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Sentieri di libertà: il contributo delle donne sarde alla lotta per i diritti 

de Federica Marrocu

L’Otto marzo si celebra la giornata internazionale della donna (o Giornata internazionale dei diritti delle donne).
Si fa forse meno fatica rispetto a qualche anno fa a spogliare questa ricorrenza di tutta la retorica e gli orpelli che la svuotano di senso, ma c’è ancora molto lavoro di decostruzione da fare a livello sociale, economico e culturale per consolidarne il senso profondamente politico.
Come si può leggere sul sito del collettivo Non una di meno, l’otto marzo è tornato ad essere un appuntamento con le piazze: è il giorno dello sciopero dal lavoro produttivo, ma anche sciopero sociale e riproduttivo.

È una giornata in cui le donne si astengono dal lavoro domestico non retribuito, mal pagato o non riconosciuto affatto, e di cura. Un lavoro che garantisce il funzionamento della società e che, se non esistesse chi se ne fa carico, dovrebbe essere suddiviso tra servizi e attività da assegnare a istituzioni pubbliche e private.
Le donne non sono numericamente una minoranza, ma vivono in una condizione di subalternità determinata da dinamiche di sbilanciamento di potere, di ingiustizie e violenza. Le lotte contro tale sistema possono essere definite intersezionali quando mirano a individuare le interconnessioni tra le varie forme di discriminazione.

A questi principi si lega una riflessione su un concetto spesso accostato alla realtà socio-culturale della Sardegna: l’esistenza (presunta) di una qualche forma di matriarcato, cosa che la renderebbe esente da questo tipo di problemi.
In realtà si tratta di un luogo comune ricorrente, ancora radicato, che di tanto in tanto torna ad essere veicolato.
È doveroso fare chiarezza su questo: si tratta di uno stereotipo (cioè di una generalizzazione di caratteristiche estesa a un determinato gruppo di persone, che non trova un riscontro effettivo nella realtà).
Per matriarcato si intende, secondo la definizione riportata sul sito di Treccani, “Predominio della donna in ambito sociale o familiare: una famiglia in cui vige il matriarcato”.
È interessante che l’esempio citato inquadri la famiglia come il contesto nel quale questo predominio possa essere esercitato. Infatti quello che si può affermare è che quella sarda sia, come molte altre, visto che si parla di un problema sistemico, matricentrica più che matriarcale. Le donne hanno in carico la gestione di funzioni fondamentali per la sopravvivenza delle famiglie e, per estensione, della società, svolgono ruoli riconosciuti come decisionali, ma in contesti extra-lavorativi o comunque al di fuori dagli ambiti amministrativi e politici.
Non è un caso che abbiamo dovuto aspettare il 2024 perché venisse eletta la prima presidente della Regione Sardegna, Alessandra Todde. Il consiglio, comunque, è a maggioranza maschile.

È vero che in Sardegna esiste un retaggio storico-culturale il quale delinea la figura femminile come emancipata, e come un soggetto giuridico autonomo.
Si può citare a riguardo la Carta de Logu, promulgata nel 1392 da Eleonora de Bas Serra, reggente del Giudicato d’Arborea, all’interno della quale le norme che riguardano le donne le definiscono all’interno della famiglia, ma anche come lavoratrici.
Avevano diritti (in materia di dote ed eredità) e doveri e, in determinate circostanze, potevano disporre atti sul patrimonio con il consenso del marito. In mancanza di tale consenso avrebbero dovuto farsi assistere da parenti di fronte alle autorità.
Le donne potevano essere accusate di reati ed essere perseguite secondo l’ordinamento; erano inoltre oggetto di forme di tutela che possono essere considerate piuttosto avanzate. Erano dunque soggetti di diritto.

Sembra possibile affermare che quella condizione di autonomia (superiore in Sardegna che altrove), si sia progressivamente ridimensionata al ruolo di cura, e che questo sia accaduto a causa dell’assimilazione di modelli culturali esterni, soprattutto dal secondo dopoguerra.

Qual è stata la reazione delle donne sarde?
Dallo studio “Le lingue dei sardi, una ricerca sociolinguistica” del 2007 emerge che il 70% delle madri sarde che ha scelto di educare la prole in italiano vorrebbe che si facesse qualcosa per salvare le lingue autoctone. Dalla stessa ricerca emerge uno scarto di genere nella percentuale di persone che conoscono e parlano la lingua sarda. Questo dato è di grande interesse perché manifesta la scelta di svincolarsi da un contesto percepito come limitante, attraverso lo studio e la formazione (ambiti in cui si utilizza la lingua italiana) come strumento di conquista dell’autodeterminazione.
Nella presa di coscienza di questi processi risiede il grande potenziale trasformativo della riappropriazione culturale e linguistica da parte delle donne sarde, nonché il carattere rivoluzionario della scelta, nel presente, di ridefinire i rapporti tra le lingue autoctone e le dinamiche sociali, culturali e -anche- di potere.

Come dare all’otto marzo un significato calato nel contesto della Sardegna?
Come prima cosa sarebbe opportuno far uscire dal dimenticatoio il contributo femminile in tutti gli ambiti, letterario, storico, politico. La narrazione sulla Sardegna è ancora un racconto fatto da uomini, sugli uomini.
Sarebbe importante dare la giusta importanza alla partecipazione delle donne alle lotte per i diritti in Sardegna. Penso alle sigaraie della Manifattura Tabacchi a Cagliari e al loro ruolo di rappresentanti dell’avanguardia della protesta del maggio del 1906, quando Cagliari fu teatro della cosiddetta rivolta del pane. Penso alle donne militanti nei partiti politici e nelle organizzazioni femminili in Sardegna, a cui va tributato il riconoscimento per la conquista dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, del suffragio universale.
Donne che meritano di essere nominate, di essere raccontate, ne cito solo alcune: Elvira Floris e Maria Boi, sigaraie. Eugenia Ciboddo, socialista. Margherita Sanna, democristiana.

Penso alle maestre che in Sardegna, dalla seconda metà dell’Ottocento a tutto il Novecento hanno dato un contributo fondamentale all’ambito dell’istruzione, dove probabilmente non sono mancate insegnanti capaci di integrare la lingua sarda nell’insegnamento in una scuola di stato, quindi italiana, inserita in una società sardofona. Ne parla Grazia Deledda nel romanzo Cenere.
L’istruzione femminile ha rappresentato, come detto sopra, un mezzo di emancipazione, e al contempo una minaccia al modello della famiglia tradizionale. Per questo è stata ostacolata o è divenuta oggetto di controllo: i casi più eclatanti risalgono all’epoca fascista.
Mariangela Maccioni, “resistente” fu incarcerata e sospesa dall’insegnamento e dalla retribuzione tra il 1937 e il 1939. Dichiarò in una lettera “penso che il fascismo (sia) un delitto nazionale”.
Assieme a Maccioni fu arrestata Graziella Sechi Giacobbe, che fece della sua casa un punto di riferimento per gli antifascisti nuoresi. Durante l’interrogatorio si dichiarò antifascista “perché il regime fascista non è un regime di libertà”.
Sua figlia, Maria Giacobbe, è stata una delle voci più importanti e sensibili nel testimoniare le condizioni della scuola in Sardegna.
Con Mariangela Maccioni e Graziella Sechi Giacobbe non si può non ricordare Marianna Bussalai, intellettuale, scrittrice e poeta sarda, indipendentista e fervente sostenitrice del Partito Sardo d’Azione. È importante nominarle, nominarle tutte, e raccontarne la storia per ricomporre il tessuto della memoria, ma ancora più importante è non fermarsi al ricordo, ma raccogliere l’eredità di chi ci ha precedute e farla nostra.
Dovremmo fare nostro il senso politico della rabbia di quelle donne, della loro determinazione a prendere spazio, a farsi portavoce e alleate delle categorie oppresse. Dovremmo allearci e creare nuovi strumenti di lotta per minare alla base le dinamiche di potere generatrici delle disuguaglianze dalle quali la Sardegna merita di essere liberata.


Immagine: wikimedia commons

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