere un elemento discriminante tra gli abitanti dell’isola e quelli d’oltremare, anche se forse non furono mai interrotti i legami ideali dei vari popoli isolani con le terre extra-insulari dei loro più antichi avi, legami che potevano essere tangibilmente mantenuti attraverso rapporti di reciproca ospitalità e relazioni commerciali.

I Sardi ancora oggi sono molto ospitali perché verosimilmente è rimasta nel loro subconscio, nella loro memoria nascosta, l’idea che per avere rapporti pacifici nei loro viaggi nel Mediterraneo avevano bisogno dell’altrui ospitalità. In ogni caso, questi sentimenti di sardità e insieme di ospitalità sono antichissimi e precedono l’arrivo dal mare delle genti che, dopo l’età nuragica, privarono della libertà gli abitanti dell’isola.
In età nuragica nell’isola vi era una palese unità culturale, già ben notata da Giovanni Lilliu attraverso i documenti archeologici, ma era diffuso non di meno un sostanziale sentimento unitario di sardità.

In primo luogo lo storico Solino (IV,2) afferma che Aristeo, nel quale si può riconoscere un eroe culturale sardo grecizzato, pacificò i Libi, vale a dire gli Iliesi del centro Sud dell’isola, e gli Iberi (i Balari) discendenti da Norax, “mischiando il sangue dell’uno e dell’altro popolo”, cioè saldando l’unità dei due popoli attraverso intrecci matrimoniali. Stando ai testi classici Aristeo, giunse nell’isola dalla Grecia, transitando per l’Africa Settentrionale, e regnò a Cagliari, da lui fondata prima di Iolao.

Aristeo segnala una fase architettonica nuragica arcaica perché avrebbe chiamato Dedalo nell’isola già al suo tempo, tra il XV e la seconda metà del secolo XIV a.C., e poiché quel che resta del nuraghe “classico” con bastione quadrilobato di Monte Urpinu in Cagliari, a parte i tardi rimaneggiamenti, risale a non prima della seconda metà del sec. XIV a.C., si potrebbe ipotizzare che a Cagliari esistesse anche un nuraghe più antico, cioè un protonuraghe, oltre che le tante testimonianze prenuragiche descritte da Enrico Atzeni.

È importante registrare che l’iniziativa di pacificazione dei popoli sardi ad opera di Aristeo coincide cronologicamente con il periodo delle prime vicende dei Sardi/Shardana nelle provincie (Biblo, Ugarit e Arzawa) dell’impero egizio a partire dai re Ashepsut e Tuthmosis III, e pertanto si può ipotizzare che già nel sec. XV, un capo tribale, quale doveva essere il signore di Cagliari, assimilato ad Aristeo, avesse unito attraverso un patto i vari popoli sardi in funzione di un’alleanza militare. Non può essere un caso che il golfo di Cagliari, il quale controlla con le sue colline la fertile piana (Iolea) del Campidano e fronteggia il mare ed è in reazione con le aree metallifere dell’Iglesiente e del Guspinese, fosse la base primaria della rotta dei Sardi verso l’Est e il Sud-Est del Mediterraneo, come documentano l’archeologia, in primo luogo la diffusione extra-insulare della ceramica nuragica grigio ardesia e dei metalli sardi, e le fonti letterarie antiche.

Nel contratto di pacificazione di Aristeo non compaiono i Corsi ma occorre rilevare che, stando alla tradizione letteraria, questi ebbero stretti rapporti con gli Iliesi, poiché oltre che Agryle (Karales, cioè Cagliari), anche Olbia in territorio dei Corsi, risulta fondata da Iolao, e dunque era una citta iolea o iliese e in ogni caso Olbia, col suo territorio, doveva essere una base d’appoggio indispensabile per la navigazione degli Iliesi verso l’alto Tirreno. Pertanto, l’azione di pacificazione doveva comprendere anche i Corsi della Gallura, benché per un certo periodo i rapporti tra i Corsi e i Balari dovettero essere tutt’altro che pacifici poiché essi consideravano i Balari fuggiaschi, cioè profughi essendo poiché giunti nell’isola molto tempo.
Si può ragionevolmente ritenere che ancor più abbiano portato i vari popoli dell’isola a unirsi in una sola nazione i contingenti militari sardi che più tardi nell’Est del Mediterraneo presero parte agli inizi del sec. XIII a.C., alle guerre di Ramesse II contro gli Ittiti e appresso, tra il 1220 e il 1180 a.C. circa, alle battaglie contro i grandi regni sostenute insieme ad altre genti marinare prevalentemente occidentali, note come “Popoli del Mare”, e ai Meshuesh della Tunisia.

Il senso di appartenenza ad un unico popolo e l’attaccamento alla terra natia dei Sardi/Shardana trapela non a caso da alcuni testi scritti egizi. In primo luogo nelle battaglie combattute al tempo di Merenptah e Ramesse III, gli Shardana mercenari dei faraoni e gli Shardana nemici, non presero mai le armi gli uni contro gli altri, diversamente da quanto talora viene erroneamente sostenuto. Inoltre, ancora nella metà del sec. XII a.C., durante il regno di Ramesse V, nonostante dimorassero in Egitto oramai almeno da 5 generazioni, gli Shardana residenti nella valle del Nilo continuavano a sentirsi un unico popolo, diverso da quello egiziano che li ospitava. Infatti, stando al Papiro Wilbour, gli Shardana veneravano nel tempio di Penabu un solo dio, il loro antenato, ed è palese che si sentissero appartenenti ad una unica terra natia. In breve, al tempo dei nuraghi, i Sardi, divisi in vari popoli e talora antagonisti al loro interno, erano uniti in un unico popolo contro i nemici esterni, gli stranieri d’oltremare, dunque erano un’unica nazione.

Se tra il sec. XVI e XII a.C. furono i capi tribù l’elemento di coesione delle comunità sarde promovendo le iniziative commerciali e militari nel Mediterraneo, più tardi intorno al 1050-1000 a.C., alla fine dell’età del Bronzo, fu il comune pensiero di liberarsi dal giogo secolare degli stessi capi tribù che, come racconta Diodoro Siculo, indusse la popolazione sarda guidata dagli aristoi (i migliori), da riconoscere nei capofamiglia (gli anziani) dei villaggi, a cacciar via i capi tribù dalla Sardegna dopo aver devastato sistematicamente i nuraghi, cioè le loro residenze. L’evento rivoluzionario che determinò la fine della società tribale è segnato omogeneamente dalla comparsa, in tutto il territorio isolano, delle sale del consiglio degli anziani, dunque di organismi decisionali collettivi di tipo senatoriale. È il periodo delle sepolture individuali, delle statue in bronzo e in pietra degli eroi, degli altari e dei cippi a forma di nuraghe, commissionati evidentemente dalle più importanti famiglie senatoriali delle comunità “aristocratiche” che abbatterono i capi tribali e si spartirono le loro terre.

La sacralizzazione del simbolo del nuraghe, non più residenza di capi, documentato al tempo delle comunità aristocratiche implica il culto dell’antenato fondatore Norax (Nuraghe), noto dalle fonti classiche, e l’ideale ritorno alle origini della civiltà nuragica, prima del dominio assoluto dei capi tribali. Il nuraghe, ristrutturato come un edificio sacro, ora è la dimora dell’antenato comune, il divino figlio della Dea, che nel nuraghe-tempio di Su Mulinu di Villanovafranca ha l’aspetto della Luna crescente, legata al divenire e alla rinascita. Questa dea, che in età romana si chiamava Diana (Giana), probabilmente per gli antichi Sardi era Ortzìa/Orxìa, venerata dai Gallilenses nel tempio di Cuccuru’eddì (Cuccuru de Gheddila/Ghellila), di Esterzili e più in generale dagli Iliesi; ad essa si offrivano le colombe, come a una dea della fertilità.

Su Mulinu

Nel periodo di circa trecento anni delle comunità “aristocratiche”, periodo concluso nella seconda metà del sec. VIII a.C., gli abitanti della Sardegna operano come un popolo coeso formato dalle comunità di villaggio unite in confederazioni (esempio S. Vittoria di Serri) guidate da magistrati (dikastai, giudici) che, stando a Diodoro Siculo, si riunivano nei dikasteria, cioè nelle sale del consiglio. Le armi, prima strumenti di oppressione dei villaggi da parte dei capi, non appartengono più a un’élite ma a tutto il popolo e sono custodite nei templi dei villaggi. Ora i Sardi sono un popolo libero, unito e felice; Diodoro Siculo ricorda questo periodo di eudaimonia (felicità), forse il periodo di maggior benessere della loro storia millenaria. In questo periodo si intensificano i rapporti sia con l’Est del Mediterraneo, in particolare con Cipro, da cui, giungono notevoli quantità di lingotti in rame e manufatti in bronzo, sia con l’Etruria e con la penisola iberica.

Domu de Orgia

Nella seconda metà del secolo VIII a.C., avviene un nuovo profondo mutamento; il periodo di benessere dei Sardi finisce con eventi traumatici, come indicano le sale delle riunioni sistematicamente abbattute, le statue di Monte Prama distrutte, tantissimi villaggi abbandonati e la popolazione che si concentra in pochi abitati, anche se più grandi. Si possono immaginare terribili scontri fratricidi all’interno delle comunità che ebbero per conseguenza un grave decremento demografico, ma non la quasi scomparsa delle popolazioni locali come talora si sostiene senza ragione. La fine delle comunità guidate dal consigli degli anziani fu provocata verosimilmente dalle lotte per imporre regimi monarchici, come avvenne nelle vicine regioni dell’Etruria e del Lazio, ad esempio a Roma fondata da Romolo nel 754 a.C. Certo è che in Sardegna ora appaiono le tombe a cista litica, come quella di Senorbì, di uomini di rango (principi o re guerrieri) connotati dalla corazza e dalla spada in bronzo.

È l’inizio nell’isola della fase Orientalizzante e di quella Arcaica, caratterizzata dai commerci fenici e greci nell’Occidente del Mediterraneo, ma continua il legame con l’Etruria. Anche in questo caso non è da pensare che la caduta delle comunità nuragiche, ora forse guidate da un re o da giudici come nei centri fenici, sia stata determinata da una massiccia aggressione di forze esterne all’isola.
Il mutamento politico, che sembra interessare tutto il territorio isolano, è il preludio allo stato di debolezza delle comunità sarde, debolezza che sarà la ragione fondamentale della fine della loro millenaria libertà nella seconda metà del sec. VI a.C.
I Sardi, tuttavia, neppure allora persero l’identità nazionale perché intorno al 540 a.C. affrontarono unitariamente un grave pericolo che veniva dal mare: la potenza navale di Cartagine,.

In un primo tempo i Sardi riescono a sconfiggere l’assalto del generale cartaginese Malco, come racconta Giustino (XVIII, 7,1), ma in seguito intorno al 510, stando a Servio, Sardi e Corsi, guidati dal re Forco, subiscono una disfatta ad opera della flotta di Atlante, cioè di Cartagine, forse sostenuta dalle navi dei centri fenici costieri della stessa isola, poiché Erodoto afferma che circa un decennio prima, al tempo del re persiano Cambise, le navi delle città fenicie non combattevano contro i consanguinei Cartaginesi. Ora gran parte del territorio dell’isola cade sotto il dominio della città nordafricana e restano libere solo le terre della Barbagia e forse altri territori montani delle aree interne. Giustino (XIX) afferma che fu Asdrubale a guidare l’armata cartaginese contro i Sardi. Il prezzo pagato dai Sardi fu altissimo: la gran parte degli abitati delle piane furono abbandonate e la gente cercò rifugio sui monti della Barbagia e allo stesso tempo le belle piane iolee persero gran parte dei frutteti e dei i vigneti perché i Cartaginesi imposero la monocoltura cerealicola. L’attacco Cartaginese era mirato particolarmente al territorio di Cagliari e al fertile entroterra campidanese. Solo alla fine del secolo IV ci fu una ripresa insediativa nelle piane.

Riguardo all’evento che pose fine alla libertà dei Sardi, Giovanni Lilliu (Dalle origini alla fine dell’età bizantina, 1988, p. 126) afferma che allora, la Sardegna fu divisa in due: una sorta di riserva montana (la Barbagia) e una Sardegna integrata alla cultura del vincitore. Il Lilliu aggiunge che “Fu questo il più grande dramma storico dell’isola: la perdita dell’unità nazionale morale dei Sardi”. “Si capovolse allora anche il rapporto dei Sardi col mare. Dopo il periodo nuragico vennero i tempi lunghi del rapporto schizofrenico tra i Sardi e il mare, l’odio-amore e la paura del mare, i ladri che vengono dal mare, il sogno di ritornare al mare, di riguadagnare, allentando la spietata reclusione, il mare, ossia l’antica frontiera-paradiso. Questo sogno non è ancora diventato tutto realtà. Ci si sta avvicinando, lo si deve concretare in pieno. Per i Sardi il mare è il segno d’una libertà perduta, ma è pure l’utopia d’una libertà da conquistare”.

Giovanni Lilliu


Dopo Cartagine, si succedono altri dominatori e altre guerre con i Sardi ancora uniti, ma senza successo perché non hanno più una flotta e oramai sono male armati. Nel 238 a.C. i Romani, sostituiscono i Cartaginesi nel dominio della Sardegna e nel 215, l’iliese Ampsicora, presentato come un re, cerca invano con l’aiuto degli stessi Cartaginesi di cacciar via i Romani. Il toro sovrastato dall’astro solare, sigillato nella monetazione, è il simbolo unitario sardo della rivolta, tramandato dagli avi. Con Ampsicora e il figlio Iosto sono i Sardi Pelliti (forse i Balari), giunti in soccorso degli Iliesi da Nord; gli uni e gli altri si raccolgono presso Cornus, non lontano dall’odierna Cuglieri nel Montiferru. Nella battaglia, i Sardi soccombono all’esercito di Roma forte di 22.000 fanti e 1200 cavalieri sotto il comando di Tito Manlio Torquato e, stando alla testimonianza di Tito Livio (XXIII, 40,1), lasciano sul campo 3000 uomini e 800 vengono fatti prigionieri.

Ampsicora


Più tardi, nel 178 a.C, come racconta ancora Tito Livio (XLI, 6,5-7), “gli Iliesi alleatisi ai Balari avevano invaso l’intera provincia pacificata (cioè già sottomessa a Roma)” e perciò Roma nel 177 inviò in Sardegna un esercito forte di 11.600 fanti e 900 cavalieri con a capo il console Tiberio Sempronio Gracco. Il console romano condusse le sue truppe nelle terre degli Iliesi e sconfisse i Sardi facendone strage. Lo stesso Livio (XLI,12, 4/6) afferma che furono uccisi 12000 uomini. Tantissimi furono i prigionieri, e allora stando ad Aurelio Vittore (57,2) nacque il detto Sardi venales, cioè Sardi da vendere all’asta “a vile prezzo” come schiavi. Annio Floro (I, 22,35), poeta romano di origine africana, vissuto tra il I e il II sec. d.C., loda il coraggio e la fierezza dei Sardi scrivendo che quando Gracco condusse il suo esercito in Sardegna “a questa non giovarono né la fierezza delle sue popolazioni né l’ambiente straordinariamente aspro dei Monti Insani (della Barbagia) e (Gracco) si accanì contro le città sarde e contro la capitale Karales (che sosteneva la ribellione degli Iliesi) per poter domare quella gente indifferente alla morte senza valore per il suolo patrio”. Per difendere la libertà, i Sardi non avevano paura di sacrificarsi, ma non bastava il coraggio perché dovevano essere male armati, in particolare senza consistenti reparti di cavalleria.

Ben diverso è il tono di Cicerone. Per difendere Marco Scauro, che da pretore in Sardegna nel 55 a.C. aveva vessato la popolazione locale, Cicerone (Pro Scauro, 9, 19) offende i testimoni sardi che l’accusavano, trattandoli non da stranieri ma da barbari, poiché Roma non ha alcuna città amica nell’isola, e afferma, rivolto ai 120 Sardi che testimoniavano contro Scauro: “sin unus color, una vox, una natio est omnium testium”, cioè “ma se un solo colore del volto, una sola lingua, una sola nazione hanno tutti i testimoni…”.

Per l’oratore romano gli abitanti della Sardegna sono caratterizzati innanzitutto da una sola vox, cioè da una sola lingua, certo assai diversa da quella latina, sebbene gli idiomi dei singoli popoli sardi non dovessero essere proprio tutti uguali. Inoltre i testimoni mostrano un solo colore della pelle, certamente più bruna di quella dei Romani. Infine, questi isolani hanno una natio, una unica nazionalità che nulla ha in comune con l’origine di Roma. Cicerone vuole smentire decisamente la tradizione, raccolta da Sallustio (II, fr. 11) seguito da Servio (Ad An I, 242, 601) e Silio Italico (XII, 360), di chi voleva l’amicizia dei Sardi, sostenendo per essi (gli Ilienses) un’origine da Troia, come quella dei Romani. Cicerone mette in cattiva luce i Sardi e li propone come un popolo che per lui ha una spregevole origine mista nord-africana (i Libi di Pausania) e punica (fenicia), mentre ben diverso è il pensiero di Diodoro Siculo, che esalta la lotta degli Iolei, ancora liberi, contro i Romani e per essi propone una nobile origine greca.

Cicerone, dunque, enfatizza l’unità dei Sardi, oltre che la loro diversità, rispetto ai Romani, e li descrive con la mastruca, il manto di pelle dei possessori delle greggi, ancora oggi detto best’e pedde e stabeddi (dal latino vestis pellis). I testimoni sardi ritratti da Cicerone richiamano incredibilmente i pastori del circondario del Nuorese che facevano le bardane, descritti con un tono non molto dissimile, in una sua relazione, da Domenico Bardari, rappresentante del Governo italiano, prefetto di Cagliari tra il 1880 e il 1883: “… pastori nomadi dalle lunghe chiome intrecciate, dalle barbe prolisse, col dorso coperto da luride pelli di montone e colle uose quasi incrostate nelle gambe”. Questi pastori barbaricini, anziani e venerabili nonostante le velenose affermazioni del Bardari, hanno fermato il tempo dei nuraghi perché ancora alle soglie del ‘900 e anche più tardi come attesta Grazia Deledda, portano le lunghe chiome con le trecce, come quelle delle immagini in bronzo e pietra dei sacerdoti guerrieri sardi di circa tremila anni fa.

Da questo quadro emerge che il sentimento di sardità, vale a dire l’ideale appartenenza ad un’unica nazione, della popolazione dell’isola ha radici che affondano nell’età nuragica, e si è mantenuto anche dopo l’età romana sino a oggi, soffocato ma non spento dai vari popoli che più tardi hanno colonizzato l’isola. Fu quello stesso sentimento di sardità che prima, nel 1353, spinse i Sardi di Mariano IV d’Arborea, alla guerra contro gli Aragonesi e lo stesso Mariano IV e la figlia Eleonora d’Arborea a usare la lingua sarda nella Carta de Logu. Anche più tardi i Sardi non accettarono senza combattere la sudditanza della Sardegna sotto gli Aragonesi decretata arbitrariamente da papa Bonifacio VIII, e si opposero ad essi nella sfortunata battaglia di Sanluri del 1409 che pose fine ai loro sogni di libertà.

Mariano IV

Alla fine del ‘700, appoggiandosi ai Francesi, i Sardi tentarono di liberare la loro isola dai Piemontesi; la Sardegna allora sarebbe dovuta diventare un libero stato repubblicano, ma, se il tentativo fosse riuscito, forse l’isola non avrebbe avuto la libertà promessa e, come la Corsica, sarebbe diventata suddita della Francia poiché allora la politica coloniale francese era tutt’altro che finita.

Oltre un secolo dopo, durante la guerra mondiale del 1915-18, racconta Emilio Lussu, si diffuse l’orgoglio di essere Sardi, anche se si combatteva non per difendere l’isola ma per fare grande l’Italia. Tuttavia il sentimento della sardità, della nazionalità, non era nato nella I guerra mondiale, bensì allora, poté manifestarsi, esteriorizzarsi e divulgarsi anche in letteratura perché i Sardi si trovarono a militare e a combattere tutti insieme in reparti di fanteria, il 151° e il 152° Reggimento della Brigata Sassari, formati esclusivamente da soldati provenienti dalle varie parti dell’isola. Allora si sentirono profondamente sardi i soldati Galluresi, Logudoresi, Campidanesi e Barbaricini, come in precedenza i Corsi, i Balari e gli Iolei che cercarono di difendere la loro isola dalle invasioni di Cartagine e di Roma, non diversamente dagli abitanti dell’isola che appresso, in silenzio, continuarono a non sentirsi Vandali, Bizantini, Pisani, Genovesi, Aragonesi, Spagnoli e Torinesi.

Benché l’Italia, sia riuscita oramai nella “straordinaria” impresa di strappare ai Sardi la cultura tradizionale e la lingua madre, come prima fecero solo i Romani, anche oggi la gran parte degli abitanti dell’isola si sente un solo popolo, una sola nazione, si sentono sardi, sia pure con una straordinaria pluralità di manifestazioni perché, come scriveva Marcello Serra, la “Sardegna (è) quasi un continente”, non solo per i suoi vari straordinari aspetti naturali, ma anche per quelli culturali. I Sardi sono centu concas e centu barrittas e hanno il pregio di non avere la mente asservita ad un solo modo di pensare, dunque un grande privilegio perché nella varietà consiste il progresso e la bellezza umana, ma il non trovare l’accordo delle menti sulle questioni essenziali per il loro benessere è un terribile difetto, il castigo per il loro pluralismo. Solo quando elimineranno questo difetto, i Sardi sapranno lottare con successo per i diritti che spettano a una nazione, nel contesto dei diritti della grande comunità umana.

La nazione dei Sardi è dunque molto più antica di quella dei Francesi che si richiamano ai Franchi o di quella degli Italiani, che risale all’Ottocento e che prima esisteva solo nella geografia politica dell’antica Roma.
Giovanni Lilliu raccorda l’idea della nazione sarda, giunta sino a oggi, alla costante resistenziale della popolazione delle Barbagie, e ad una simile idea si avvicina l’archeologo romanista statunitense Robert J. Rowland (2001, The Periphery in the Center, Sardinia in the ancient and medieval worlds). Alla luce degli elementi storico-archeologici si può ampliare questo concetto estendendo la costante resistenziale a tutto il popolo sardo, manifesta in forme diverse, con la lotta armata contro i nemici degli Iliesi-Barbaricini, ma anche con la resistenza silenziosa, che emerge, ogni tanto, come cenere sotto la brace, in vari momenti della sua storia, come quello che vide protagonisti i militari della Brigata Sassari nella prima guerra mondiale.

In Sardegna c’è chi si oppone, senza alcun ragione logica, al concetto che il popolo dell’isola sia una nazione. Forse queste persone si sentano Italiani e non Sardi, come nel passato altre persone che vivevano nell’isola, per convenienza, per la loro diversa origine, o per altre ragioni, si sentivano Spagnoli e Catalani, Bizantini, Vandali e Romani, piuttosto che Sardi. È più che normale che possano pensare in questo modo, ciò che non è normale è la loro pretesa superiorità che talora sfocia in arroganza non rispettando la storia e il pensiero dei Sardi. Se invece si sentono cittadini del mondo, allora la pensano come me.
I popoli nella loro grande varietà sono la linfa dell’umanità, e purtroppo spesso il mancato rispetto della loro esistenza con i loro valori e le loro specifiche caratteristiche ha determinato per sete di potere, tanti stermini e genocidi di genti che desideravano vivere serenamente nella loro terra. Guardando solo all’età moderna, Inglesi, Francesi, Spagnoli, Portoghesi, Olandesi, Belgi, Tedeschi e Italiani non sono abbastanza consapevoli dei delitti da essi compiuti contro l’umanità con la loro politica imperialistica e nazionalistica, cioè di imporre i loro valori nazionali a quelli delle altre nazioni. Ancora oggi, per impossessarsi delle risorse economiche altrui, confidando sulla propria superiorità militare, vari popoli con diversi pretesti, continuano ad assalire altre genti: umanità (disumanità) contro umanità. Gli uomini hanno la memoria corta e dimenticano la storia perché le armi prima distruggono gli altri e poi loro stessi.

D: In Sardegna, storicamente e ciclicamente, riemerge ogni tanto la “Questione sarda”, che a volte prende lo sbocco autonomista, altre volte indipendentista. La Sardegna è oggi una nazione? In questa attuale fase autonomistica, è necessario rivedere i rapporti con lo stato italiano?

R: Con l’aggregazione già in età nuragica, dei suoi vari popoli, Iliesi, Balari e Corsi, la Sardegna, come si è detto, divenne la terra di una unica nazione, forse comprendente anche la Corsica centro-meridionale dove, non meno che in Gallura abitavano i Corsi e dove parimenti si diffuse un sistema politico tribale con i castelli e le torri. Nell’antichità la Sardegna era ritenuta una grande isola, superiore per grandezza alla Sicilia, probabilmente perché era considerata una sola terra con la vicinissima Corsica. Oggi tra la Corsica e la Sardegna, Francia e Italia hanno creato un’enorme barriera e le due isole si sentono separate e meno rilevanti di quanto potenzialmente possono essere nella loro unità.

Torre Pozzone

A partire dall’occupazione cartaginese, i Sardi per oltre due millenni sono stati dominati e hanno sofferto la loro condizione di sudditanza, inizialmente combattendo contro gli invasori e poi subendo in silenzio tranne che nella ribelle e orgogliosa zona montana barbaricina che ospitò gli Iliesi in fuga dalle zone pianeggianti. Tuttavia, come se sperassero nel miracolo di un liberatore, i Sardi non hanno mai rinunciato a sentirsi appartenenti a una nazione diversa dai popoli che di volta in volta l’hanno dominata. In ogni caso, la Sardegna sarà sempre una nazione finché coloro che la abitano sentiranno di appartenere a un popolo diverso dagli altri non solo per l’ubicazione e le caratteristiche geografiche della loro terra ma anche per le specifiche vicende storiche e i valori umani.

Emilio Lussu e Giovanni Lilliu e altri politici isolani avevano bene in mente che il popolo sardo è almeno idealmente una nazione, ma ritenevano che l’autonomia della Regione Sardegna, in un rapporto speciale con lo stato italiano, avrebbe potuto garantire un processo di crescita dell’isola, un cammino verso il benessere e, dunque ritenevano che tale rapporto servisse per superare la crisi economica e sociale gravante da lungo tempo sulla popolazione sarda. Si può ritenere che alla radice della concezione di questi due nostri padri politici e intellettuali, uno sardo socialista e l’altro sardo democristiano progressista, vi sia stata la sotterranea paura dell’isolamento della loro terra, e dunque il pensiero che se la Sardegna avesse intrapreso la via dell’indipendenza, da sola non avrebbe potuto garantire un futuro sereno ai propri figli, sia per un potenziale tracollo economico sia per l’incombenza di un’aggressione militare, che non poteva essere affrontata dall’isola inerme .

Nella sostanza questi uomini illustri consideravano l’Italia come una madre capace di nutrire e far crescere una figlia, ma nella realtà, l’Italia non è stata una madre o una sorella maggiore, ma un’ingannevole padrona poiché ha tolto alla Sardegna i valori culturali e le potenzialità economiche, ne ha sfruttato il lavoro e ha imposto un tributo di sangue ai suoi abitanti. Oggi si può dire che l’autonomia speciale della Regione è stata un fallimento, un inganno scaturito dalla volontà di dominio dello stato italiano, strettamente legata ai potentati economici italiani e non di meno sovranazionali.

Dopo circa duemila e cinquecento anni di sudditanza, i Sardi sono talmente avvezzi ad essere governati che hanno paura di governare, di decidere da soli. Non si spiega altrimenti anche il fatto che, all’atto di definire la Costituzione dello stato italiano, la Sicilia ha chiesto e avuto la competenza primaria sui Beni culturali e la Sardegna no, e non solo perché la Sicilia ha un maggior numero di rappresentanti nel governo. Più tardi Giovanni Lilliu ha cercato invano di porre rimedio a tale situazione.

Per i Sardi che confidano nell’istituto autonomistico, l’obiettivo fondamentale non può essere che quello di rinegoziare lo statuto dell’Autonomia speciale della Sardegna, al fine di ridisegnare le competenze dello Stato e della Regione e di rimodulare il rapporto con lo Stato Italiano su un piano confederativo. Oggi lo stato italiano ha con l’isola un rapporto di assoluto dominio, sostanzialmente coloniale, poiché la Sardegna è priva totalmente di competenze nei fondamentali settori decisionali: la sicurezza del suo territorio, messo terribilmente in pericolo dalle invasive servitù militari; i trasporti navali, aerei e terrestri che impediscono la continuità territoriale nell’isola e fuori dall’isola; la pubblica istruzione mediante la quale lo stato italiano ha disintegrato la cultura identitaria dei Sardi, riducendola a folklore; i beni culturali e così via.

Grazie alle leggi dello stato non siamo neppure rappresentati in Europa e non a caso le politiche economiche italiane ed europee hanno ancor più aggravato lo stato di sudditanza dell’isola, togliendole ulteriore potere decisionale, non ultimo nel campo energetico.
La lingua materna è una componente fondamentale della identità di un popolo e lo stato italiano ha quasi del tutto distrutto la lingua sarda nelle diverse varianti e questa può essere ancora salvata solo con interventi drastici e immediati, in particolare con l’adozione della stessa lingua sarda negli insegnamenti delle diverse materie della scuola primaria, consentendo eccezionalmente per un certo periodo l’attività dell’insegnamento anche agli anziani (compresi gli emigrati) depositari di una conoscenza che si va perdendo. Nel rispetto della specificità della regione Sardegna, avrebbero dovuto e dovrebbero insegnare nella scuola primaria dell’isola solo coloro che conoscono la cultura locale e parlano la lingua sarda.

D’altra parte, non si può mirare all’autonomia o all’indipendenza senza la ricerca del benessere ed è fondamentale che i Sardi operino all’unisono per migliorare le loro condizioni di vita. Nonostante sia bellissima, fertile e con un clima ideale, oggi la Sardegna è una povera isola malandata e bistrattata, abbandonata dai giovani e in via di spopolamento. Perché dividersi nella ricerca del bene comune per l’isola? In tutti i paesi esistono diversi partiti politici, eppure li accomuna l’idea della loro appartenenza a un solo popolo. Le formazioni politiche sarde autonomiste e indipendentiste hanno un peso irrisorio se non si aggregano per risolvere i gravi problemi che colpiscono l’isola, se non operano con fermezza superando gli interessi particolaristici. In ogni caso, nei rapporti con soggetti esterni all’isola, è indispensabile che i Sardi prendano decisioni unitariamente, come se rappresentassero uno stato.

Se lo stato italiano rifiutasse di rinegoziare lo statuto autonomistico in funzione di un’intesa confederale, ai Sardi non rimarrebbe che scegliere la via dell’indipendenza. La Sardegna deve essere libera di governarsi, di essere indipendente poiché nella comunità mondiale deve prevalere il principio dell’autodeterminazione dei popoli.
Certo non è semplice essere uno stato sovrano, ma ci sono vari esempi recenti di terre più piccole, come Malta, diventate indipendenti. La Sardegna, con la sorella Corsica al fianco, è un’isola mediterranea, terra ponte tra Europa e Africa e può recitare un importante ruolo di raccordo tra i due continenti. Gli abitanti della Sardegna sono mediterranei ancor prima che europei, anche se si sentono fratelli di tutti i cittadini del mondo, a cominciare dagli Italiani. Le isole mediterranee non hanno propositi di conquista ma solo l’obiettivo di vivere in serenità, anelli tra culture diverse d’Europa, Africa e Asia, che possono essere messaggere di pace nel mondo.
I trasporti via mare costano meno di quelli aerei e terrestri; la posizione insulare e ad un tempo strategica dell’isola, di collegamento tra le terre del Mediterraneo, può creare occasioni per migliorare le sue condizioni esistenziali, se a goderne i benefici è l’intera popolazione dell’isola e non i predoni che vengono dal mare e gli eventuali complici locali.

Continua nella seconda parte >>


Immagine di copertina: Unione Sarda

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