Autonomia differenziata: contenuto, fondamenti, obiezioni e posizione dalla Sardegna

de Omar Onnis

Da mesi si parla di autonomia differenziata, ma in questi giorni, con l’approvazione in Consiglio dei Ministri del Disegno di Legge (ddl) “Calderoli”, la sua realizzazione è entrata in una fase più concreta. Benché sia lecito ipotizzare che l’iter del provvedimento non sarà breve, né scevro di incidenti, e che forse è persino improbabile che vada definitivamente in porto, è necessario capire di cosa si tratta e quali conseguenze ci saranno, eventualmente, per la Sardegna.

La proposta di legge “Calderoli”, promossa dalla Lega ma bene accolta da una larga fetta dell’arco politico italiano, risponde a quella che in altri anni è stata definita “questione settentrionale”. La questione settentrionale si basa sulla premessa che il Nord Italia sia da sempre la “locomotiva del Paese”, in termini economici, ma anche civili e sotto altri punti di vista, e che le sue esigenze siano state sempre frustrate per via della zavorra rappresentata dal Meridione e dalle Isole. Sarebbe dunque giusto ampliare le competenze in capo alle regioni settentrionali onde fornire loro i mezzi giuridici e finanziari per poter trasformare tale supremazia in una maggiore possibilità di sviluppo, dipendendo meno da Roma e più dalle proprie (superiori) capacità amministrative.

Entra in gioco, qui, l’argomento dei “residui fiscali”, ossia, secondo la definizione dell’economista James Buchanan che ideò quest’indice, “la differenza tra il contributo che ciascun individuo fornisce al finanziamento dell’azione pubblica e i benefici che ne riceve sotto forma di servizi pubblici”. Ricostruire quantitativamente l’ammontare dei residui fiscali fornirebbe “uno strumento attraverso il quale valutare l’adeguatezza dell’azione redistributiva dell’operatore pubblico” (fonte: lavoce.info).

Il tema dei residui fiscali è centrale nelle pretese di Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna di ottenere un’autonomia più ampia. Le rispettive classi politiche ritengono di dare troppo allo Stato centrale e di non ricevere indietro abbastanza. Lamentano di avere sul groppone il Meridione e le Isole e assicurano che sarebbero in grado di gestire la cosa pubblica in modo più efficiente e proficuo di quanto faccia l’amministrazione statale. Questa la base politica dell’autonomia differenziata.

Come si vede, non è un discorso generale, argomentato in termini politici e teorici, a favore di un impianto federalista dello stato. È – diciamolo subito – pura propaganda ideologica, con una componente non secondaria di razzismo, a favore di un’opzione che al momento è rivolta solo a dotare le regioni settentrionali di maggiori risorse, togliendole al bilancio dello stato.

In realtà, tale base politica è piuttosto discutibile e su diversi fronti. Intanto andrebbe chiarito che fondamenti storici ha questa differenza tra Nord da una parte e Sud e Isole dall’altra. Preso così, come fotografia dell’attualità, il dato dei residui fiscali ci dice poco. Se si andasse a indagare come si è formato lo stato italiano unitario, emergerebbe il macroscopico sbilanciamento delle scelte politiche generali, delle scelte economiche e di finanziamento e infrastrutturazione a totale vantaggio del Nord.

In poche parole, se le regioni del Nord versano molte imposte allo Stato è perché hanno un’economia che nel tempo si è strutturata e diversificata proprio grazie agli investimenti e alle attenzioni dello Stato centrale. Basti pensare alle politiche sul commercio estero, da sempre protezioniste a vantaggio dei grandi produttori (industriali e agricoli) settentrionali, ma quasi sempre a detrimento del Meridione e delle Isole. O alla dotazione infrastrutturale, così sperequata, benché molte materie prime per la sua realizzazione siano state estratte proprio dal Sud e dalle Isole (e dalla Sardegna non meno che da altre: sarà sufficiente citare solo il legname e il carbone tratti dalle foreste sarde nel corso dell’Ottocento).

Il successo economico del Nord si è anche avvantaggiato molto della manodopera meridionale e insulare, così come il sistema dell’istruzione superiore e universitaria, che ha drenato costantemente talenti e intelligenze dalle altre parti dello Stato verso i centri principali del Nord.

Se poi andiamo a verificare in cosa consiste la maggiore spesa dello Stato rispetto elle entrate ricevute dalle regioni meridionali e insulari, potremmo scoprire che non sempre si tratta di spesa produttiva. Per la Sardegna, ad esempio, sono computate tutte le spese militari e per le forze dell’ordine, ossia un notevole volume di spesa pubblica statale che oltre a non avere alcuna ricaduta positiva in termini economici (a dispetto della propaganda militarista) sorregge da molti anni un apparato di sfruttamento coloniale e i dispositivi per la sua protezione.

Al di là delle critiche di merito sull’argomento dei residui fiscali, va anche valutata la portata scientifica e conoscitiva di tale indice. Anche su questo fronte le cose sono meno lineari di come vengono presentate dalla politica e dai mass media. La rilevanza attribuita al semplice dato dei residui fiscali è messa in dubbio da più parti a livello scientifico e sul piano fattuale. Esistono altre maniere di computare e valutare la spesa pubblica.

Per esempio, se si utilizza il criterio della spesa pubblica pro capite e le griglie dei Conti pubblici territoriali (come fanno enti quali lo Svimez e altri), emerge che gli effetti sulla popolazione di questa sperequazione a vantaggio (supposto) delle regioni meridionali non esistono. Anzi, la spesa pubblica pro capite è decisamente più alta al Nord che al Sud e nelle Isole. In ogni caso, anche così è difficile darsi conto di un fenomeno – le differenze tra Nord e Sud e Isole – che ha radici storiche profonde, frutto dell’asimmetria strutturale e originaria dello Stato italiano. Invece, nell’ottica di una riforma dello Stato, sarebbero proprio tali radici quelle da indagare e le storture originarie quelle da correggere, in termini prospettici e strategici.

Per altro, la supposta migliore amministrazione settentrionale della cosa pubblica è un mito largamente smentito da decenni di ruberie, malversazioni e scandali assortiti, di cui sono costellate le cronache. Basti ricordare dove è esplosa Tangentopoli (di cui le generazioni più giovani sanno poco, ormai). Ma i fenomeni criminali settentrionali esistono da prima del biennio 1992-3, e non sono mai stati di poco conto.

Oggi, se guardiamo al solo dato dei reati per 100mila abitanti, la Lombardia ne conta circa 5000 all’anno e l’Emilia-Romagna 5800, contro i circa 3000 della Sardegna (la Sicilia, 3800). Anche questo è un indice che può essere interpretato e criticato, naturalmente. Ma non viene mai tirato in ballo. In definitiva, le ragioni addotte a sostegno dell’autonomia differenziata, così come proposta, sono largamente contestabili. In linea di fatto, oltre che in linea di principio. Ma sulle obiezioni di principio e sulla discussione in merito torneremo più avanti.

Adesso è opportuno precisare in cosa consiste la riforma partorita dal governo e in procinto di essere affrontata dal parlamento.

L’art. 116 della Costituzione italiana recita:

Il Friuli Venezia Giulia, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige/Südtirol e la Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale.

La Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol è costituita dalle Province autonome di Trento e di Bolzano.

Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata.

È importante capire a cosa ci si riferisca in ogni singolo passaggio. Ecco dunque anche il testo del successivo art. 117, oggetto principale della riforma costituzionale del 2001:

La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie:

  • a) politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l’Unione europea; diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea;
  • b) immigrazione;
  • c) rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose;
  • d) difesa e Forze armate; sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed esplosivi;
  • e) moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della concorrenza; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello Stato; armonizzazione dei bilanci pubblici; perequazione delle risorse finanziarie;
  • f) organi dello Stato e relative leggi elettorali; referendum statali; elezione del Parlamento europeo;
  • g) ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali;
  • h) ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale;
  • i) cittadinanza, stato civile e anagrafi;
  • l) giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa;
  • m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale;
  • n) norme generali sull’istruzione;
  • o) previdenza sociale;
  • p) legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane;
  • q) dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale;
  • r) pesi, misure e determinazione del tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale; opere dell’ingegno;
  • s) tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.

Sono materie di legislazione concorrente quelle relative a rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato.

Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato.

Le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza.

La potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia. I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite. Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive.

La legge regionale ratifica le intese della Regione con altre Regioni per il migliore esercizio delle proprie funzioni, anche con individuazione di organi comuni.

Nelle materie di sua competenza la Regione può concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato.

L’art. 119, richiamato nel 116 e modificato di recente con l’aggiunta del comma relativo all’insularità, ha il seguente contenuto:

I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci, e concorrono ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea.

I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i princìpi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio.

La legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante.

Le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite.

Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni.

La Repubblica riconosce le peculiarità delle Isole e promuove le misure necessarie a rimuovere gli svantaggi derivanti dall’insularità.

I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno un proprio patrimonio, attribuito secondo i princìpi generali determinati dalla legge dello Stato. Possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare spese di investimento, con la contestuale definizione di piani di ammortamento e a condizione che per il complesso degli enti di ciascuna Regione sia rispettato l’equilibrio di bilancio. E’ esclusa ogni garanzia dello Stato sui prestiti dagli stessi contratti.

La riforma avviata dal governo dunque si basa sull’applicazione di una facoltà attribuita dall’art. 116. Non è insomma una rottura di un ordine costituzionale di segno opposto, ma la conseguenza di una riforma, solo abbozzata e lasciata incompiuta, imposta dal centrosinistra al governo a Roma nel 2001. Dal che si deduce che la contrarietà da parte del PD e delle altre opposizioni ad esso collegate non è solo strumentale e occasionale, ma anche ipocrita. Vedremo che c’è anche qualcosa di più.

Le regioni a statuto ordinario, secondo l’art. 116, possono richiedere maggiori competenze nelle materie elencate al terzo comma dell’art. 117, ossia quello relativo alla legislazione concorrente. Concorrente significa che in tali materie la potestà legislativa non è in capo esclusivamente alla regione, ma la regione può legiferare dentro i limiti di leggi quadro o di impianto più generale varate in sede statale.

La riforma avviata farebbe diventare di totale competenza regionale tutte o alcune di queste materie. A cui si possono aggiungere alcune altre menzionate nel comma secondo (materie di esclusiva competenza statale), alle lettere indicate ( l, n, s), ma con limitazioni. Le regioni non sono obbligate ad assumersi competenze esclusive in tutte le materie disponibili, ma se vogliono possono farlo.

Diventerebbero di competenza regionale ambiti strategici come scuola, sanità, beni culturali e ambientali, energia, commercio e relazioni con l’estero. È comprensibile che la classe dirigente di una regione come la Lombardia – che ha circa 10 milioni di abitanti, un PIL pari a più di un quinto di quello complessivo italiano, confina con la regione centrale dell’Europa, ricca di suo e, tramite questa, con l’Europa settentrionale – ritenga di potersi avvantaggiare se potesse gestire tali ambiti strategici in proprio. È un calcolo cinico e probabilmente anche errato, ma in un’ottica meramente e ottusamente egoistica ha senso. Idem per il Veneto. Un po’ meno per l’Emilia-Romagna. La regione Piemonte è più fredda, sulla questione, benché non in opposizione alla riforma. Le altre regioni settentrionali (Val d’Aosta, Trentino-Sud-Tirol e Friuli-Venezia Giulia) sono già regioni autonome, quindi la loro visuale è diversa. In generale si mantengono su posizioni neutre.

Dipende anche dalla maggioranza politica che le governa. Per esempio, la Provincia Autonoma di Trento, attualmente a guida leghista, è tendenzialmente favorevole alla riforma, ma con prudenza e patto che non vengano meno le proprie prerogative (che in effetti non verrebbero modificate).

Le obiezioni dell’opposizione e delle regioni meridionali si basano su due assunti principali. Uno è un argomento definibile come nazionalista e centralista tout court: la riforma così concepita, benché in linea con la costituzione vigente e con la riforma costituzionale che lo stesso centrosinistra varò nel 2001, rischia di frantumare l’unità nazionale (sic!) e di mettere in crisi l’esistenza stessa dello stato. Inoltre si propugna la superiorità operativa e amministrativa dello stato centrale rispetto alle amministrazioni regionali, soprattutto riguardo a materie che implicano diritti e livelli di servizi che devono essere garantiti a tutta la cittadinanza, a prescindere dalla collocazione geografica. L’esempio più forte, dopo il biennio terribile della pandemia, è quello della sanità.

Le regioni meridionali, in generale, sono ostili alla riforma e adducono come motivazione la sperequazione ulteriore che essa comporterebbe ai loro danni. Anche in questo caso qualcuno usa l’argomentazione nazionalista e centralista, ma in modo meno forte e meno dirimente rispetto ai partiti di opposizione a Roma.

I mass media a loro volta, più che fornire informazioni e offrire alla cittadinanza un quadro comprensibile della situazione, giocano a fare da sponda alle parti in causa, a seconda della convenienza dei propri proprietari. In generale, sembra che la partita si giochi tra chi vuole dividere il Paese e chi vuole salvarne l’unità. In alcuni casi, specie nei mezzi di informazione di sinistra, si ventila il pericolo della sottrazione netta di diritti essenziali alle popolazioni del Sud e delle Isole, nel caso della approvazione dell’autonomia differenziata.

Nel complesso si tratta di obiezioni piuttosto deboli, largamente venate di ipocrisia, e per certi versi controproducenti. Dai partiti non c’è granché da aspettarsi. Il loro livello di elaborazione politica è nullo, la loro presa sulla società civile debolissima. Hanno voce in capitolo sui mass media, ma è difficile valutare quanto possano influenzare l’opinione pubblica. Gli stessi mass media, come detto, rispondono più a interessi di parte che a un ruolo di vera informazione democratica.

Sorprendentemente – ma forse no – a nessuno è venuto in mente di andare a vedere le carte della Lega e delle regioni settentrionali promotrici della riforma e provare a costruirci su un’ipotesi di rilancio federalista. A partire dall’analisi delle cause delle disparità storiche tra Nord e resto dello stato. Un rilancio federalista basato su principi di democratizzazione delle istituzioni e dell’amministrazione della cosa pubblica, su una prospettiva di crescita delle possibilità di azione e di relazione delle varie comunità che compongono il patchwork chiamato Italia. Non è scritto da nessuna parte che il meridione e le Isole, accettando il gioco delle regioni ricche, finiranno per perderci.

Verranno meno alcune sacche di finanziamento delle clientele e alcuni dispositivi che alimentano parassitismi e assistenzialismo, certo, ma ragionando strategicamente, si potrebbe anche pensare che il Sud, senza la zavorra del Nord, potrebbe svilupparsi in modo più libero e finalmente autonomo, in base alle proprie esigenze e alle proprie caratteristiche geografiche e demografiche.

Pensiamo solo alla questione dei cambiamenti climatici e del rifornimento energetico, oggi concepita, a livello di Stato centrale, solo in funzione dell’economia settentrionale. E lo stesso vale per il commercio estero e per l’enorme potenzialità delle relazioni con la sponda sud del Mediterraneo, fin qui mal gestite e comunque più a danno che a vantaggio del Meridione italiano. Persino il tema della criminalità organizzata, spesso agitato per contestare la riforma in via di realizzazione, potrebbe essere invece un argomento forte a favore dell’adesione meridionale alla medesima.

La forza della criminalità di stampo mafioso è data storicamente dalla sua funzione di gendarme dell’ordine costituito a vantaggio di Roma e del Nord e della sua funzione di strumento di intervento per risolvere i potenziali sbilanciamenti democratici del paese. La mafia e le sue derivazioni non avrebbero avuto una vita così facile e un potere così enorme, se non fossero state organiche e profondamente connesse col processo di unificazione italiana e con il rafforzamento del rapporto subalterno del Meridione, all’interno dello stato. Senza dire che ormai il loro centro di azione e di propagazione è il Nord Italia. La Sicilia e le regioni meridionali sono giusto un retroterra da cui attingere manovalanza. Non servono nemmeno più come base politica.

Insomma, anche dal punto di vista del Meridione italiano e della Sicilia la questione potrebbe essere affrontata in modo più coraggioso e propositivo, specialmente in un’ottica emancipativa e democratica.

Veniamo alla Sardegna. Negli ultimi anni l’unico tema strategico di cui si è discusso nelle istituzioni e nei mass media è stata l’insularità in costituzione. Alla fine questo risultato è stato ottenuto. Tuttavia, non nei termini perentori e impegnativi a cui miravano i promotori della clausola. L’intenzione era di obbligare lo Stato a fornire mezzi e finanziamenti straordinari alle isole (a tutte, non solo alla Sardegna, ovviamente), non sulla base di una valutazione contingente e nell’ottica di misure eventuali, occasionali, bensì come dotazione standard, ordinaria. Tale risultato è stato del tutto frustrato. Come si evince dalla lettura dell’art. 119 della costituzione, non lo Stato (quindi l’amministrazione centrale, governo e parlamento) bensì la Repubblica (ossia, le regioni stesse e tutte le articolazioni anche periferiche dello Stato) “riconosce le peculiarità delle Isole e promuove le misure necessarie a rimuovere gli svantaggi derivanti dall’insularità”.

La Repubblica “riconosce” (senza stabilirne natura e dimensioni) le “peculiarità delle isole” (formula vaga e giuridicamente vuota) e “promuove le misure”, cioè, non le attua direttamente, non precisa chi debba farsene carico, né le quantifica. Una formulazione retorica e sostanzialmente pleonastica, visti gli altri commi dello stesso art. 119 e la portata generale dell’art. 3, secondo comma: È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

In definitiva, la classe politica e la classe dirigente della Sardegna per anni hanno dedicato tempo, energie e risorse, occupando militarmente ogni spazio informativo, per strappare allo Stato centrale una misura generica e praticamente inutile. Alla luce dell’avviata riforma sull’autonomia differenziata tale risultato appare ancora più miope e controproducente. Si è cercato di stabilire a livello costituzionale che la Sardegna è insufficiente a se stessa e ha bisogno della tutela e del sostegno dello Stato. Mentre altre regioni rivendicano e rischiano di ottenere maggiori competenze e risorse in ambiti strategici che per la nostra isola sarebbero decisivi. Un capolavoro di dipendentismo. A ciò si aggiunge il contenuto e il livello delle obiezioni che dalla Sardegna vengono mosse all’autonomia differenziata.

Al contrario delle regioni autonome del Nord Italia, in Sardegna la riforma è fortemente mal vista. Anche la componente sardo-leghista tentenna, nonostante gli obblighi di fedeltà e obbedienza a cui l’ha costretta lo scellerato patto Solinas-Salvini. La succursale sarda dell’ultradestra italiana è ostile, le opposizioni (PD e satelliti e M5S) si esprimono poco e solo in base ai dettami delle rispettive case madri d’oltre Tirreno. L’intellighenzia sarda vagamente progressista appare distratta, soprattutto in ambito accademico. Si muove di più qualche spezzone della società civile, ma senza alcuna reale base di consenso e senza alcuna vera capacità di mobilitazione. Le argomentazioni addotte sono poi come minimo discutibili e palesemente deboli.

Ad esempio, l’adesione acritica di alcuni soggetti alla proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare, proposta da Massimo Villone e promossa dal Coordinamento per la democrazia costituzionale, dimostra sia una preoccupante debolezza analitica, sia una notevole incapacità di elaborazione. Ci si appiattisce sul discorso meramente nazionalista e neo-risorgimentalista, accettando l’aberrante proposta di una clausola di supremazia dell’interesse nazionale (italiano), premurandosi sempre di precisare che il vero pericolo da cui rifuggire è la prospettiva indipendentista. Strana preoccupazione, questa, in una fase storica come quella attuale. Ma tant’è. Manca totalmente, in Sardegna, non solo una esaustiva disamina sul senso e i contenuti di questa riforma, appena agli inizi, ma anche uno sguardo sardo-centrato che ne valuti gli ipotetici effetti ed eventuali possibilità di intervento, magari di rilancio, nell’ottica di una revisione (necessaria e forse ormai fuori tempo massimo) della stessa autonomia sarda.

In realtà, approfittando di questa riforma, la Regione Sardegna avrebbe l’opportunità di rivendicare a sua volta maggiori competenze su materie strategiche su cui troppo a lungo lo Stato centrale (nell’interesse di altre porzioni del proprio territorio) ha da sempre frustrato qualsiasi potenzialità dell’isola. Non che le nostre classi dirigenti e la nostra politica ci abbiano mai provato. Gli unici ambiti in cui la Regione Sardegna sia mai entrata in conflitto con lo Stato sono stati quasi sempre quelli che interessavano a una parte della nostra classe dirigente per trarne vantaggi di parte. Mai una sola volta c’è stata una partita in cui la Sardegna si sia posta davanti allo Stato come entità dotata di una propria agency strategica su materie decisive. Giusto un barlume di consapevolezza a proposito della vertenza entrate, ma subito rientrata e largamente frustrata in nome della “lealtà istituzionale” (sempre a senso unico) e con risultati mortificanti (risultato da attribuire in larghissima misura a Francesco Pigliaru, prima come assessore della giunta Soru, poi come presidente della RAS).

Ma immaginiamo che la politica sarda fosse davvero… sarda. Ossia, che le forze politiche rappresentate nelle istituzioni fossero espressione della collettività sarda, dei suoi vari interessi, della reale articolazione sociale delle nostre comunità. E non mero cascame coloniale e podatario di forze e interessi estranei, di cui si fanno garanti, lucrandoci ruoli ben retribuiti e carriere ben poco meritate. Ecco, in uno scenario appena meno mortificante dell’attuale, la Regione Sardegna potrebbe e dovrebbe partecipare al processo di riforma con una propria posizione forte, propri obiettivi, una prospettiva di autogoverno e di democrazia finalmente realizzata.

Pensiamo solo a quanto sarebbe importante non dover sottostare ai dettami ministeriali in ambito scolastico e/o universitario. O riguardo ai trasporti. O al patrimonio storico-archeologico. O al commercio e alle relazioni con l’estero. O al comparto energetico. E questi sono tutti temi perennemente in discussione nell’isola, non ipotetiche materie care a un astratto sentimento indipendentista. Per altro, detto per inciso, non sembra che l’indipendentismo sardo abbia al momento molta voglia di intervenire in questa faccenda, come su diversi altri temi fondamentali. Ed è un peccato.

In conclusione, a proposito di autonomia differenziata, delle sue implicazioni e delle sue possibili conseguenze, è auspicabile tanto una maggiore informazione alla cittadinanza quanto un dibattito vero, aperto, trasparente e propositivo a partire dalla condizione dell’isola e dalle sue prospettive. A oggi tutto questo manca. Se non succederà nulla e ci troveremo a subire passivamente, come sempre, scelte e decisioni altrui, o addirittura aderiremo, come Regione Sardegna, a un rilancio del disegno neo-centralista e autoritario pure in corso, è troppo facile prevedere che ce ne pentiremo amaramente.


Fotografia: crisansepolcro.it

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