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Nazione non è invenzione, ma partecipazione

Nazione e stato-nazione sono due cose differenti. Prova a fare chiarezza sul tema Antonio Fadda, sardo che vive e lavora in Canada. Laureato in Filosofia, ha lavorato all’Università della British Columbia, partecipa attivamente a varie iniziative – in Canada e online – per la rivitalizzazione della lingua Sarda. È membro dell’Associazione Sardi In Canada. 


De Antonio Fadda

In una breve intervista su La Nuova Sardegna, lo scrittore barbaricino Marcello Fois parla del suo nuovo libro “L’invenzione degli italiani. Dove ci porta Cuore”, dedicato al famoso romanzo per ragazzi di De Amicis. Premetto che non ho avuto ancora occasione di leggere il libro, ma leggendo l’intervista rilasciata dall’autore mi sono trovato a disagio con alcune sue affermazioni sul concetto di ‘nazione’ e ho sentito il bisogno di scriverne.

Quello che sembra emergere dalle parole di Fois è che la sua non è certo una lettura decoloniale dell’opera di De Amicis, che sarebbe oggi tanto necessaria (si pensi a cosa ne verrebbe fuori da una rilettura del racconto del Tamburino Sardo in chiave post-coloniale), ma bensì di un’operazione dove l’autore incensa l’opera moralizzatrice positiva avuta dal libro di De Amicis nel forgiare una coscienza nazionale Italiana dalla quale dovremmo ancora oggi trarre linfa morale per il nostro sentimento di patria e per la nostra condotta civica. Fin qua, poco male: ognuno è libero di incensare chi gli pare. Ciò che non è consentito a Fois è la falsificazione e le omissioni storiche di un processo che ebbe effetti devastanti per la Sardegna e non solo.

Procediamo con ordine. In apertura di intervista, il giornalista chiede a Fois di specificare in che modo si possa dire che gli Italiani siano “inventati”, esortandolo a chiarire il titolo stesso del suo libro. Fois risponde: “De Amicis si è semplicemente posto il problema di trovare un minimo comun denominatore tra popoli e culture difformi che la Storia ha assommato sotto la sigla di Italia (corsivo mio). Le culture nazionali sono il frutto di una convenzione. Perciò tutti i popoli sono stati “inventati”, l’Italia e gli italiani sono solo arrivati per ultimi e per questo sono piuttosto in progress per quanto riguarda il senso di popolo” (corsivo mio).

L’idea che le nazioni siano qualcosa di immaginato, piuttosto che qualcosa di oggettivo e tangibile, e che siano frutto di “invenzione”, non è nuova ed è stata argomentata da influenti studiosi come Gellner (1983), Hobsbawm (199), e Anderson (1983). Quest’ultimo, con il suo concetto di “comunità immaginate” ha caratterizzato l’identità nazionale come un senso di appartenenza immaginario, di “cameratismo orizzontale”, condiviso trasversalmente dalle classi sociali, che pensa la nazione come sovrana e limitata territorialmente. Nonostante i meriti indiscussi di queste caratterizzazioni che hanno palesato il carattere culturalmente costruito dell’identità nazionale, è stato rilevato che questi studiosi si sono riferiti principalmente a un concetto determinato di nazione: quello dello stato-nazione occidentale dell’epoca moderna seguita alla rivoluzione industriale.
Per fare un esempio, queste caratterizzazioni adottano una prospettiva evoluzionistica che vede lo stato-nazione come il prodotto necessario e naturale dell’evoluzione sociale di ogni comunità moderna. Da qui la distinzione tra nazionalismo etnico (primitivo) e nazionalismo civico (moderno). Tale prospettiva piuttosto limitata è stata messa in discussione da diversi studi post-coloniali e femministi che ne hanno rilevato la parzialità e il punto di vista Eurocentrico storicamente determinato (Sabra, 2007). Perciò vale la pena interrogarsi se il concetto di nazione e quello di identità nazionale siano sinonimi rispettivamente dei concetti di stato-nazione e identità stato-nazionale. La mia argomentazione è che questa assimilazione è indebita e il concetto di nazione va compreso dal basso a partire dalla partecipazione alla vita culturale di una comunità.

Nazione e stato-nazione: due cose differenti

È difficile dire cosa sia una nazione. Esiste un’ambiguità semantica costitutiva del termine. In genere, una nazione è descritta come una comunità unita da un apparato istituzionale, una storia, una cultura, una lingua comune, l’appartenenza a un territorio e/o a un etnia. L’uno o l’altro di questi elementi viene talvolta posto in evidenza come fondante una nazione a discapito degli altri.

Per esempio, un’accezione che dà priorità all’appartenenza culturale o etnica vede la nazione in primis come unità di cultura e/o etnia. In questa prospettiva è l’appartenenza a un gruppo culturale o etnico distinto che legittima il parlare di nazione. In quest’ottica, la nazione intesa come comunità avente storia, cultura e ethnos in comune, viene prima dello stato inteso come unità giuridico-istituzionale. Altri invece, vedono il fattore politico-istituzionale come il fattore fondante di una nazione. In questa concezione, il ruolo del fattore culturale o etnico viene sminuito: diverse etnie e/o culture sembrano poter coesistere in una medesima compagine statale, per cui la nazione diviene la sommatoria di queste realtà distinte. In breve, si possono identificare due principali orientamenti: uno guarda alla nazione-stato, l’altro guarda allo stato-nazione (Kennedy, 2016).

Tornando alla tesi rilanciata da Fois che tutte le nazioni sono state “inventate” dobbiamo subito chiederci a quale tipo di concezione Fois si riferisca. Parla forse della nazione-stato o piuttosto dello stato-nazione? Egli ammette che gli Italiani sono una nazione “inventata” perché un processo storico determinato di accentramento identitario ha cercato di unificare politicamente prima e culturalmente poi diverse comunità sotto una stessa bandiera e una stessa identità nazionale. Fois parla dunque dello stato-nazione e non della nazione-stato. Egli riconosce esplicitamente che diverse culture sono state “assommate” in una compagine nazionale unica.

Foto de Prometeus Studio

Ciò che Fois omette nell’intervista, è il lato oscuro di questo processo che prevedeva e prevede la cancellazione e soppressione brutale non solo di sentimenti, fermenti e rivendicazioni di identità culturali che contrastavano con l’obiettivo accentratore dello stato ma anche il divieto di praticare la propria cultura, di parlare la propria lingua, di esistere in quanto non Italiani. L’elefante nella stanza che Fois fa finta di non vedere, è la legittima domanda se queste variegate comunità culturali dell’Italia pre-unificazione, non avessero altrettanto diritto di chiamarsi nazioni e aspirare a una forma di unità politica autonoma o su base federale nel rispetto di identità nazionali distinte.

La strategia retorica di Fois sembra invece quella di cercare di relativizzare il termine nazione tout court e ridurlo a “invenzione/convenzione” cosicché rimanga poco margine per le nazioni senza stato dell’Italia di ieri e di oggi di reclamare il diritto di dirsi nazioni. Come a dire: a qualsiasi comunità presente in Italia voi apparteniate, sappiate di non potervi voi dire più nazione autonoma di quanto vi possiate dire appartenenti alla nazione Italiana, dal momento che tutte le nazioni sono “inventate” e voi non siete meno “inventati” degli Italiani.
Tuttavia, questo impianto ideologico fa acqua da tutte le parti. Infatti, come ha rilevato Anderson (1983), esiste da una parte un sentimento popolare nazionale “genuino” che è quello delle masse, avente un carattere più indefinito. Dall’altra esiste un sentimento che è invece frutto del pilotamento machiavellico operato dalle élites per accentrare su di se il potere attraverso l’uso dei mass media, del sistema educativo, e di precise regolazioni amministrative. Per Anderson, il secondo parassitizza il primo.

Gellner invece distingue l’affiliazione nazionale in due categorie: 1) contingenza culturale (individui che condividono una cultura) e 2) affiliazione volontaria e reciproco riconoscimento di appartenere alla medesima nazione. Guardando all’Italia è chiaro che il processo di invenzione della nazione Italiana è stato di natura machiavellica con fini di accentramento politico. Per stessa ammissione di Fois, non fu un processo basato sulla “contingenza culturale” di un popolo ma bensì sul tentativo di estirpare quelle contingenze e sentimenti di appartenenza a culture locali al fine di creare lo stato-nazione e la sua nuova identità inventata.

Un esempio storico: la nazione scozzese e lo stato-nazione britannico

Da quanto detto finora emerge che il concetto di nazione su base culturale ha un fondamento più solido di una concezione che parte dall’unità politica come quella dello stato-nazione. In altre parole, se noi per nazione intendiamo una comunità unita da una storia, una lingua, una cultura materiale e immateriale, un’appartenenza territoriale localizzata, in questo caso il referente del termine “nazione” si fa ben più’ reale e palpabile e meno “inventato” del referente della nozione imposta dallo stato-nazione e calata dall’alto.

Gli esempi storici abbondano. Si può portare l’esempio della nazione Scozzese visto che permette il raffronto diretto tra le due concezioni. Chiaramente, il fatto che le nazioni Inglese e Scozzese siano accomunate (almeno per ora), in una stessa compagine politica, non fa di esse una nazione unica se non nel senso politico del termine. Le due nazioni convivono oggi in una compagine politica unitaria che è quella della Gran Bretagna delineata a partire dalla cosiddetta Unione delle due corone del 1603 culminata negli Acts of Union del 1707 dove entrambi i parlamenti (Scozzese ed Inglese) passarono un atto che sanciva l’unione dei due regni.

Foto de Riccardo Pisu Maxia

A partire da allora ebbe lentamente iniziò un processo di invenzione di un’identità nazionale “Britannica” unitaria che, come scrive la storica Linda Coley, portò all’emergenza di una “identità stratificata” dove i diversi gruppi etnici del regno unito iniziarono a percepirsi come Britannici, ma anche, allo stesso tempo, come Scozzesi, Inglesi, e Gallesi. Notare che i “Britanni” erano un popolo celtico originario, dunque questa nuova nozione “inventata” faceva appello a un passato che vedeva una certa unione su base etnica dei diversi gruppi. Questo sembra essere indice del fatto che quando i vecchi stati-nazione cercavano di accomunare diverse nazioni avevano pur sempre bisogno di una narrazione inventata di stampo etnico che propagandasse una comune origine e un comune destino.

Facendo un salto indietro di quattrocento anni circa troviamo invece la precedente Dichiarazione di Arbroath del 1320 inviata dall’aristocrazia scozzese al papa Giovanni XXII. In questo documento si metteva per la prima volta nero su bianco la specificità etnico-culturale del regno Scozzese di contro alle mire espansionistiche della corona Inglese. Nel testo si fa esplicito appello a un’origine storica e culturale indipendente del popolo scozzese come base per l’indipendenza.

Certamente sono presenti elementi di ‘invenzione’ in entrambi i casi. Tuttavia dire che entrambi i tentativi si equivalgono in quanto “invenzioni” e “convenzioni” è quantomeno rischioso. Anche se il termine moderno di “nazione” non viene usato nella Dichiarazione di Arbroath, in questo testo l’aristocrazia scozzese mostra una coscienza nazionale in nuce su base storica, politica, culturale, linguistica, e geografica che si trascina fino ai giorni nostri come questione identitaria e politica aperta per gli scozzesi.

Per una visione partecipata di nazione

Mutatis mutandis, l’Italia presentò (per stessa ammissione di Fois), lo stesso problema. Ovverosia, diverse nazioni aventi culture, lingue, storia, etnia e rapporti ancestrali con territori diversi, vennero aggregate in una compagine nazionale, in uno stato-nazione, nell’interesse di una classe dominante al fine di accentrare il potere politico nelle mani di un’elite (monarchia Sabauda). Per fare ciò ci volle uno sforzo notevole di invenzione e persuasione oltreché di coercizione di cui il Libro Cuore di De Amicis, nel bene o nel male, fa parte integrante.

Foto de Limes

Quello che Fois fa finta di non vedere, però, è che esiste una definizione di nazione che ha un referente ben più reale delle narrazioni immaginarie dello stato-nazione. Quando si tocca con mano la realtà linguistica, storica, culturale, geografica e politica come base referenziale per il concetto di “nazione” si evita l’errore di dire che tutte le nazioni sono convenzioni. Questa è una volgarizzazione grossolana delle caratterizzazioni degli studiosi summenzionati. Infatti, non è forse il concetto e l’esistenza stessa di “nazioni senza stato” (stateless nations) una riprova che esiste un nucleo più genuino di appartenenza nazionale che nemmeno l’appartenenza a uno stato-nazione riesce a cancellare? Di converso, quanti stati senza nazione (inventata o meno) esistono? Pochi o nessuno perché quella dello stato-nazione è una ideologia coloniale occidentale di “successo” che è stata imposta al mondo intero dal secondo dopoguerra a oggi e persino durante i processi di decolonizzazione del secolo scorso (Kennedy, 2016). Molti paesi, appena liberati dal giogo coloniale, si son visti imporre confini e concezioni di statualità e nazionalità occidentali che hanno ingenerato guerre e conflitti che perdurano tutt’oggi.

In opposizione a formule calate dall’alto, il nucleo più originario di una nazione va cercato nella partecipazione attiva con e nella propria comunità, nel proprio territorio. Per parafrasare Gaber, nazione non è invenzione, ma partecipazione. Questo è quello che quotidianamente fanno i tanti attivisti nella realtà Sarda come di altre realtà Italiane locali. Mi viene in mente lo sforzo di rivitalizzazione linguistica delle lingue minoritarie: non solo quella Sarda ma anche quella Lombarda o quella Greca di Calabria e altre. Viene in mente lo sforzo del collettivo ‘Storia sarda nella scuola italiana’ di portare la storia della nazione sarda nelle scuole. Viene in mente l’operato degli attivisti che lottano da anni per liberare la Sardegna dalle basi militari che rappresentano un vero e proprio attentato alla sovranità territoriale della nazione sarda come sancito dalla dichiarazione dell’ONU sui diritti dei popoli indigeni.

Fois dovrebbe andare a parlare con la gente nel territorio e chiedere a loro che cosa sia per loro una nazione. Partecipando delle loro lotte quotidiane, raccogliendo sul campo le loro testimonianze, faticherebbe a chiamare le nazioni frutto di convenzione e invenzione. Al contrario, le nazioni inventate sono quasi sempre solo quelle che rappresentano forzature storiche e tentativi di soggiogare diverse nazioni in un’unica compagine politica.

Quello che invece comprendiamo sempre meglio oggi, anche grazie alle prospettive decoloniali che si affacciano prepotenti in Italia e nel resto del mondo occidentale, è il doloroso portato storico di questi passati tentativi di unificazione forzata. Tale sforzo immane richiese la cancellazione di un sentimento di identità culturale più genuino, più tangibile e vicino alle persone e al territorio, in nome di una identità forgiata a tavolino, calata dall’alto e funzionale ai giochi di potere delle élites. Le conseguenze in termini di assimilazione forzata, perdita culturale e linguistica, colonialismo politico, economico e intellettuale e conseguente trauma intergenerazionale, sono sotto gli occhi di tutti ma non tutti son capaci di vederle perché la colonizzazione ha largamente trionfato nel suo intento assimilatore. Fois è uno di questi: da bravo romanziere, in preda a una sorta di deformazione professionale, continua, per sua stessa ammissione, a inventare su un’invenzione senza accorgersi di avere sotto i piedi una nazione più reale, più vera e meno inventata di quanto egli creda.

Foto de presentada: Christian Lue on Unsplash


Bibliografia:

  • Anderson, B., (1983). Imagined Communities: Reflections on the Origin and Spread of Nationalism. London: Verso.
  • Gellner, E., (1983). Nations and Nationalism. Oxford: Blackwell.
  • Hobsbawm, E., (1990). Nations and Nationalism since 1780: Programme, Myth, Reality. Cambridge: Cambridge University Press.
  • Kennedy, D., (2016). Decolonization. A Very Short Introduction. New York: Oxford University Press.
  • Sabra, S., (2007). Imagining Nations: An Anthropological Perspective. Nexus. 20, 76-104.
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