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Mobilitazioni popolari e lotta politica nella Sardegna attuale

de Omar Onnis

La Sardegna è percorsa da vertenze e mobilitazioni su vari temi e questioni. Una massa non quantificata di cittadine e cittadini che nel corso di questi ultimi anni hanno assunto una funzione suppletiva rispetto alla politica istituzionale, ma che non costituiscono nel loro insieme un movimento popolare riconoscibile, tanto meno coeso. Eppure spesso le questioni su cui ci si mobilita si intersecano oppure si tratta della stessa partita, ma giocata di volta in volta a livello locale. 

Questo fenomeno ha diversi aspetti interessati. La sua consistenza, che sarebbe necessario misurare. La composizione sociale e anagrafica. L’orizzonte politico in cui queste mobilitazioni sono inscritte o l’eventuale assenza di un orizzonte politico. La loro relazione con la politica istituzionale, tanto a livello locale, quanto ai livelli più ampi e generali. 

Non è la prima volta, in epoca contemporanea (diciamo gli ultimi due secoli) che l’isola è percorsa da manifestazioni popolari, proteste, a volte esplosioni di rabbia collettiva. L’Ottocento ne è costellato. I primi del Novecento ne vedono una costante emersione. È un fenomeno poco studiato, che di solito si riconduce a malesseri contingenti e a un ribellismo disperato dato da condizioni di vita difficili, senza una vera coscienza politica a guidarli, senza scopi ulteriori rispetto a quelli immediati. La valutazione di questo fenomeno di durata più che secolare spesso si riduce a cornici interpretative stereotipate, a ipotesi vagamente sostenute da indizi e segnali, ma manca una vera indagine storica che prescinda da pregiudizi, bias interpretativi, tentativi di rimozione. 

Riguardo il nostro oggi, benché il fenomeno sia innegabile e sotto gli occhi di tutti, non solo latita una seria ricerca sul campo, di indole sociologica e politica, ma anche la copertura mediatica – quando c’è – è lacunosa, frammentaria, superficiale. 

Oggi il terreno della protesta popolare sembra suddiviso tra due grandi temi strategici: la sanità pubblica e l’assalto coloniale alle fonti rinnovabili. Ma non vanno dimenticate le mobilitazioni contro lo sfruttamento militare della Sardegna, sempre attiva, quella degli allevatori di pochi anni fa a proposito del prezzo del latte, le manifestazioni, soprattutto giovanili, sui temi ambientali, i vari comitati locali ostili a speculazioni immobiliari o altre forme di assalto rapinoso ai beni comuni, le rivendicazioni sulle carenze infrastrutturali. 

Non è solo la politica istituzionale, quella dei partiti, dei rappresentanti eletti, degli amministratori locali, ad essere bypassata, ma anche i sindacati sono perlopiù assenti o addirittura schierati dall’altro lato del fronte. Il che significa che, come già nel XIX secolo, queste istanze e queste richieste non trovano uno sbocco diretto nell’ambito in cui si gioca la partita della negoziazione sociale né nelle sedi in cui si legifera e si decide (teoricamente, in nome e per conto del popolo). 

Capita anzi che alcuni rappresentanti politici provino a intestarsi questa o quella vertenza, a puro scopo di consenso e a vantaggio della propria solidità elettorale, senza per altro fare nulla di concreto per dare alle istanze di cui ci si appropria uno sbocco positivo. Oppure le mobilitazioni vengono piegate a strumenti di lotta tra fazioni. 

In questo periodo non sembra che le vertenze aperte siano suscettibili di essere manipolate o deviate. L’esperienza ha insegnato alla cittadinanza sarda a non credere alla politica di Palazzo, anche se non di rado vi ricorre per cercare favori o vedere soddisfatti a titolo di concessione interessi legittimi che dovrebbero trovare realizzazione per vie ordinarie. Non sembra più il tempo delle deleghe in bianco ai signorotti locali, tanto meno hanno peso decisivo le appartenenze ideali, sempre più sfumate e confuse. 

Il che tuttavia non significa che sia meno importante riuscire a politicizzare questa vasta richiesta democratica. Semplicemente, non sembra esistere, al momento, una cornice ideologica e una prospettiva storica in grado di fare sintesi e di tradurre le mobilitazioni e le proteste in partecipazione attiva e in rappresentanza istituzionale. 

Che non possano assumersi tale ruolo i partiti dominanti, succursali di centri di potere e di interessi costituiti esterni all’isola, non stupisce. Del resto, il risultato della loro opera, negli ultimi trent’anni, è palesemente disastroso. Non esisterebbe nemmeno il fenomeno delle mobilitazioni spontanee o semi-spontanee, se la politica sarda funzionasse secondo i dettami di una sana democrazia rappresentativa. Quel che colpisce e che dovrebbe suscitare una riflessione è che nemmeno l’ambito politico alternativo, che in Sardegna significa soprattutto l’indipendentismo, sta riuscendo a conferire alle istanze popolari in campo un orizzonte politico di riferimento. La questione è tanto più singolare e degna di attenzione in quanto i temi oggi sul tappeto, su cui si attiva la cittadinanza, sono pressoché tutti temi forti delle battaglie indipendentiste. 

Una delle ragioni di questo che suona come un clamoroso fallimento politico potrebbe essere l’incapacità di passare dall’analisi e dal riconoscimento delle radici strutturali e storiche dei nostri problemi alla sintesi e alla proposta. Non che siano mancate del tutto, ma troppo spesso l’indipendentismo ha sottomesso la necessità dell’azione concreta alla purezza astratta e alla retorica, auto-relegandosi in un recinto autoreferenziale, disconnesso dalle articolazioni sociali e culturali diffuse nella società sarda contemporanea, o considerandole legittime solo nella misura in cui aderissero pedissequamente alla visione indipendentista, con tutte le sue idiosincrasie discorsive e i suoi vezzi estetici. 

Più che ammettere la pluralità ideale e sociale della Sardegna di oggi, l’indipendentismo ha preteso di egemonizzarla in modo dogmatico. Ha preteso insomma di governare la molteplicità anziché accettare di esserne parte e di agirci dentro. Oppure, come successo nelle ultime tornate elettorali e pare succederà anche nella prossima, in alcune sue componenti si è semplicemente fatto cooptare all’interno degli schieramenti dominanti, con risultati a dir poco deludenti. Esito scontato, date le premesse e i rapporti di forza esistenti. 

Altri percorsi politici alternativi all’apparato di potere dominante hanno molte meno potenzialità dell’indipendentismo, soprattutto quando rifiutano o marginalizzano il tema dell’autodeterminazione, che invece – come la storia credo dimostri ampiamente – è decisivo. Forze di derivazione esogena, magari progressiste o, in astratto, solide sul piano teorico, che non contemplino la relazione asimmetrica e penalizzate tra Sardegna e Italia sono ancor meno connesse alla realtà dell’indipendentismo, benché a lungo abbia prevalso il discorso opposto (ossia, era l’indipendentismo a essere scollegato dalla realtà e “fuori della storia”). 

Il combinato tra queste due debolezze politiche – quella dell’indipendentismo e quella delle forze non di sistema — ha condotto a uno scenario desolante. Un deserto ideale e valoriale su cui imperversano bande di predoni. Che poi si contendono i posti chiave nel governo dell’isola e nei gangli vitali dell’amministrazione pubblica. 

Eppure la cittadinanza sarda non è silente né si è arresa. È un segnale di vitalità democratica che sarebbe delittuoso ignorare. Il potere costituito guarda al fenomeno con sospetto e timore e non di rado opera per reprimerne alcune espressioni. A maggior ragione occorre legittimare le mobilitazioni popolari e prendervi parte senza tentativi di egemonizzazione, e al contempo provare a costruire un orizzonte politico nuovo, plurale ma armonico, che le faccia diventare una grande forza democratica che possa perseguire una adeguata rappresentanza dentro le istituzioni. 


Immagine: radiondadurto.org

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