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L’indipendentismo 25 anni dopo Anghelu Caria

Nel seguente articolo Adriano Bomboi offre un’analisi sulla situazione attuale dell’indipendentismo sardo e un ulteriore punto di vista rispetto agli interventi per S’Indipendente firmati  M. Fadda e C. Sabino. L’autore auspica la nascita di un Partito Nazionale Sardo quale strumento con cui ridurre il perimetro dell’intervento pubblico.


de Adriano Bomboi

Concordo con Cristiano Sabino, laddove in un recente articolo sul nostro indipendentismo afferma che si siano persi anni a occuparsi di inutili discussioni attorno alla bandiera sarda, al gandhismo, e a vari altri argomenti.
Tuttavia Sabino ci dice pure che – riporto – «all’inizio degli anni Duemila, con le due innovative proposte di IRS A Manca pro s’Indipendentzia, si è determinato un dibattito assai avanzato, marcando la linea politica per il decennio a venire. Dalla questione energetica alla lotta all’occupazione militare, dalla questione della lingua alla vertenza entrate, dalla critica alla sinistra centralista all’apertura internazionale – e soprattutto mediterranea – al dibattito che contemporaneamente si svolgeva in Catalogna e nel Paese Basco».

Ebbene, a onor del vero bisogna ricordare che tutti questiargomenti sono stati portati avanti dal movimento Sardigna Natzione di Anghelu Caria e Bustianu Cumpostu negli anni Novanta, sulla scorta di tematiche già introdotte dal Partito Sardo d’Azione e da uomini come Simon Mossa, sino al collettivo de Su Populu Sardu.
Negli anni Duemila, nonostante l’impegno di IRS ed AMPI per superare il folklorismo che in parte attanagliava SNI, c’è stata proprio la confusione lamentata da Sabino, confusione che ha prodotto il settarismo con cui siamo giunti al contesto attuale.

Non è neppure corretto affermare che l’indipendentismo sardo si sia ispirato a modelli come quello catalano: la Catalogna è una nazione che ha fatto della libertà di impresa una delle ragioni del successo economico e politico che l’ha portata alla ribalta. Il Paese infatti gode di un forte tessuto produttivo, alimentato da energia nucleare, e pure da una fiorente industria ricettiva, con cui ha supportato con profitto pure la sua politica linguistica. Tutti elementi avversati da larga parte dell’indipendentismo sardo, sin dai tempi di Sardigna Natzione, poi rinnovati da IRSAMPI e le sigle correnti; fatta eccezione per alcuni elementi di ProgReS Unidos.
Il nostro indipendentismo appare ancora romanticamente più vicino al settore primario dell’economia (l’agropastorizia, peraltro pesantemente assistita), che ai settori secondario e soprattutto terziario dell’economia (che in prospettiva hanno la capacità di sviluppare un maggior benessere diffuso).

Ciò è un retaggio della formazione di sinistra radicale, non una sinistra riformista o progressista di cui avremmo bisogno, da cui derivano vari leader indipendentisti, che ha contribuito ad allontanare i nostri movimenti dal tessuto produttivo dell’isola. E, in definitiva, dalla stessa società sarda, financo dai lavoratori che, indipendentisti come Sabino, intendevano legittimamente tutelare. Non a caso, la Corona de Logu, iniziativa comunque lodevole, rimane confinata a quella piccola frazione di amministratori indipendentisti oggi eletti nelle piccole comunità locali, caratterizzate da deboli settori produttivi, ovviamente assistiti con puntuali iniezioni di spesa pubblica.

Per questa e altre ragioni sono sorte iniziative indipendentiste completamente private e lontane dai movimenti indipendentisti tradizionali, tra cui la creazione di Sa Natzione (2005), portale di critica e attualità di orientamento liberaldemocratico. Nonché, grazie a un intellettuale come Gianfranco Pintore e alla Condaghes, una generale proposta di profonda revisione culturale dell’indipendentismo che ha in seguito prodotto i due libri del sottoscritto (2014 e 2019). Concordo pertanto con l’intervento di Marco Fadda apparso in S’indipendente: l’area indipendentista necessita di uscire da polemiche superficiali per abbracciare una realtà in cui i protagonisti non saranno sterili complottismi antinordisti né revival gramsciani, né rivendicazioni antiromane, e neppure nazionalismi antisabaudi, ma responsabilità nella lettura dei dati economici della Sardegna.

L’isola ha una spesa pubblica consolidata del 59,9% sul PIL. Traduzione: per sopravvivere bruciamo più ricchezza di quella che siamo in grado di creare.
Se non comprendiamo che dentro quella percentuale si annida l’ignoranza del potere politico che trattiene la nostra terra nel sottosviluppo, grazie alla ricerca di un facile consenso elettorale, non avremo mai un programma politico capace di combattere le piaghe dell’assistenzialismo e del clientelismo. Sono fattori che oggi danneggiano il presente e il futuro della Sardegna, ma anche la crescita elettorale dell’indipendentismo.

Ecco perché l’ipotetica nascita di un Partito Nazionale Sardo, non un partito unico dell’indipendentismo, e non un partito avverso al sardismo, potrebbe essere uno strumento con cui ridurre il perimetro dell’intervento pubblico nella nostra società, e con cui far crescere imprese capaci di reggersi sulle proprie gambe. Poiché con esso nascerebbe un nuovo spirito sociale capace di rendere orgogliosi i sardi nel dipendere sempre meno dai trasferimenti pubblici di denaro da altre Regioni.
Badate bene, non esiste altro modo per scrollarsi di dosso il virus della subalternità politico-economica all’Italia unita: chi non affronterà quella percentuale non sarà diverso da coloro i quali persero tempo nel parlare di bandiera sarda o di gandhismo.

E non so se questa visione sia di destra, “liberista” o progressista. Chiamatela come volete. A mio avviso è semplicemente necessaria e inevitabile.

Foto de presentada: Bustianu Cumpostu

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