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Il Psd’Az compie 100 anni. Il sardismo popolare sta rinascendo

De Cristiano Sabino

Il 17 aprile del 1921, a Oristano, nella sala dell’ex convento degli Scolopi, veniva fondato il Partito Sardo d’Azione, che riassumeva le istanze di autogoverno e autodeterminazione di una generazione di lavoratori ed ex combattenti sardi. Si trattava certamente di un movimento vulcanico all’interno del quale convivevano anime diverse e che presto avrebbe espresso persino non isolate istanze reazionarie e conservatrici.

Chi si lamenta degli esiti politici del Psd’Az di oggi non conosce la storia di questo partito, all’interno del quale emersero ben presto persino posizioni espressamente filofasciste che portarono diversi dirigenti a confluire appunto nel PNF.
Il fatto è questo: il sardismo è di chi se lo prende, perché al suo interno sono reali sia le istanze di autogoverno e ribellione territoriale e comunitaria dei sardi, sia le più grette pulsioni opportuniste, podatarie e trasformiste. Il fatto che oggi siano maggioritarie quelle pulsioni non significa assolutamente che lo debbano essere anche domani.

Di questa dinamica del sardismo era ben consapevole Antonio Gramsci, che per tutta la vita cercò un filo diretto con il movimento sardista, arrivando a ispirare l’appello dell’Internazionale Contadina (organo dell’IC) al V congresso del Psd’Az, che si chiudeva con il seguente proclama: «Evviva il Partito Sardo d’Azione liberato dai capi opportunisti e membro della grande internazionale rossa dei contadini! Evviva la Repubblica sarda degli operai e dei contadini nella Federazione soviettista italiana!».

Spesso si è bollato questo scritto dei comunisti (pensato da Gramsci e scritto materialmente da alti dirigenti comunisti come Grieco e Di Vittorio) come una mossa opportunista per sottrarre consensi a un movimento ostile agli operai e alla lotta di classe. Alcuni comunisti, come per esempio Togliatti, la pensavano così.
Ma la maggioranza allora la pensava diversamente e Gramsci fra tutti riteneva che il sardismo fosse uno splendido laboratorio politico di egemonia fra masse popolari armate e giovani intellettuali a esse organici; insomma riteneva che il sardismo costituisse i prodomi di quel “blocco storico” su cui si dovevano ricostruire le basi per una trasformazione radicale della società.

I documenti sardisti, del resto, confermano questa lettura. In uno dei testi programmatici del Partito Sardo i dirigenti (è Bellieni e non Lussu la vera mente politica e ideologica del sardismo!) dichiarano apertamente che se il governo Centrale non avesse accolto le rivendicazioni di autogoverno del Partito Sardo, il «popolo sardo» avrebbe dovuto ritrovare «in se stesso la forza, l’energia e la decisione per combattere e vincere, pur col cuore sanguinante, con altri mezzi e per altri scopi».
I sardisti volevano l’Autonomia, ma con questo termine intendevano autogoverno sostanziale, Repubblica autonoma, democrazia compiuta e una serie di rivendicazioni economiche e sociali assai radicali. Se questi risultati non fossero stati raggiunti, allora l’esempio dell’Irlanda era lì a dimostrare che si poteva procedere con “altri mezzi e altri scopi”, cioè con la lotta aperta e per l’indipendenza della Sardegna.
Queste istanze sono state ignorate da chi recentemente ha creduto di liquidare il sardismo in nome di una teoria che, usando il velo dell’indipendentismo, si è presto rivelata assai più trasformista.

Nel secondo dopoguerra, a fascismo caduto, non c’era più Gramsci e la linea del Partito Comunista era cambiata, a partire dal nome. I dirigenti comunisti sardi, nelle persone di Velio Spano e Renzo Laconi, assunsero una posizione assai reazionaria relativamente alle istanze di autogoverno e autodecisione delle masse popolari sarde e bocciarono tutte le proposte di governo federale e le bozze di “Statuto speciale” che realmente contenevano quelle istanze che Gramsci aveva sostenuto e condiviso: cioè un’autonomia sostanziale e non formale, una forma politica che desse ampio potere ai sardi e che gli desse gli strumenti per riscattarsi da secoli di subalternità e che permettesse loro di costruire una Sardegna non più “colonia di sfruttamento” (espressione utilizzata da Gramsci per definire la condizione di subalternità dell’isola).

Era il divorzio tra istanze sociali rappresentate dal movimento comunista e istanze di autogoverno e democrazia compiuta rappresentate dal sardismo, quel distacco che Gramsci aveva cercato fino agli ultimi giorni di ricucire con il famoso (e purtroppo mai studiato abbastanza) carteggio con Lussu.
Il risultato fu la guerra sporca al Partito Comunista Sardo (da parte del PCI) che fu costretto allo scioglimento e la votazione di uno “Statuto di Autonomia” che in pratica non solo non risolse alcuno dei nodi storici della subalternità della Sardegna, ma legò e lega di fatto l’isola ancora di più ad un rigido e implacabile sistema di dipendenza verso lo Stato centrale.

A cento anni dalla fondazione del Partito Sardo una nuova generazione di subalterni sardi deve riprendere il patrimonio di Gramsci per rifondare e rilanciare il sardismo, un sardismo che riscopra le istanze rivoluzionarie e popolari di quella straordinaria nebulosa politica che è stato all’origine e che lucidamente Gramsci ha messo in rilievo in diversi suoi scritti.
La sfida oggi, per tutti i sardi e le sarde che vogliono cambiare l’isola e non limitarsi a fare testimonianza, a lamentarsi o a farsi riassorbire dal collaudato sistema di potere e clientele rappresentato dai residui asfittici del sardismo istituzionale, della sinistra istituzionale o a proseguire l’inutile agonia delle oramai esangui sigle del variegato mondo indipendentista, è rilanciare un sardismo che sia finalmente popolare, moderno, aggiornato ai tempi, orientato alla difesa del territorio, delle comunità, alla liberazione della donna, a un serio e radicale programma di autogoverno.

La gioventù della Sardegna è appena agli inizi!

Foto de presentada: Videolina

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