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Sull’archeologia come ricerca delle ragioni culturali dell’identità

Il fenomeno della feticizzazione del patrimonio archeologico in chiave identitaria è più dannoso di quanto si possa pensare. 

Per trasmettere l’eredità del passato non bastano gli strumenti scientifici: servono strumenti culturali condivisi di decolonizzazione del pensiero, anche in ambito archeologico. Si fa ancora fatica a pensare le civiltà antiche come pluricentriche e a raccontarle in termini di multidimensionalità non eurocentrica e non gerarchizzata.

L’archeologia è uno strumento oltre che una disciplina scientifica.
È un approccio prima di tutto al presente, nel senso che si realizza ragionando sull’avvertenza archeologica di se stessi: in altre parole è un modo di percepire la realtà.

Il “discorso sull’antico” ci permette di percepire al contempo  la distanza e la prossimità rispetto al passato e a ciò che ne rimane. Lo scavo fisico corrisponde ad uno scavare nella memoria in una continua ricerca di sé dell’umanità che ha bisogno di comprendere la storia per costruire il futuro. 

 L’archeologia è dunque un bagaglio di teorie, di metodi e procedure che confluiscono in una pratica non solo scientifica, ma anche etica. La sua eticità sta nel fatto che l’uso che facciamo del passato influisce sul modo di pensare l’oggi, ma non è detto che il futuro ci offra la stessa risposta: è un sapere dinamico. In quest’ottica, l’archeologia non dovrebbe servire, ad esempio, a giustificare le scelte del presente o a trovare argomentazioni  per la creazione o il  rafforzamento di un’identità nazionale. Per il semplice fatto che l’identità non è un dato naturale, ma il frutto di scelte e processi culturali.

La memoria non può essere imposta, come scrive Daniele Manacorda: è un esercizio collettivo. Ciò significa non solo consegnare alla società civile -di cui la comunità scientifica fa parte e a cui risponde- una spiegazione del passato, ma sottoporsi anche continuamente a una riflessione sul suo agire. Occorre vigilare sul rischio di cedere a illusori obiettivi di esaustività.

Il rapporto tra fonti scritte e materiali non si esaurisce in un mero rispecchiarsi: i due sistemi si dovrebbero interrogare tenendo presente che non tutte le domande possono trovare riscontro nel testo scritto o nei resti materiali, ovvero dando la dovuta considerazione non solo a ciò che dicono, ma anche a ciò che non ci possono dire.

La certezza di un dato archeologico, quando esiste, non implica necessariamente la certezza della sua spiegazione, che è affidata alla capacità di interpretazione del ricercatore -grazie al confronto- in un sistema di conoscenze più ampio. 

L’archeologia, come la storia, ha naturalmente anche importanti implicazioni politiche e sociali: a maggior ragione gli archeologi dovrebbero riflettere sulla responsabilità che hanno, prima di dare fondamento scientifico ad aspirazioni che si collocano su piani diversi da quello critico.

Quando l’archeologia viene “piegata” per rispondere a tematiche che esulano dall’ambito a cui afferisce, si rischia di inficiarne i metodi e i risultati, col rischio di ripiegarsi su spiegazioni del passato che rinsaldano le differenze, anziché aiutare a capire la relazione fertile tra alterità e identità.


Fonti

  • “Lezioni di archeologia” D. Manacorda 
  • “Decolonialità e privilegio” R. Borghi 
  • “Le tombe degli eroi nella necropoli di Monti Prama” R. Sirigu

Immagine: Ph Greg Shine foto a licenza libera

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