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Le navi romane abbandonate: le ombre sul patrimonio culturale olbiese

de Giulia Olianas

È di pochi giorni fa, 20 marzo, l’articolo della Nuova Sardegna che denuncia lo scandalo dei resti abbandonati delle navi romane di Olbia. Il video pubblicato dal quotidiano mostra delle immagini sconvolgenti, almeno per chi possiede anche una minima conoscenza di cosa si tratta: una decina di vasche, dei grandi contenitori, al cui interno si scorgono quelli che oggi appaiono come degli enormi frammenti di legno informi, immersi nell’acqua piovana e semi ricoperti da altri materiali e detriti.

Sono i resti delle 24 navi di epoca romana e medievale rinvenute tra il 1999 e il 2001 durante tre campagne di scavo per la costruzione del tunnel che collega il porto di Olbia alle strade extraurbane della città.

Le navi appartenevano a quattro fasi temporali distinte: 2 navi romane, di età neoroniana – vespasianea, 11 affondate durante l’attacco dei vandali intorno al 450 d.C., che determinò il declino della città romana, 3 navi databili all’età giudicale, tra la fine del IX e gli inizi del X secolo, altre 3 risalenti rispettivamente all’XI, XIV e XV secolo, affondate per svariate cause sempre nei pressi del porto antico, 5 di cui porzioni di relitti del V secolo o non ben databili. Solo tre di esse furono spostate nel nuovo Museo Archeologico, accanto al Molo Brin, dove sono tutt’ora esposte al piano terra.

Una scoperta che all’epoca fece rumore, sia per l’importanza straordinaria dei reperti, che trovano paragone in pochissimi altri ritrovamenti in ambito europeo, sia perché queste enormi navi erano testimoni di eventi cruciali della storia mediterranea, della Sardegna e della città di Olbia, in anni che segnarono la fine dell’Impero romano, l’avvento delle Repubbliche Marinare e dunque la costituzione della realtà dei Giudicati in Sardegna. Olbia scoprì all’improvviso la propria storia attraverso il ritrovamento di un patrimonio unico, preziosissimo, e tutte le forze possibili furono impiegate nella ricognizione dei resti delle navi, nella loro rimozione dal luogo di ritrovamento affinché fossero restaurati, conservati e, alcuni di essi, musealizzati, per poterne permettere la fruizione.

In “Comunicare la memoria del Mediterraneo”, raccolta degli Atti del Convegno Internazionale di Pisa, all’interno del contributo “I relitti del porto di Olbia. Dallo scavo al museo”, gli autori illustrano minuziosamente le fasi dell’asportazione dei relitti olbiesi e dello spostamento degli stessi in casse piene d’acqua, in attesa dei trattamenti conservativi. Segue poi una parte dedicata al programma di interventi da effettuare, ovvero documentazione, restauro e musealizzazione; in particolare si legge che il luogo di conservazione dei relitti asportati sarà:

“un grande capannone di buon pregio architettonico dei primi del ‘900, ora usato come deposito delle casse contenenti i legni da trattare, che si propone di attrezzare a laboratorio visitabile dal pubblico mediante passerelle sospese.”

 E ancora: “Una volta raggiunto l’obiettivo del porre alla fruizione i 5 relitti principali, resterà il problema dell’esposizione degli altri, […]; l’ipotesi attualmente sul tappeto è la conversione in struttura museale dedicata del grande capannone dei primi del ’900 di cui s’è detto sopra. Anche in questo caso l’ubicazione è strategica, poiché esso è sito nel cuore della città, nella più grande area verde dell’abitato (ex Artiglieria militare), che sta per essere trasformata in parco urbano il quale ospiterà, negli altri edifici che vi sorgono, istituti universitari sul modello del campus anglosassone.”

Leggerlo oggi fa una certa impressione. Il grande capannone dell’ex Artiglieria citato altro non è che una delle strutture facenti parte dello spazio in cui nei giorni scorsi sono stati ritrovati i resti delle navi tra acqua, fango e rifiuti. In una foto allegata al contributo si vedono chiaramente le casse contenenti i reperti all’interno di una struttura chiusa, una sistemazione molto diversa da quella mostrata nel video pubblicato dalla Nuova Sardegna, in cui le casse si trovano all’aperto, in balia delle intemperie ed esposte agli agenti atmosferici, facendo quindi supporre uno spostamento successivo. Ma cosa è successo?

In realtà è da diversi anni che tutta l’area dell’ex Artiglieria di Santa Cecilia, che conserva molti altri reperti, in teoria destinati alla musealizzazione, si trova in condizioni di estremo degrado. Polmone verde all’interno della città, il sito è passato dal Demanio militare al Comune nel 2017 per una cifra irrisoria; oggi è il regno dell’incuria e dell’abbandono, danneggiato da furti, occupazioni abusive, incendi e soprattutto dall’alluvione del novembre 2013, che con la sua ondata di piena invase e devastò il sito. Nulla è mai stato fatto per salvaguardare l’area e il tesoro archeologico che essa ospita sotto gli occhi di tutti; il progetto di rivalorizzazione non è mai partito, nonostante i 700 mila euro che la Soprintendenza era riuscita ad accaparrarsi nel 2020 per recuperare dei vecchi capannoni e farne un polo museale per la fruizione del patrimonio della storia olbiese.

Tralasciando l’amarezza per l’ennesimo fallimento di un progetto di recupero di un luogo di cultura, come è stato possibile lasciare consapevolmente per anni in stato di abbandono dei reperti di tale importanza, unici nel loro genere e fondamentali per la restituzione della storia cittadina agli abitanti di Olbia? Per ora nessuno si è espresso, nessun commento ufficiale, nessuna spiegazione.

Non è la prima volta che a Olbia si registrano episodi di incuria nei confronti del patrimonio storico- culturale: cisterne puniche cementate, le antiche mura puniche abbandonate e degradate, oltre che poco visibili perché nascoste dalle abitazioni, il nuraghe Belveghile, facente parte di un complesso con torre, bastione e varie capanne, oggi sovrastato da un viadotto che lascia pochissimi centimetri tra pietre del monumento e travi che sorreggono la strada, la fattoria romana di S’Imbalconadu, sito importantissimo per la sua tipologia, di cui si conservano pochissimi altri esempi, chiusa e inaccessibile.

L’impressione è che le amministrazioni locali non abbiano particolare interesse a tutelare e a conservare il proprio patrimonio culturale nella sua totalità; nonostante sia infatti necessario ricordare che ad Olbia vi sono anche degli esempi positivi di fruizione dei siti quali la basilica e la necropoli di San Simplicio o il pozzo sacro di Pittulongu, è innegabile che manchi in città una gestione organizzata dei beni culturali, una rete che si occupi della loro conservazione e soprattutto della loro fruizione pubblica. Manca un’idea di cultura per i cittadini, per chi abita il territorio, per chi lo vive tutto l’anno.

In un certo senso è come se la città che più di tutti si fa promotrice di crescita e di sviluppo economico in Sardegna, incarnazione del boom economico regionale, che si erge a traino dell’isola, sia disposta a pagare come prezzo di questa ascesa il totale disinteresse o addirittura, vista l’incuria in cui versano i suoi beni culturali, la progressiva cancellazione della propria storia.

Tra i commenti che più mi ha colpito riguardo questa vicenda, una frase affermava che a Olbia, nella coscienza comune, la storia passata inizia con la fondazione della Costa Smeralda; per questo regnerebbe un’indifferenza generale rispetto a tutto ciò che è anteriore a quella data. Se si pensa alla vocazione turistica della città, alla massiccia turistificazione che da decenni essa subisce, o sceglie di subire, non si fatica a collegare gli episodi di incuria nei confronti del patrimonio culturale all’assoluta priorità di investimento delle risorse nel settore dei servizi turistici e a concentrare dunque tutte le attenzioni su quest’ultimo.

La valorizzazione della propria storia e del proprio patrimonio culturale potrebbe essere in realtà funzionale e complementare agli obiettivi dell’offerta turistica olbiese, costituendo una risorsa importantissima che potrebbe dare un grande slancio al settore e all’offerta culturale del territorio.

Ma sappiamo anche che, come dimostrato in vari contesti, la cultura può essere un mezzo per combattere la turistificazione, e a questo punto, si tratterebbe forse di scegliere da che parte stare e decidere che cosa si è.  


FONTE: La Nuova Sardegna, link all’articolo del 20 marzo 2024

Foto di E. Trainato: https://books.openedition.org/pcjb/4006?lang=it

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