A Teulada disastro come da atomica? 

Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mauro Gargiulo, presidente di Italia Nostra Sardegna, sulla questione poligoni militari a Teulada. Le cifre riportate sui colpi sparati e sulle tonnellate di residui sono impressionanti. Da anni varie associazioni e movimenti politici contestano le enormi servitù militari che gravano sulla Sardegna. La risposta di qualche giorno fa del ministro Crosetto «La Sardegna territorio chiave per il sistema di difesa dell’Italia», chiude qualsiasi spiraglio non solo alla chiusura delle basi, ma anche ad un ridimensionamento delle servitù, ribadendo allo stesso tempo un concetto chiave: la Sardegna è la colonia bellica dell’Italia.


de Mauro Gargiulo

Osservando gli spogli graniti della penisola Delta emergere dalle acque chiare di Teulada, nello scorrere delle slides proiettate nel corso del Convegno “Tutela dell’ambiente o poligoni militari? Il caso della penisola Delta”, organizzato a Cagliari il 14 gennaio da Italia Nostra insieme ad altre Associazioni (Cagliari Social Forum, USB, COBAS, Madri contro la repressione), confesso di aver provato lo sgomento che mi assale nel mirare il Rosegat nel S. Francesco di Alghero. Non solo per quel che accomuna quel suolo reso scabro dai colpi alle membra piagate dalla sferza, ma per quello smarrimento che ti assale di fronte a un inerme corpo legato eppur percosso dalla crudeltà umana

Sì, perché su quel lembo incolpevole di terra si sono schiantati dal 2008 al 2016 ben 860.000 colpi, lasciando sul campo un residuo di 556 tonnellate, parte dei quali derivati dall’impatto di 11.785 missili MILAn. Dal 1959 (anno di occupazione del poligono) al 2008 tutto però resta nel limbo dell’inconoscibilità, perché, a dire dei militari, munizioni di ogni tipo uscivano dagli italici arsenali senza che nessuno ne prendesse nota. Estrapolando i dati potremmo dedurne che la penisola Delta nei 64 anni di attività simil bellica sia stata il bersaglio di oltre 7 milioni di colpi, accumulando residui per circa 4.500 tonnellate.  

Se si considera che la Penisola copre una superficie di appena 3.000 ettari, si può dedurre di essere in presenza di una vera catastrofe ambientale, che richiama per la consistenza delle devastazioni gli impatti prodotti da esplosioni affini alle nucleari. Il raffronto può apparire eccessivo, non però se ci si limita ai soli effetti devastanti della deflagrazione, ma ove si consideri la sommatoria delle detonazioni nel tempo, alle quali sono associati non solo TNT, tetrile, l’RDX contenuti negli esplosivi, ma anche i materiali degli involucri (ottone, acciaio, metalli), i propellenti (kerosene, percolorati, idrazina), i componenti speciali (metalli pesanti, tungsteno, radioisotopi, uranio impoverito, amianto). Un’ampia gamma di contaminanti e inquinanti in parte ignoti che, piovuta dal cielo, si è diffusa senza alcun ostacolo nelle matrici ambientali (terra, acqua e aria). La rapidità con cui gli inquinanti sono entrati nel ciclo di vita della natura è risultata rapidissima, perché i vettori sono molteplici e in grado di veicolare anche a distanze rilevanti. 

C’è di più. Nonostante la vasta normativa, a cominciare dal Codice dell’ambiente, sull’obbligo della rimozione dei residuati e della bonifica dei luoghi dopo le esercitazioni, nulla di tutto questo nei 64 anni di occupazione del poligono è stato mai fatto. Ecco perché dopo anni di proteste e manifestazioni corredate dai rituali arresti e denunce degli incolpevoli attivisti, la magistratura nel 2012 è sembrata volerci veder chiaro aprendo un procedimento penale (n. 4804) contro ignoti. Un primo velo sembra essere stato squarciato dalle relazioni peritali, con dati così sconvolgenti da sfociare nell’imputazione dei vertici militari responsabili della gestione del poligono e nel processo tuttora in corso. 

Non è il solo scenario che si apre su questo teatro dell’assurdo. Nonostante la manifesta incompatibilità delle esercitazioni militari con i principi di tutela e conservazione degli habitat, nel 2000 Capo Teulada viene compreso nell’elenco dei SIC (Siti di interesse comunitario) individuati dall’Italia, su proposta della Regione, in attuazione della Direttiva Habitat 2000. Si tratta di siti di elevatissimo pregio ambientale che l’U.E. intende tutelare ai fini della conservazione di tutti gli habitat e in particolare di quelli definiti “prioritari”. L’individuazione dei SIC comporta dei ristori economici di rilevante entità a patto che gli Stati proponenti esercitino una costante azione di tutela attraverso Piani di gestione che si impegnano a predisporre ed attuare. La scelta italiana appare in verità singolare, considerato che le attività militari sulla Delta fervevano ormai da 40 anni. Ma ancora più singolare è il fatto che esse abbiano continuato a protrarsi fino al 2016 nell’ambito di quella “compatibilità ambientale” richiesta ad ogni attività esercitata nei SIC. 

Ancora più assurdo appare il totale silenzio all’interno del Piano di gestione del SIC redatto nel 2008 ed aggiornato nel 2014 sul tipo di attività militari che in esso avevano luogo, mentre ampio risalto viene data alle limitazioni da imporre ai visitatori (l’area peraltro è interdetta!), affinché nei percorsi prestabiliti non si creino interferenze con gli habitat e affidandone il controllo ai militari stessi. 

La farsa assume contorni grotteschi se si pensa che la stessa Regione, nonostante lo scempio paesaggistico e ambientale della Delta e del territorio circostante, completa l’iter procedurale nel 2021 chiedendo all’Europa, con Delibera 23/81, di riconoscere al SIC di Capo Teulada lo status di ZSC (zona speciale di conservazione) e di archiviare la procedura di infrazione cui l’UE l’ha giustamente sottoposta dal 2015. A rassicurare Bruxelles sul rispetto della direttiva habitat dovrebbero essere i protocolli d’intesa stipulati con il Ministero della difesa di contenuto ignoto, mentre il fine sotteso sono la cessazione delle ingenti sanzioni conseguenti alla procedura di infrazione e la speranza di continuare ad attingere ai finanziamenti previsti per le ZSC. 

È forse anche per dare credibilità ai protocolli ed una plausibile copertura alla richiesta della RAS, che il Ministero della difesa avvia nel 2022 una procedura di VINCA presso il SAVI. 

La lettura della Relazione di VINCA è emblematica ai fini della comprensione dei meccanismi di sfruttamento coloniale imposti dalle “servitù militari” alla Sardegna. Vi si afferma che al poligono, preesistendo al SIC, spetterebbe un diritto incoercibile di primogenitura. Si riconosce che ormai la situazione ambientale è compromessa in modo irreversibile. Le indagini eseguite dai militari stessi su un campione dell’1,4% del territorio (di cui non vengono rivelati gli esiti) avrebbero dato scostamenti dai parametri normativi del solo Arsenico e Piombo, e assenza di altri tipi di inquinanti pur avendo ipotizzato nel “Compendio per la rimozione” la potenziale presenza di rischi chimici (TNT, metalli pesanti) e radiologici (residui del siar MILAN). Alcuni vincoli imposti dal SAVI rendono impossibili i movimenti degli automezzi e le attività sul fronte della penisola, pur se con una elevata presenza di residuati per le difficoltà di accesso, sono escluse dall’intervento. Dulcis in fundo le esercitazioni riprenderanno dopo l’intervento in modalità ecocompatibile (sic!), perché Teulada sembra essere l’unico poligono d’Italia ad esse adatto alle esercitazioni a fuoco. 

Ancora più complesse e gravi le problematiche che la VINCA omette di affrontare. In mare giacciono una rilevante quantità di ordigni in parte inesplosi di cui si omette il recupero. Sottaciuti sono i tempi ed i costi dell’intervento: i primi lunghi per la tipologia e il numero degli ordigni, i secondi cospicui e di inespressa attribuzione. Le deflagrazioni della massa considerevole di inesplosi (oltre 14.000 ordigni) non avverrebbero ad impatto zero per gli habitat circostanti, né sembra possa essere una soluzione praticabile l’abbandono in situ, fonte di futuro inquinamento. 

La problematica di estrema complessità viene affrontata da un punto di vista tecnico e procedurale con estrema superficialità, facendo nascere il sospetto che le Forze armate, pur senza rifuggire da rassicurazioni formali di intervento, auspichino in segreto un esito negativo della valutazione. È palese che non si intende affrontare il problema alla radice attraverso una bonifica integrale dell’intero SIC per restituirlo alle condizioni di integrità ambientale originarie o dove sia impossibile, consentire una lenta ricucitura attraverso i processi naturali. 

Questa soluzione implicherebbe la redazione di un progetto di notevole complessità conforme alle prescrizioni del Titolo V del Codice dell’ambiente e da sottoporre a procedimento di VIA-Vinca. Né potrebbe dirsi esauriente in considerazione della imponente mole di residuati classificati come rifiuti speciali e il cui trattamento richiede complesse procedure (Titolo III dello stesso codice). In sintesi la questione della penisola Delta e di Capo Teulada appare di irrisolta complessità tecnica, comporta oneri ingenti e andrebbe affrontata alla radice, senza il ricorso ai pannicelli caldi delle rimozioni superficiali, utili forse solo a sviare i burocrati di Bruxelles. 

A questo punto c’è da chiedersi se il persistere di poligoni militari non sia da considerarsi in aperta antitesi con l’esigenza a scala territoriale vasta della tutela dell’ambiente e della salute, se la loro presenza possa dirsi compatibile con i costi sociali imposti dalla “transizione ecologica”, se la logica della guerra possa essere ragionevolmente coniugata con il paradigma dello “sviluppo sostenibile”. 

Quel che lascia attoniti è l’indifferenza della maggioranza della società sarda e l’acquiescenza dei media nei confronti di quanti, pur dilaniando questa terra, accampano pretese giustificazioniste. Mi riferisco alle affermazioni sul contributo all’economia isolana delle servitù militari, alla tesi che la coesistenza di SIC e poligoni costituisce una dimostrazione della tutela della natura esercitata dalle forze armate, alle previsioni sul destino di una Sardegna vista come zona di frontiera. Affermazioni al limite della provocazione, a cui si risponde con un ostinato silenzio e una connivente indifferenza. 

Se non fosse per le eroiche “Madri contro la repressione” che si battono in nome dei propri figli perseguitati per reati dimostrativi o per gli irriducibili militanti di quei gruppi che lottano per liberare questa terra dal giogo del neocolonialismo, potremmo dire di dover assistere ad una necrosi delle coscienze o quel che è peggio al sonno della ragione. 


Fotografia: today.it

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Un commento

  1. Mi viene da piangere di dolore e di rabbia. Possibile che siamo impotenti e inerti di fronte a questo sfruttamento? Possibile che i sardi ancora si svendano e siano succubi di uno Stato che non dimostra nessun interesse verso la tutela dei suoi cittadini sardi e del suo stesso territorio?

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