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Considerazioni sull’esito delle elezioni politiche

Il risultato del voto di domenica scorsa è chiaro e rispecchia previsioni e sondaggi. In questo senso, il meccanismo elettorale vigente è talmente bloccato e anti democratico, che varrebbe la pena di sostituirlo appunto con un sondaggio demoscopico, risparmiando molto sulle spese.

La destra ha conquistato, in termini assoluti, gli stessi voti della tornata elettorale precedente (2018). Gli scostamenti sono avvenuti all’interno dello schieramento, con la netta prevalenza di Fratelli d’Italia ai danni degli altri due alleati, in particolare della Lega. In questo senso, non è corretto leggere il risultato elettorale come un sensibile e generalizzato spostamento a destra dell’elettorato italiano. Caso mai è lecito cercarne le ragioni sia nella normativa elettorale, sia nelle scelte degli avversari (veri o presunti) della destra.

Del resto, il pericolo della deriva destrorsa in Italia non nasce col risultato di queste elezioni, ma ha una storia almeno trentennale. La legittimazione istituzionale dei post-fascisti, un discorso pubblico sempre più nazionalista e militarista, l’imposizione di un nuovo approccio centralista e neo-colonialista anche all’interno dello stato non sono improvvise svolte di questi mesi, ma precisi orientamenti scaturiti dalla crisi della cosiddetta Prima repubblica.

La responsabilità di questo esito è in massima parte attribuibile ai presidenti della repubblica succedutisi in questi lustri (in particolare Ciampi e Napolitano) e alla dirigenza dei partiti maggiori del centrosinistra. In particolare, il PD ha svolto una funzione storica, di cui la scelta evidente di favorire la vittoria di Giorgia Meloni è un completamento. Partito liberal-conservatore, timidamente possibilista su alcuni diritti civili, ma anti-popolare e esplicitamente sensibile ai desiderata del mondo del grande capitale, anche internazionale, il PD ha goduto per anni dell’equivoco circa la sua collocazione a sinistra. In realtà è un tipico partito dell’establishment.

Il PD, favorendo la vittoria della destra, aveva almeno due obiettivi riconoscibili:
a) far fare il lavoro sporco alla destra, specie in termini di repressione del dissenso e gestione dell’ordine pubblico, con un autunno e un inverno socialmente caldissimi alle porte,
b) tenersi liberi per il prossimo governo di larghe intese a guida tecnocratica, sul quale confidano per tornare al comando pur avendo perso (com’è già successo). Si tratta di un calcolo cinico e ipocrita. E probabilmente sbagliato.

Le altre forze dello scenario italiano si sono ritagliate lo spazio che restava. Il M5S si è mimetizzato da partito “del popolo”, soprattutto nel Meridione e in Sardegna, ma in termini piuttosto vaghi e quasi preterintenzionali, occasionali. Si è allargato comunque in uno spazio lasciato sguarnito dalla sinistra tradizionale e ignorato dal PD. La sinistra esce sconfitta, ormai incapace di rinnovarsi e di allacciare un rapporto organico con i ceti sociali che dovrebbero esserne la base di consenso. Ha anche pagato a caro prezzo la confusa posizione sulla gestione della pandemia e sulla guerra in Ucraina.

L’Italia in realtà non è più a destra di prima, perché da tempo è uno stato in decadenza conclamata, ripiegato su se stesso, impaurito, debole con i forti e forte con i deboli, tanto all’esterno quanto all’interno. La sua classe dirigente – o presunta tale – è una delle più grette e ignoranti dello scenario europeo. L’opinione pubblica e il senso comune dei cittadini sono costantemente intossicati da pessima televisione, informazione mediocre e faziosa, snobismo culturale che accentua, anziché attenuare, le distanze sociali e territoriali.

Il governo di destra non metterà in discussione i diritti acquisiti più di quanto non siano già stati messi in discussione fin qui. La legge 194 è già stata sostanzialmente depotenziata e resa inapplicata: al massimo, verranno aggiunti altri filtri, ma non sarà abrogata. I pochissimi avanzamenti nei diritti della comunità LGBTQ+ resteranno al palo; magari si tenterà qualche sortita nel diritto di famiglia, ma soprattutto su aspetti formali e con molta retorica; si proporrà qualche misura a sostegno della natalità, ma anche qui sotto condizione, dato che le finanze italiane sono in ostaggio dell’UE e dei mercati internazionali (ossia di robusti interessi privati).

Avrà invece campo libero nella gestione dell’ordine pubblico e nella definitiva
ri-centralizzazione politica, con il mantra dell’interesse nazionale a coprire ogni possibile operazione di svendita dei beni comuni, di speculazione e di cedimento ai desiderata degli investitori privati sovranazionali. Esponenti di peso della destra, compresa Meloni, hanno già dichiarato che il Sud e le isole sono destinati a diventare hub di produzione energetica a vantaggio del Nord. Idem per le infrastrutture strategiche e per le risorse naturali (vedi caso terre rare scoperte a Buddusò), messe al servizio delle zone ricche (“produttive”) del Paese. La riforma della politica aeroportuale italiana, recentemente prospettata da ENAC, mette in chiaro che la stessa questione trasporti, che per la Sardegna ha un peso vitale, sarà gestita in nome e per conto degli interessi (nord)italiani. Il nazionalismo in tutte le salse possibili sarà ulteriormente dispiegato, a copertura delle scelte politiche, specie quelle più impopolari.

Per la Sardegna l’esito del voto ha un significato relativo. Ossia, non muta la forma e la sostanza della sua relazione con lo stato centrale, caso mai minaccia di aggravarla, lungo una linea di tendenza già avviata. Col fardello dell’insularità in costituzione, che sarà usato, alla bisogna, come strumento di ulteriore controllo e ricatto.

In Sardegna, al di là del risultato dei vari partiti, spicca il dato dell’astensione. Lungi all’essere un segnale di menefreghismo o di disinteresse, è invece un esito ovvio in una terra che si sente sempre più “altro” rispetto all’Italia. La consapevolezza che l’offerta politica italiana, sia in termini di contenuti, sia di candidature, ha pochissimo a che fare con la vita reale delle comunità sarde si sta facendo sempre più largo. Perciò non ha senso stigmatizzare l’astensione. Non ne ha nemmeno stigmatizzare la scelta di chi, illudendosi di poter contare qualcosa, è andato/a a votare.

Era legittimo il desiderio di essere parte di un processo ancora formalmente democratico (benché sostanzialmente non lo sia in alcun senso). Ed è sempre legittima l’aspirazione a esprimere la propria volontà elettorale. Il problema resta ancora lo stesso: la Sardegna, nel sistema politico italiano, per ragioni oggettive, non conta nulla. Con la legge elettorale vigente conta ancora meno. Stabilire l’assegnazione dei seggi su base regionale ma contando le percentuali a livello statale, come avviene per il senato, comporta che la soglia di sbarramento per le forze politiche espresse nell’isola sia ben più alta del 3%, essendo l’elettorato sardo circa il 2,7% di quello italiano. Ma questo è solo un caso specifico di un problema di asimmetria e di subalternità che si manifesta a vario livello e in varie forme.

La necessità politica impellente per l’isola precede e va oltre il risultato delle elezioni appena tenutesi. Il sistema politico sardo, succursale coloniale di quello italiano, è bloccato e ripiegato su se stesso. Inutile sperare che dal suo interno sgorghi, come per magia, una forza nuova capace di mutare la situazione in modo significativo. L’attuale legislatura regionale andrà alla sua scadenza naturale. Nessuno ha interesse a farla finire prima, dato che non c’è alcuna garanzia di essere rieletti. I posti disponibili si sono ulteriormente ridotti, a causa degli appetiti di tutti coloro che in passato potevano aspirare a un posto in parlamento a Roma, e oggi devono ripiegare su uno dei 60 posti disponibili a Cagliari.

Non ci sono posti a sufficienza per soddisfare le aspirazioni di tutti. Il sottobosco clientelare dovrà sgomitare molto per guadagnarsi una buona candidatura o accedere a qualche posto di sottogoverno ben retribuito. A questa spasmodica caccia si dedicheranno i mestieranti della politica in Sardegna, da qui al febbraio 2024.

Non è da escludere una ricomposizione dello scenario, col centrosinistra a caccia di alleanze, magari con i 5 Stelle (che in Sardegna sono debolissimi) o con spezzoni dell’ambito indipendentista. Il centrodestra, che in Sardegna non può contare sulla forza che FdI ha altrove, né su quella declinante della Lega e di Forza Italia, potrebbe perdere il PSdAz, se i suoi vertici troveranno un accordo conveniente col PD. Insomma, sul lato dei partiti italiani e dei loro satelliti (vedi UDC e Riformatori, buoni per tutte le stagioni, ma privati, i primi, della leadership di Giorgio Oppi) la partita in parte si riapre. Resta immutato il loro evidente declino.

Tutto ciò avviene ben lontano dalla realtà quotidiana delle persone e delle comunità dell’isola. La politica vera ormai si fa in termini di aggregazioni occasionali, tematiche, con mobilitazioni auto-generate o gestite da comitati e associazioni quasi mai legati a partiti politici. Lo scollamento tra i problemi strutturali e strategici sardi e la politica di Palazzo è più evidente che mai.

Il problema che ci dovremmo porre è come politicizzare il dissenso e il malumore serpeggianti (oggi espressi soprattutto tramite l’astensione) e come tradurli in forza di coesione e di proposta. Provare a esprimere delle candidature da aggregare ai poli elettorali dominanti? Aprire un terzo spazio autonomo, magari con le sue articolazioni interne, a rischio di restare comunque fuori dalle istituzioni?

Probabilmente la scelta migliore sarebbe di lasciar logorare i partiti coloniali per conto proprio e insistere su una strada alternativa, senza rischiare di fornire loro occasioni di
ri-legittimazione o di mimetismo in salsa sardista/indipendentista.
D’altra parte, quando si è provato ad allearsi, se ne sono ottenuti ben pochi vantaggi politici. Allo stesso modo è del tutto inutile pensare che per ottenere un ampio consenso dalla cittadinanza disillusa basti mettere insieme tre o quattro sigle, esistenti quasi esclusivamente nel mondo dei social media, pervicacemente autoreferenziali, ossessionate dalle manie di controllo e dall’autoconservazione.

Le formazioni indipendentiste o comunque alternative ai partiti dominanti dovrebbero fare uno sforzo di generosità e partecipare, senza pretese egemoniche, al processo di riformulazione politica in corso.
In ogni caso, prima ancora di fare calcoli elettorali (tenendo conto della normativa vigente), sarà importante non lasciar trascorrere questo tempo invano e provare a costruire dal basso, dalle nostre comunità, sulle questioni strategiche aperte, una forma di condivisione e di incontro alternativa, popolare, democratica e sardo-centrica che non sia estemporanea ed episodica, ma coordinata e capace di mobilitazione. Una realtà di questo tipo avrebbe una sua forza propria, da opporre alle mire neo-coloniali che minacciano l’isola in modo sempre più insistente e da spendere anche in termini di offerta elettorale.


Immagine: ministero dell’interno

Cumpartzi • Condividi

2 commenti

  1. Io la debolezza di FdI e dei 5 stelle e di non la vedo, visto che sono il primo ed il secondo partito nel proporzionale. Tieni presente che FdI ha una presenza notevole, purtroppo, anche nei comuni. Cagliari, Oristano, Ozieri (la vicesindaco Barbara Polo è stata eletta alla Camera) ed in qualche misura Sassari (Campus il sindaco pur eletto con una lista civica proviene da quella tradizione politica). Insomma hanno una classe dirigente diffusa sul territorio e come ben sai sul carro dei vincitori saliranno in molti, specie notabili dei partiti in declino. Non parlo della qualità della classe dirigente perché è comunque merce rara in tutto lo schieramento politico, compreso il piccolo atollo indipendentista. Discorso diverso per quanto concerne i 5 stelle che hanno avuto comunque una evoluzione rispetto al passato e consolidato una presenza di militanti e simpatizzanti anche nei piccoli paesi. La loro capacità di mobilitazione, seppur dimezzati in termini di consenso, è aumentata ed i risultati si vedono. La loro classe dirigente è meno improvvisata di prima ed ha acquisito maggiore capacità di districarsi nell’attuale mercato politico sardo (che non è un bene ma comunque almeno elettoralmente paga). Sul versante elezioni ragionali questa capacità è tutta da verificare perché come già visto nelle elezioni locali hanno molte debolezze.

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