Da Capo Frasca una agenda comune

De Cristiano Sabino

No guerra e occupazione militare, no carovita, no caro energia e difesa del reddito di cittadinanza.

Tre, quattrocento persone che si incontrano in una splendida domenica di ottobre, davanti ai cancelli del poligono di Capo Frasca, per dire la propria sulla sempre più violenta e invasiva militarizzazione della Sardegna, non è poco. 

Non è poco se si considera la martellante propaganda di guerra che da mesi cerca di irretire l’opinione pubblica, presentando il blocco occidentale a guida statunitense, come il migliore dei mondi possibili, spolverando addirittura l’immagine reaganiana di “mondo libero”.  

Non è poco se si pensa che chi era in piazza sfidava non solo la consueta destinazione militare della Sardegna da parte della Repubblica italiana, ma anche l’acuirsi di un maggiore livello di mobilitazione e di allerta di tutti i poligoni per  testare la capacità di combattimento in vista di un sempre più probabile scontro diretto della NATO nel conflitto ucraino, come testimoniato dalla presenza, per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, della 101esima divisione aviotrasportata degli Stati Uniti schierata in Romania, a pochi chilometri dal confine ucraino (fonte Cbs). 

Insomma, dopo tutti gli sforzi per convincere le sarde e i sardi che sono italiani, che la Sardegna non può farcela da sola, che l’unica prospettiva politica è quella di accettare supinamente il ruolo di colonia militare, energetica e turistica, che in nome dell’ostilità a Putin bisogna accettare l’escalation bellica e la militarizzazione sempre più invasiva della nostra terra, ogni due o tre mesi centinaia di persone – di cui la maggioranza giovani – si danno appuntamento davanti ad una base, camminano liberi su una terra che libera non è, spesso riescono ad arrivare alle reti, a reciderle e a invadere pacificamente i fortini dell’impero. 

Tutto questo non è poco, anche considerando il fatto che, ogni volta, i manifestanti rischiano di essere criminalizzati e di subire rappresaglie durissime da parte dell’apparato militare-industriale ben rappresentato dallo Stato e dai suoi apparati di polizia.  

È da considerarsi un’ottima notizia anche quella che ha visto la formazione di un cartello politico tra il movimento contro l’occupazione militare A Foras e gli indipendentisti corsi di Core in Fronte, presenti a Cabu Frasca con una delegazione.  

Le due isole sorelle hanno iniziato a porsi il problema della smilitarizzazione del Mediterraneo, costruendo il primo nucleo di una rete mediterranea per il disarmo e la smilitarizzazione potenzialmente assai vasta. Se si creasse un coordinamento efficace tra sardi e corsi ed altri popoli che soffrono problemi analoghi, si riuscirebbe a dare del filo da torcere alla fitta rete di cui la NATO dispone in quelle che sono considerate retrovie sicure dell’impero e in territori considerati ormai del tutto pacificati. 

Ma appunto perché la situazione lo richiede e la tensione internazionale è alle stelle, è necessario ripensare tutta la nostra opposizione all’occupazione militare della Sardegna, con l’obiettivo di trasformare quello che è un movimento resistente di alcune centinaia di persone, con molte simpatie dentro e fuori dalla Sardegna, in un ampio movimento popolare e di comunità contro la guerra, il carovita, la povertà.  

Serve in sostanza un atto di grande coraggio e bisogna osare, decidendosi a rompere alcuni schemi e diverse stereotipie che rendono ancora fragile e minoritario il movimento, isolandolo dal dibattito politico generale e confinandolo all’interno del mondo pacifista e antimilitarista, quindi impedendogli di fatto di raggiungere grandi fette di consenso a cui bisogna assolutamente puntare. 

Ed è il momento giusto per farlo! 

La militarizzazione della Sardegna va da una parte sempre più ad intrecciarsi con la questione della povertà e dello spopolamento e dall’altra a ricongiungersi con una crescente ostilità allo stato centrale destinata a crescere con l’inflazione proiettata al 10%, il carovita e il caro energia galoppanti. 

In Sardegna ci sono 130 mila persone in condizioni di “grave deprivazione materiale” – come si legge nei ( dati recentemente diffusi dalla Cisl ).

Se si confrontano questi dati con lo scenario di spopolamento ed emigrazione dilagante, il quadro appare completo. 

Inoltre, alla guerra, alle bollette pazze, al carrello della spesa sempre più caro si aggiungerà presto un altro fattore fortemente destabilizzante per decine di migliaia di sardi: l’abolizione del reddito di cittadinanza in cima all’agenda del Governo in formazione. 

Sempre secondo i dati Cisl ci sono 44.476 persone che percepiscono la Naspi e 56.027 nuclei (circa 80 mila) familiari hanno richiesto il reddito di cittadinanza, per un ammontare mensile medio di circa 530 euro. 

In pratica un esercito di altre centoventimila persone a cui il Governo entrante potrebbe togliere ogni paracadute e precipitare verso la condizione di povertà assoluta. 

Di fronte a questo scenario geopolitico e sociale, abbiamo una responsabilità storica: costruire un’agenda sociale e di comunità sarda su questi temi, pianificando un serio intervento politico unitario per attrarre attorno al movimento contro l’occupazione e il colonialismo le speranze di cambiamento della parte più vitale del popolo sardo. 

Va studiata una strategia seria, di comunicazione e di azione, per tirare dalla nostra parte tutti coloro i quali sono stanchi di pagare un litro d’olio di semi quattro euro, di non poter pagare più le bollette a causa delle speculazioni di ENI che in un semestre ha fatturato il 600% grazie all’assurdo gioco dell’indice TTF (Title Transfer Facility), cioè del mercato virtuale per lo scambio del gas naturale su cui le multinazionali del gas speculano a rialzo come gli accaparratori del pane di Manzoni nei Promessi Sposi. Per non parlare di quelle migliaia di attività, già stremate dalle folli leggi marziali del periodo relativo alla pandemia, che oggi si vedono recapitare bollette insostenibili e che non riescono a fare fronte ai rincari delle materie prime. 

Aggiungiamo ancora un ulteriore tassello. Alle ultime elezioni statali ( ha votato appena un sardo su due ), i dati sull’affluenza più bassi di sempre. È chiaro che stiamo assistendo ad una crisi organica dell’egemonia statale sulla società civile sarda. Il che potrebbe però non essere affatto una buona notizia se non si offre una prospettiva costruttiva al disastro in corso.   

Davanti a questo scenario abbiamo il dovere di portare la lotta contro la guerra, la militarizzazione, il carovita nelle città e nei paesi – oltre che davanti alle basi – per rendere accessibile a tutte e tutti – e non solo a poche avanguardie – la prospettiva di un’alternativa sociale, politica e culturale alla vera faccia con cui la Repubblica italiana si presenta a sempre più sardi: povertà, guerra, servilismo, abbandono.  

Pericolo nucleare, carovita, bollette folli, inflazione galoppante verso il 10%, chiusura di migliaia di attività, spopolamento, paura di rappresaglie armate da parte della Russia in caso di guerra e più che probabile abolizione del reddito di cittadinanza, vanno a costituire un mix perfetto per un movimento popolare sardo fondato sulle esigenze della comunità e sul principio che a pagare i costi di tutto questo non debbano essere la Sardegna e i sardi. 

Se il movimento contro le basi capirà che è necessario un coordinamento politico e quindi un’agenda politica seria su questi punti, probabilmente si farà finalmente un salto di qualità in Sardegna, passando da una situazione di stallo ad una di dinamico fermento, come non se ne vedono da decenni. 

Sì, ma chi può prendersi questa responsabilità?  

Sicuramente esistono realtà che da tempo svolgono un ruolo per svecchiare e sburocratizzare   modelli politici ormai diventati – nel migliore dei casi – ferri vecchi. Movimenti, associazioni e sindacati attivi e radicati hanno tutto l’interesse a discutere di questo e a trovare un punto di caduta intorno ad un’agenda comune. 

Questo è il momento o, se si preferisce in lingua sarda, custa est s’ora.  

Facciamo in modo che non sia l’ennesimo treno perso. 


Fonte: TGCOM

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