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Strutture di lusso, archistar e paesaggio: l’inganno dietro la retorica del recupero e del rilancio del territorio.

de Giulia Olianas e Federica Marrocu

È il Nord della Sardegna l’area in cui sono maggiormente concentrate le dimore di lusso più esclusive. In un articolo de Il Sole 24 ore del 2022 si legge: “Secondo i dati di Agenzia delle Entrate e Knight Frank, le superville in regione (soprattutto Gallura e Costa Smeralda) sono le più costose: sino a 22mila euro al metro quadro”.

La zona di Porto Rotondo è, sempre nello stesso articolo, descritta come un’area in cui i prezzi viaggiano a cifre “abbastanza ridotte” rispetto alla Costa Smeralda, ma comunque elevate.
Nello specifico, il costo a metro quadro si aggirava (nel 2022) attorno ai diecimila euro.
Quello delle strutture di lusso ed extralusso sembra essere un mercato che non conosce contrazioni.

Per inquadrare il fenomeno è opportuno ricordare che il Nord della Sardegna iniziò ad entrare nell’orbita di milionari e facoltosi imprenditori negli anni Sessanta del Novecento. Si trattava di territori poco antropizzati: nel contesto socio-economico dell’Isola, orientato su attività in linea con le esigenze della popolazione e le sue vocazioni, non si trattava di aree da sfruttare intensivamente. Non erano della stessa opinione i soggetti esterni che presero di mira la zona.
I terreni furono acquistati a prezzi estremamente vantaggiosi: la toponomastica fu modificata per dare vita al mito della “Costa Smeralda”. Assieme a Porto Cervo, insediamento fondato ex novo a uso e consumo di un’élite non sarda, fu creata anche Porto Rotondo.

Sono numerosi i progetti che parlano di “recupero in chiave urbana e sociale dei luoghi”; molte ville della Costa Smeralda nascono infatti da rifacimenti di antichi ruderi (come Villa S a Porto Rotondo), e dunque da un riutilizzo di ambienti abbandonati a cui si “restituisce nuova vita” in nome della valorizzazione e della salvaguardia di quel luogo.

Sulla succitata Villa S a Porto Rotondo, in un articolo pubblicato sul sito WeArch, si legge che le strutture “costituiscono un rifugio dal sole e dalla pioggia, proprio come gli straordinari edifici preistorici sardi. Il riferimento all’architettura preistorica è un elemento ricorrente in questo contesto e costituisce un aspetto su cui sarebbe il caso di riflettere.

Si può anch’esso legare in un certo modo all’intento di valorizzazione. La cultura “millenaria” dell’Isola diventa uno strumento funzionale a “elevare” e integrare (pretestuosamente) con il contesto, strutture che con essa non hanno nulla a che fare.
Il potenziale simbolico che la preistoria sarda ha nella narrazione è forte: ad essa si attinge soprattutto in virtù di quel potenziale. Il periodo nuragico, ad esempio, è una sorta di “archetipo” che nel tempo è diventato oggetto di narrazioni e di rappresentazioni, tanto da trasformarsi in un mito che si autolegittima. Poco importa se l’uso che se ne fa si distacca sempre di più dal reale. In Sardegna esiste una cultura dominante (quella italiana) che occupa i gradini più alti di una scala gerarchica di modelli, economici e non solo, talmente pervasiva che non si percepisce come un’appropriazione culturale tale prassi.

La volontà di legittimare l’occupazione di ampi spazi, sottratti alla natura e alle popolazioni locali in virtù di privilegi economici e sociali, passa anche dalle parole.

“Felicemente incastonata nel paesaggio”, “parte della macchia mediterranea che la circonda, “progetto fedele allo spirito del luogo”.
Così vengono descritti i colossi in granito costruiti in mezzo alla vegetazione. Cosa dovrebbero trasmettere queste evocazioni? Rassicurazione? Un riconoscersi? Un senso di appartenenza che possa legittimare tali interventi? Sembrano quasi dei tentativi di giustificazione del perché questo tipo di costruzioni occupino un certo tipo di spazio.

Così il richiamo all’armonia con l’ambiente, all’utilizzo degli stessi materiali che si rintracciano sul luogo, al fatto che queste ville facciano pendant con gli elementi naturali che le circondano, diventa un mezzo per nobilitare degli interventi che sono in realtà invasivi e talvolta distruttivi nei confronti dell’ambiente e dell’ecosistema.

Se andiamo ad osservare nel dettaglio i progetti delle ville smeraldine, i realizzatori sono per la maggior parte dei casi architetti molto conosciuti, nazionali o internazionali: grandi nomi e grandi studi di architettura che trovano nel paesaggio gallurese le condizioni migliori (ambientali e finanziarie) per esprimere la propria arte.
La presenza dei cosiddetti archistar in Sardegna non si limita solo alla costruzione delle ville in Costa Smeralda; ricordiamoci che anche a Cagliari il progetto di rinnovamento dell’area del porto è stato affidato a Stefano Boeri. (https://www.unionearchitetti.com/waterfront-citta-di-cagliari-progetto/  , https://www.stefanoboeriarchitetti.net/project/una-promenade-verde-per-il-lungomare-di-cagliari/), già intervenuto nel 2009 negli edifici dell’ex Arsenale de La Maddalena, in occasione del mancato G8 poi trasferito a L’Aquila.

Pochissimi sardi quindi – a parte il famoso Antoni Simon Mossa, che chiamato negli anni Sessanta da Karim Aga Kahn lavorò insieme ad altri architetti di fama internazionale alla pianificazione globale del comprensorio – tra i progettisti delle strutture di lusso della Costa Smeralda; si parla d’altra parte di collaborazioni con artigiani locali nella lavorazione del granito. Sorge spontanea la domanda, forse troppo maliziosa, se a questo proposito si tratti di una partecipazione attiva dei professionisti locali o se la loro presenza marginale non sia piuttosto un espediente per ricorrere ad una manovalanza locale che in qualche modo legittimi il legame del territorio con dei progetti che nella loro concezione e attraverso il loro impatto non apportano nessun vantaggio né ai luoghi di cui si appropriano né alle comunità che in quelle zone vivono e che instaurano dalla nascita un rapporto diretto e profondo con l’ambiente circostante.

Sino a che punto, quindi, la realizzazione di progetti di lusso può essere giustificata da necessità quali la riqualificazione e il recupero? In che modo la costruzione di una villa da milioni di euro può dare forma ad un intervento di salvaguardia dell’ambiente circostante?Si tratta di speculazione edilizia mascherata da finalità salvifiche? Finalità che fanno appello agli interventi di arte e architettura e che quindi sarebbero esenti da possibili condanne o critiche.
Le narrazioni possono incidere sulla percezione della realtà.
Il rispetto dei vincoli paesaggistici si può raccontare come una sfida da affrontare e superare se si vuole dare risalto alla bravura dei progettisti, oppure come l’ultima frontiera a tutela di territori che altrimenti sarebbero aggrediti, snaturati, ad uso e consumo di persone ricche residenti altrove.

La proliferazione di progetti di dimore di lusso in Sardegna solleva, come si è visto, importanti questioni riguardanti lo sviluppo urbano, la conservazione ambientale e la giustizia sociale.
Occorre interrogarsi sulla loro reale sostenibilità e impatto, ma anche sulle dinamiche che impediscono alle comunità locali di immaginare alternative attraverso cui garantire un futuro in cui il benessere delle persone e la salute dell’ambiente siano davvero al centro delle politiche di pianificazione e gestione del territorio.


Fonti:

La Stampa
WeArch

La foto di copertina presa da WeArch, è di Mattia Caprara e Flavio Pescatori.

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