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L’identità come progetto

Nota a margine del simposio “Il senso della parola identità”, organizzato dall’Associazione S’Atza in collaborazione con l’Assemblea Nazionale Sarda il 5 febbraio 2022 nella sala polifunzionale del Comune di Selargius.


De Giuseppe Melis Giordano

Premessa

Quando sono stato invitato a partecipare all’iniziativa di cui sopra mi sono interrogato su come avrei potuto sviluppare questo tema che, sia sul piano scientifico sia delle discussioni politico-culturali, coinvolge e divide (purtroppo) tante persone, troppe, soprattutto per la sua valenza “politica”, sia di tipo cognitivo che normativo. 

Al fine di portare un contributo che potesse suscitare interesse e riflessione e, magari, ridurre le distanze tra i sostenitori e i contestatori dell’utilità del concetto di identità, ho scelto di strutturare il mio intervento sulla base di una scaletta così articolata:

  • Capire in che modo l’identità sia un concetto utile nella quotidianità della nostra esperienza umana e quali conseguenze derivano da una eventuale risposta positiva
  • Riflettere sulle determinanti dell’identità, cioè su quali elementi, variabili, attributi occorra soffermare l’attenzione per capire nel concreto come questo concetto possa utilmente operare nella vita delle persone
  • Valutare se e come sia possibile “misurare” l’identità e, nel caso, come possa e debba essere “gestita”

Sull’utilità del concetto di identità 

Per valutare se questo concetto sia utile o meno mi sono interrogato circa la possibilità di farne a meno: in sostanza, possiamo vivere senza identità? 

Per rispondere a questa domanda osserviamo con un po’ di attenzione l’immagine seguente.

Cosa vedete? Riuscite a capire di cosa si tratti e in quale contesto ci si trovi? La risposta è sicuramente negativa e, in ogni caso, al massimo si individua un’ombra al centro, ma nulla di più si può dire rispetto a ciò. 

Cosa significa questo? Significa che l’osservatore non ha punti di riferimento che possano aiutarlo a orientarsi a capire il contesto spazio-temporale che sta osservando. Allo stesso tempo, provate a immedesimarvi nell’ombra al centro dell’immagine. Siete in grado di capire dove quell’ombra si trovi e cosa sta facendo, se sia uomo o donna, ecc.? La risposta è negativa anche in questo caso.

Ebbene, questa situazione è una esperienza che chiunque si sia trovato in mezzo a un banco di nebbia ha sicuramente provato, che poi è la stessa sensazione di quando ci si trova in un aereo e si attraversano le nuvole.

In altre parole, l’immagine di cui sopra è caratterizzata dall’assenza di “confini” e, per questa ragione, ci si trova smarriti, incapaci di prendere decisioni su cosa fare, dove andare, ecc..

Cosa ben diversa è invece ciò che si può osservare nell’immagine qui sotto.

In questa immagine, nonostante ci sia ancora della nebbia, la sensazione cambia completamente: si capisce dove ci si trova e in quali condizioni. Tutto ciò, all’atto pratico, è possibile perché vediamo dei confini, quelli che ci permettono di identificare una strada, una vettura con i fari accesi, una campagna. In sostanza, siamo in grado di identificare ciò che ci circonda perché si tratta di elementi che hanno dei confini. 

Ebbene, grazie a questi confini siamo in grado di riconoscere qualcosa, di identificarla, di dargli un significato. Quindi, la prima conseguenza di questo ragionamento è che una identità esiste se c’è un confine.

L’identità, quindi, nasce da un confine.

Questo è indispensabile per favorire il processo di identificazione. Senza confini non c’è identità, senza confini non c’è sistema ma solo uno sfondo indistinto, come quello rappresentato dalla prima immagine.

Questa situazione riferita a un caso della fisica può essere estesa a tantissimi altri ambiti nei quali abbiamo la necessità di definire dei confini per orientarci, in cui cioè abbiamo necessità di identificare luoghi, persone, idee, concetti, situazioni, testi, ecc. Ognuno di questi elementi possiede una identità che la distingue da altre.

Una prima conclusione, pertanto, è che, per rispondere alla domanda iniziale circa l’utilità del concetto di identità, da questa non si possa prescindere.

Le funzioni del confine

Da quanto indicato sopra emerge come una funzione fondamentale assolta dal confine sia quella di delimitazione, di distinzione, tale che una identità sia diversa da un’altra. Ma, la domanda è: il confine ha solo questa funzione di demarcazione, di delimitazione, di separazione?

Per rispondere a questa domanda è utile rifarsi agli studi sulla biologia e, in particolare alla funzione della membrana cellulare: essa, infatti, esercita una funzione di protezione del contenuto cellulare e di controllo sui materiali in entrata e uscita dalla cellula ma, nello stesso tempo, consente la comunicazione tra le cellule. Quindi, il confine assolve almeno ad altre due funzioni, oltre quella di demarcazione, e cioè quella di selezione delle sostanze che possono attraversare la membrana, e quella di comunicazione con le altre cellule del contesto biologico in cui è inserita.

Se questo accade nell’ambito di un sistema biologico, in cui le relazioni tra le parti sono ben definite e vincolate tra esse, a maggior ragione queste stesse funzioni si riscontrano nell’ambito dei sistemi sociali in cui le parti sono caratterizzate da un grado di libertà e dove l’azione delle componenti è di tipo teleologico, guidata cioè dalla volontà e dagli obiettivi finali. Ciò significa che in queste tipologie di sistemi le funzioni di demarcazione, comunicazione e selezione dipendono dalla capacità e dalla volontà del sistema considerato di costruire una propria identità, di difenderla rispetto a ciò che dall’esterno potrebbe alterare la stessa (funzione selettiva), ma anche di entrare in relazione con altre identità per conseguire comuni obiettivi e percorsi di reciproca contaminazione.

Nel contempo, una conseguenza del ragionamento proposto è che i confini, proprio per la triplice funzione indicata poc’anzi, non devono essere sacralizzati, ma non possono e non devono essere cancellati dal momento che essi danno conto della diversità/singolarità/unicità di ciò che ci circonda e questa è una grandissima ricchezza. Il problema, invece, è quello di trovare il modo perché queste diversità/singolarità/unicità possano imparare a coesistere, cooperare, comprendersi reciprocamente, evolvere verso nuove e migliori condizioni di esistenza individuale e collettiva. Questo è il vero problema sia a livello di rapporti interpersonali che organizzativi e istituzionali.

Una precisazione fondamentale: identità e immagine

Molto spesso la presunta ambiguità del termine identità deriva dal fatto che non si precisa il rapporto che si instaura tra sistema osservato e sistema osservante. Sotto questo profilo è fondamentale una distinzione che proviene proprio dagli studi di management e di marketing nell’ambito dei quali si distingue tra identità e immagine, come elementi speculari di uno stesso fenomeno indagato. In particolare, l’identità è propria del sistema osservato e si esprime attraverso verbi quali essere e apparire. Viceversa, l’immagine è propria del sistema osservante che esprime ciò attraverso ciò che esso percepisce ed enuncia del sistema osservato. La figura seguente, riferita alla marca aziendale, chiarisce molto bene questo rapporto fondamentale utile per evitare confusioni.

Distinguere le due prospettive, quella del sistema osservato e quella del sistema osservante, è determinante ai fini della tesi che si sostiene in questo scritto. Nondimeno, occorre altresì distinguere le due prospettive in modo dinamico e storico, tenendo conto della situazione esistente per analizzare se esista o meno coincidenza tra identità e immagine o se invece, ci sia differenza e di che tipo eventualmente è questa differenza e da cosa sia stata originata.   

Per esemplificare il concetto ora espresso è utile il riferimento al mondo delle imprese. Queste ultime, infatti, nel progettare la propria offerta da proporre al mercato (cioè a tutti noi come potenziali clienti e consumatori) la realizza sulla base di un percorso (chiamato pianificazione strategica) con il quale a partire da una visione del mondo, definisce una propria missione (cioè la sua ragione di esistenza) e in base a ciò definisce una strategia per conseguire determinati obiettivi che poi si traducono in azioni che possono riuscire a catturare o meno l’interesse dei potenziali clienti consumatori. È evidente che i consumatori potenziali potranno essere attratti se riusciranno a “distinguere” quell’offerta rispetto al mare magnum di proposte presenti nel mercato. Questa distinzione è possibile perché l’impresa e la relativa offerta hanno una propria identità, tale da differenziarla rispetto ad altre identità. Bene: chi definisce questa identità? Da cosa è costituita questa identità? Cioè, quali sono gli elementi attraverso i quali io cliente potenziale capisco che quella offerta è diversa da tutte le altre?

Ebbene, credo non vi siano dubbi che sia l’impresa a sentire il dovere di definire l’identità della propria offerta. Ovviamente, nel caso specifico, lo fa pensando a quali potenziali clienti rivolgersi ma è una sua scelta quella di configurarla in un determinato modo e di modificarla nel corso del tempo. 

Per rispondere alla domanda circa gli elementi costitutivi della stessa è opportuno chiedersi se sia possibile “osservare” direttamente l’identità. La risposta è no, come provo a spiegare nel punto successivo.

L’identità come costrutto concettuale

L’identità, così come tanti altri concetti con i quali abbiamo a che fare quotidianamente, è un costrutto concettuale astratto il che significa che io non posso osservare in modo diretto l’identità, così come non la posso misurare direttamente. Questa operazione è possibile solo facendo riferimento a un set di variabili che sono espressive del concetto che si vuole analizzare. 

A questo punto ci si chiede quali possano essere queste variabili che, opportunamente analizzate e misurate, possono aiutare a riconoscere e distinguere una identità da un’altra. 

Per fare questo, nell’ambito del marketing è stato introdotto un modello, chiamato “prisma dell’identità di marca” (Kapferer, 2004), che si basa sull’analogia tra l’identità di una persona e quella di una marca. Il prisma è costruito considerando sei dimensioni: la personalità (quali estroversione o introversione, amicalità o ostilità, coscienziosità, apertura o chiusura), la cultura (cioè il sistema dei valori di riferimento), l’immagine di sé (come si vede il soggetto), l’immagine riflessa (come il soggetto ritiene di essere visto), il sistema di relazioni (tipo di comunicazione, tendenza a socializzare o a chiudersi in tribù, ecc.) e gli elementi fisici (caratteristiche oggettivamente verificabili). La figura seguente rappresenta in astratto il prisma in questione.

Se quindi si volesse studiare, per esempio, l’identità “sarda” sia staticamente che prospetticamente, si potrebbe fare una indagine (per esempio una ricerca di mercato attraverso lo strumento del questionario somministrato a valanga) per capire come ogni persona che vive in Sardegna o che sardo si sente, descrive la sardità in generale, quella che la contraddistingue e quella che a suo avviso dovrebbe caratterizzarla considerando le sei dimensioni del modello. Successivamente, attraverso una analisi statistica, dall’analisi delle risposte acquisite emergerebbero quei tratti prevalenti che potrebbero permettere di costruire un profilo (identità collettiva) o più profili e si potrebbe così scoprire, per esempio, che ci sono molti tratti anche tra loro contradditori, eppure esistenti. Per esempio, sul piano degli elementi fisici dell’identità potrebbe emergere che la Sardegna è certo caratterizzata in certe zone da una natura incontaminata e selvaggia ma in altre, purtroppo, è inquinata (siti industriali e militari per esempio), così come potrebbe risultare che per altri sul piano socio-economico la Sardegna sia vista solo in termini di agricoltura e allevamento mentre per altri è anche ricerca e industria (si pensi alle Università sarde, al CRS4, a Sardegna Ricerche, Remosa, Tiscali, ecc.). 

L’analisi prospettica, basata invece sul come si vorrebbe fosse caratterizzata questa identità, farebbe emergere elementi utili per plasmare in modo progettuale questa identità, permetterebbe cioè di individuare percorsi educativi e formativi finalizzati a costruire l’identità che si vuole essere, sulla base di una visione e di un progetto conseguente e consapevole. Va da sé che l’identità è contestuale e dinamica, nel senso che per effetto delle interazioni che caratterizzano il sistema osservato nel suo stare nel mondo, muta nel corso del tempo, evolve

Ancora, se si pensa a come ci si rapporta col mondo circostante si può osservare che grazie all’apertura dei mercati e dei confini ciascuno di noi vive la propria vita contemporaneamente su piani differenti talché ci appassioniamo sia a questioni che sono quelle del contesto a noi più vicino sia ad altre che si svolgono altrove. In questo senso l’identità non è un concetto esclusivo o escludente: si può essere nati a Oristano e sentirsi oristanesi, allo stesso tempo sardi, europei, mediterranei e più in generale cittadini del mondo.

Forse che i confini dell’essere oristanese mi impediscono di avere qualcosa in comune con un cagliaritano o un sassarese? Certamente no, ma non si può però neppure affermare che tra essi ci sia identità assoluta. In sostanza, l’identità si presenta come un concetto multidimensionale, nel senso che si può analizzare a differenti livelli, senza che per questo ci sia contraddizione. 

Ciò che conta è che per ogni livello considerato ci sia una certa coerenza di comportamento con l’insieme dei valori, dei simboli e dei comportamenti che per quel livello si reputano indicativi di quella identità. Per esempio, sarebbe incoerente che un oristanese reputasse la Sartiglia, uno dei simboli storici e culturali della città, come qualcosa da cancellare o nella quale non identificarsi o peggio reputare che non debba più esistere. 

I processi storici nella formazione dell’identità 

In base a quanto indicato in precedenza se si svolgesse la ricerca di mercato di cui sopra è evidente che il risultato che ne verrebbe fuori sarebbe fortemente condizionato dalle vicende storiche che hanno caratterizzato i componenti di un determinato gruppo sociale. 

Questo vuol dire che l’identità collettiva di un determinato gruppo sociale deriva dal sovrapporsi di eventi e circostanze succedutesi nel tempo, la maggior parte delle quali, almeno con riferimento alla Sardegna, non sono state volute dalla popolazione indigena ma da essa subite, anche pesantemente. Nel concreto, come evidenziano diverse analisi storiche, si può dire che ciò che noi Sardi siamo oggi in termini collettivi è, in grandissima parte, il risultato di un processo di colonizzazione tale per cui, per molti aspetti, non siamo quel che abbiamo deciso di essere ma quello che altri ci hanno detto che siamo

L’esempio più evidente è rappresentato dal fatto che un elemento che dovrebbe contraddistinguerci come Sardi in modo univoco dovrebbe essere la lingua, e tutti dovremmo essere consapevoli e orgogliosi nell’usarla naturalmente. La ricerca di mercato di cui sopra, invece, ci permetterebbe di scoprire che non tutti i sardi lo parlano e tanto meno lo scrivono e che, addirittura, molti si vergognano o peggio la considerano qualcosa di negativo, di gretto, ecc. Come mai? Come è possibile che un sardo possa vergognarsi di praticare un elemento distintivo così unico?

La risposta è semplice se si va a vedere cosa è accaduto a partire dal 1720 con l’attribuzione del Regno di Sardegna ai principi del Piemonte dopo la firma del Trattato di Londra del 1818. Si scopre così che c’è stata una continua e persistente opera di “estirpazione” e “criminalizzazione” del sardo al punto che tanti indigeni si sono convinti che, effettivamente, parlare sardo non era da persone che volevano entrare nella modernità. Chi scrive, per esempio, è uno di quelli che, tra i tantissimi, pur avendo avuto genitori che con i nonni si esprimevano in sardo, veniva detto che “parlare sardo non è bello, è da persone di basso profilo e bassa cultura”, circostanza che ha fatto sì che io non lo sappia parlare come oggi desidererei. Purtroppo, questo processo è stato alimentato anche dall’attuale Repubblica italiana che, durante il processo costituente, invece che tutelare le diversità presenti nel suo territorio, ha imposto una sola lingua per fare, seguendo l’idea di Massimo D’Azeglio, quelli che non esistevano e che, per molti versi, non ci sono neppure oggi: gli italiani. 

L’identità come progetto consapevole

Se l’identità è un concetto utile, nella prospettiva indicata in precedenza, occorre interrogarsi se valga la pena o meno definire un set di valori, simboli, ecc. nei quali i Sardi si sentono rappresentati e quelli, invece, che sicuramente non si vuole ci rappresentino, anche se oggi caratterizzanti questo contesto. Vi propongo qualche esempio ponendovi delle domande.

Quale sardo si sente rappresentato dai siti industriali inquinati (come, per esempio, quello dei fanghi rossi di Portoscuso o delle colline di Furtei intrise di cianuro)?  Ancora, chi si sente rappresentato dai poligoni militari in cui si fanno esercitazioni di guerra o da fabbriche che producono bombe, spesso utilizzate in guerre dove a pagare sono popolazioni civili inermi? O ci si sente rappresentati da quegli speculatori che pongono in essere operazioni di land grabbing facendo razzia di contributi pubblici per devastare terreni vocati all’agricoltura o occupare creste di montagne che costituiscono i paesaggi che tanti, tra locali e viaggiatori, dimostrano di apprezzare? O forse ci sentiamo rappresentati da quanti (come la dinastia sabauda su tutti) nel corso dei secoli hanno distrutto o raso al suolo i nostri boschi millenari, razziato le nostre miniere e tiranneggiato la popolazione di questa terra imponendo gabelle pesantissime quando le condizioni socio-economiche avrebbero meritato ben altra attenzione e sostegno?

Qualche ambiguità potrebbe sorgere se domandassi quanti si sentono rappresentati dalla Brigata Sassari. In tanti risponderebbero positivamente senza indugio, altri, tra cui il sottoscritto, risponderebbe sicuramente di no e per diverse ragioni, anche se questa non è la sede per approfondire questo tema. Tuttavia, questa diversità di vedute potrebbe ridursi approfondendo l’argomento, cercando di capire le origini storiche di questo corpo militare, se esso sia stato funzionale agli interessi dei Sardi o di chi invece ha usato questo corpo per la propria vanagloria, ecc.. Il che, a scanso di equivoci, nulla ha a che vedere con chi, per effetto di quella divisa, ha perso la vita e che va ricordato e onorato e di fronte ai quali mi inchino.

Al contrario, se si cerca di immaginare simboli di cui andare orgogliosi l’elenco sarebbe lunghissimo: dalla natura incontaminata ai paesaggi mozzafiato, dagli aspetti culturali e linguistici ai numerosi insediamenti storici, archeologici e artistici succedutisi nei secoli, da quanti nati altrove hanno poi scelto la Sardegna come luogo dove vivere (Gigi Riva e Fabrizio De Andrè su tutti, per citare solo quelli noti alla maggioranza) per continuare con i tanti atleti e squadre sportive di questa terra che portano il vessillo dei quattro mori in tante competizioni sportive se non lo hanno addirittura nel proprio stemma societario. 

Insomma, il concetto di identità non deve spaventare, né è in contrasto con l’uso di altre categorie concettuali con le quali si può combinare non solo e non tanto per spiegare l’esistente, quanto per costruire il futuro. Se oggi possiamo parlare di popolo sardo è perché, al di là di ogni disquisizione intellettuale, ci sono tratti che unanimemente tendono a contraddistinguerci, anche se non ne abbiamo coscienza e consapevolezza

Continuare a denigrare l’identità o combatterla, invece che costruirla in modo coerente con ciò che noi vogliamo essere e non facendola dipendere da come altri ritengono che siamo, è il modo perché nel futuro i sardi smettano di esistere in quanto popolo. In alternativa accadrà quello che è accaduto ad altri popoli le cui origini si sono perdute. Si pensi ai Sumeri che oggi esistono solo nei libri di storia. Vogliamo che per i Sardi accada lo stesso?

Fotografia: Brett Jordan (Unsplash)

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3 commenti

  1. Buon pomeriggio, vado direttamente alla fine del simposio dove dice, Continuare a denigrare l’identità o combatterla, invece che costruirla in modo coerente con ciò che noi vogliamo essere e non facendola dipendere da come altri ritengono che siamo, è il modo perché nel futuro i sardi smettano di esistere in quanto popolo, mi può spiegare la parte in cui scrive è il modo perché nel futuro i sardi smettano di esistete in quanto popolo ? Grazie.

    • Buonasera Corrado,
      vedo solo oggi questo commento e me ne scuso.
      La frase finale è una provocazione che parte da una constatazione: ci sono popoli di cui si parla nei libri di storia che oggi non esistono più, per esempio i Sumeri. I discendenti di quel popolo oggi, per effetto delle contaminazioni avvenute nei secoli, non esistono e difficilmente qualcuno potrebbe autodefinirsi “sumero”. Cosa sia successo io non l’ho approfondito in questo caso specifico però mi sono posto la domanda: cosa succederà al popolo sardo? In futuro ci saranno persone che potranno continuare a definirsi tali, pur con tutte le contaminazioni e l’evoluzione che la storia mette di fronte a tutti? Perchè ciò possa accadere occorre volerlo, sulla base del fatto che possano esserci elementi che consideriamo validi e meritevoli di considerazione per continuare a distinguerci in un mondo sempre più globalizzato e interconnesso, come è giusto che sia. Ovviamente, se si coltiva la lingua, questo è sicuramente un elemento che anche tra 5 secoli potrà vedere un popolo sardo, altrimenti sarà scomparso e i nostri discendenti si autodefiniranno solo in altro modo.
      Non so, spero di essermi fatto capire, poi magari lei ha idee diverse dalle mie.

  2. Cantu sardos ant colau su chi at colau, pro esempiu Mialinu Pira, cando in iscola, su maistru ddu lamaiat Michelangelo, e issu no errespundiat, ca cussu no fudi su lumene sou.
    As conseguentzias de cussu male medos sardos no dd’as ant mai irmartias, a s’imbesse de comente a fatu Mialinu. E geo penso chi una de cussas causas siat peri su lassongiu de s’iscola dae parte de sa pitzinnia.

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