Il teatro è un atto d’amore. Intervista a Daniele Monachella

De Ninni Tedesco Calvi


“L’atto d’amore che si compie in teatro fra scena e pubblico non sopporta contraccettivi”. – Mario Scaccia

Il teatro è infatti un atto d’amore, e come tale, indispensabile alla vita. Per molto tempo ne siamo stati privati, e da troppo tempo la politica, dimenticando che il concetto stesso di polis implica la cura della totalità della cittadinanza attiva, dunque comprensiva della cultura che ne è l’essenza, trascura se non “dimentica”, di inserire finanziamenti ai teatri, al cinema, alla musica, alla cultura in genere, e di farne obiettivi primari.

Tutti, o quasi, hanno sofferto per il lockdown e la pandemia, su diversi piani della vita. Certamente alcuni profili fragili del mondo del lavoro sono stati spazzati via, e tra essi ci sono stati anche i lavoratori del mondo dello spettacolo, che ovunque ha chiuso il sipario, ma a loro i media hanno dato poco spazio e poca voce. Come se, ancora una volta, la cultura contasse poco. Come se non fosse “anche” lavoro. Si aggiunga che circa l’80% degli operatori dello spettacolo sono considerati “atipici”, ovvero contratti intermittenti di tipo subordinato che si accendono soltanto durante i giorni di attività e che pertanto non consentono di accedere né agli indennizzi , né ai ristori e neppure ai contributi dell’INPS. Si calcola che almeno il 50% delle maestranze assunte nel settore a tempo determinato abbia perso il lavoro e, soprattutto, non vi accederà in seguito. Un’emorragia di risorse per la cultura.

In aree depresse come la nostra Isola, poi, l’onda d’urto è stata ancora più devastante, e ha messo in ginocchio centinaia di piccole ditte, imprese, lavoratori singoli, comparti che davano anche dignità e identità a luoghi in cui lo spazio culturale restava l’ultimo legame con un’idea di società o di collettività. Ricordiamo che la chiusura di cinema e teatri, luoghi che sono spazi sicuri, se si applicano le norme di sanificazione e contingentamento, anzi sicurissimi rispetto a tanti altri che, in tempo di pandemia, sono rimasti invece aperti e dove quotidianamente si sono creati pericolosi assembramenti, ha destato moltissimi e legittimi dubbi.

Ne parliamo con Daniele Monachella, attore, autore, regista, produttore, eclettico e dinamico uomo d’arte nato a Sassari dove, nel 1998 ha iniziato, e mai interrotto, un lungo e brillante percorso di formazione e crescita attraverso il teatro, il cinema, gli audiolibri, fino alla sua ultima creazione, ovvero B-OGHES, di cui, tra le altre cose, ci racconterà.


1. Ciao Daniele. In Sardegna, a parte il circuito CEDAC, esistono poche realtà in rete e il sostegno della politica è sempre stato occasionale e non programmato nel tempo. Trovi che questa “arte di auto organizzarsi” singolarmente, adottata durante la crisi pandemica, sia stata una strategia efficace per far sopravvivere il teatro e la cultura in genere, data la profonda crisi nella nostra isola?

L’Arte di auto organizzarsi o di organizzarsi autonomamente penso sia una dote rara ma che coloro i quali hanno deciso di intraprendere la carriera di artista, in questo caso di teatranti, debbano custodire nella loro valigia. Sapersi sostenere con le proprie forze, le proprie risorse, l’energia personale e il proprio intelletto ma soprattutto non contare su nessuno oltre se stessi, ha permesso a chi ci è riuscito, di non soccombere in questo lungo anno passato. Un lungo anno di chiacchiere da bar (aperti a fasi alterne dove si è potuto chiacchierare animatamente senza distanziamenti e creando assembramenti) e piazze virtuali dove in tanti hanno dato fiato al proprio disagio. Ho osservato in silenzio, constatando amaramente come in questo preciso momento storico la categoria di attori e maestranze del comparto, sia stata colpita dall’indifferenza delle istituzioni ma anche della popolazione. È sembrato che esistessero solo bar e ristoranti. È vero che sono stati erogati dei “ristori” economici, ma questo ha solo spostato l’attenzione sul vero problema. Ovvero la chiusura totale delle strutture teatrali e cinematografiche. Ambienti i quali, grazie ai propri addetti ai lavori e sin dal primo momento dell’emergenza pandemica, hanno dimostrato di poter aprire e contrastare il rischio di contagio con il rispetto delle regole dettate dal Governo. Il teatro e il cinema avrebbero potuto dare ristoro alla mente ed all’anima in questo momento dove la miseria umana e la frustrazione stanno continuando a perpetuare condizioni di disagio estremo nel nostro tessuto sociale. 


2. Si ha la percezione dei danni non solo economici ma anche culturali che questo lungo periodo di chiusure intermittenti appena trascorso, e forse non ancora concluso, ha provocato? 

Penso che non solo si abbia la percezione ma anche una concreta consapevolezza del cambiamento avvenuto. Occorrerà fornire agli spettatori valide alternative allo streaming e all’on-demand, nonché ridare vita all’immaginario comune forzatamente sopito dai vari confinamenti e restrizioni, affinché quella sana abitudine dell’andare a teatro ritorni a fare capolino tra i nostri desideri e necessità. Ovvero ricominciare a desiderare un luogo «altro» dove l’azione è reale, l’immaginazione è fortemente sollecitata, non esistono filtri e le emozioni sono immediatamente tangibili. 


3. Pensi che le piccole realtà indipendenti si potranno riprendere, e che siano sufficienti in tal senso i ristori promessi?  

Sono certo che le piccole realtà indipendenti potranno riprendersi, poiché il Ministero per i Beni e le Attività di Spettacolo ha erogato a loro favore dei contributi di ristoro proporzionati all’attività dichiarata ed effettivamente svolta. Per tanto le piccole realtà che sapranno far fruttare questi incentivi, potranno almeno riprendere a “camminare”. Un passo alla volta si darà nuova linfa alla scena teatrale. Occorre crederci e agire! 


4. E il progetto B-oghes che novità rappresenta in questa dimensione culturale?

Il progetto B-oghes nasce innanzi tutto da un’esigenza. Quella che attraverso la voce si realizzino territori e suggestioni, in un modo che solo la parola, agìta e trasformata in suono, può fare. È scontato che oltre alla necessita abbiamo utilizzato il nostro cosiddetto know-how o saper fare, come preferisco dire. Qui nasce il gioco di parole, ovvero B (la pronuncia inglese del verbo essere «to be») e la traduzione dal sardo del sostantivo voci (i più attenti sanno che si può pronunciare sia boghes che oghes), ovvero B-oghes: essere voci. Ogni volta che la voce da corpo alla parola assume una nuova un’identità, un nuovo essere. Ecco perché “essere voci”. Questo preciso momento ha permesso al settore di avere una maggiore eco, infatti la contro tendenza all’immagine è il suono. Attraverso le frequenze della voce ognuno di noi, ascoltando, crea delle intime suggestioni capaci di traghettarci negli orizzonti emozionali custoditi nel nostro inconscio. La nostra missione è questa: lavorare con la voce in tutte le sue forme creative, musicali, commerciali e trasversali ad essa. Il nostro sito è http://www.b-oghes.it.


In chiusura di questo pezzo, voglio riprendere una risposta data da Daniele Monachella in una vecchia intervista, che a me è piaciuta molto, forse perché cita un grande uomo e maestro sardo a me caro e una funzione dell’arte che io condivido. 

“Attore: colui che agisce. Se non agisci nella tua vita non potrai mai agire sul set. E prendendo spunto da una recensione che Gramsci fece al «Così è (se vi pare)» di Pirandello, concordo con il piccolo sardo che in questo lavoro non bastano gli accenni, la creazione è data da uomini vivi, quindi non i virtuosissimi o lo stile ineccepibile ma sono necessarie dinamiche di vita articolate, profondo sentimento e viscerale passione che conducano ad uno scontro, a una lotta, che si snodino in un’azione. Quell’azione che fa vibrare la pancia subito dopo il ciak”.

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