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Tra elezioni e costruzione di comunità, a partire da “Quelli che spezzano – gli arbëreshë tra comunalismo e anarchia” 

de Enrico Lobina

“Quelli che spezzano – gli arbëreshë tra comunalismo e anarchia”, di Tiziana Barillà, è un libro uscito nel 2020 per Fandango Libri. 

È la storia di un paese calabrese, Spezzano, i cui abitanti si riconoscono nella minoranza albanese, una delle minoranze nazionali e linguistiche d’Italia. Una parte della famiglia di Antonio Gramsci apparteneva a questa minoranza. 

Spezzano Albanese ha conosciuto un forte ed efficace intervento della comunità anarchica locale, che ha costruito un esempio di autogoverno ed ha influenzato in modo decisivo, negli ultimi decenni, la vita singola, organizzata ed istituzionale di tutta la comunità. 

L’elemento linguistico ha un ruolo nella storia di Spezzano Albanese, che nel libro viene riportato. La lingua viene utilizzata, soprattutto negli ultimi decenni, per rinsaldare i legami comunitari interni, proprio nel momento in cui ci si apriva all’esterno. 

Il libro, però, affronta diversi profili. Gran parte della trattazione riguarda il rapporto tra elezioni ed autorganizzazione nella prospettiva di cambiamento della società. Gli approfondimenti storici, utilissimi, inquadrano una azione politica che, proprio nel portato di vita di quei luoghi e di quella comunità, hanno attinto la loro linfa vitale. 

Il libro assume una particolare rilevanza perché da anni mi pongo la domanda sul perché per molti decenni del Novecento, in comuni anche molto piccoli della Sardegna, ma anche in comuni medi, amministrazioni comunali a guida comunista, ed in alcuni casi a guida di partiti più a sinistra del PCI (per esempio Democrazia Proletaria) non siano riusciti ad inserire “elementi di socialismo” nella loro attività o, quantomeno, l’abbiano fatto in modo molto flebile. 

Con “elementi di socialismo” intendiamo quella elaborazione teorica (si tratterebbe di capire quanto è stato messo in pratica) che il PCI compì nella seconda metà degli anni settanta, quando conquistava centinaia di comuni piccoli, medi e grandi, e ragionava su come realizzare il suo compito storico (il socialismo) a partire dagli enti locali.

In altri termini, il PCI voleva (almeno a parole) che l’azione di decine, centinaia di sindaci comunisti fosse orientata al “socialismo” e non solamente al “buon governo”. 

Allo stesso modo, il mondo dell’autodeterminazione dovrebbe ragionare (magari proprio sulle pagine di S’indipendente) su quanto e come il movimento sardista e dell’autodeterminazione, quando ha vinto le elezioni a livello locale, ha realizzato cambiamenti strutturali, di fondo, alla società che gli aveva dato il voto, probabilmente proprio per realizzare riforme durature. 

Il libro di Barillà racconta il caso di Spezzano, che è assolutamente particolare, in quanto la comunità anarchica locale reinterpreta con successo la eredità di una particolare condizione storica (l’essere una minoranza nazionale), nonché il senso comune ribellistico e antiautoritario che caratterizzò i cosiddetti “briganti”. Da ultimo, Spezzano in età contemporanea conobbe un sostanziale “monocolore PCI” che ha le sue radici in una profonda volontà rivoluzionaria della cittadina, che però poi venne dallo stesso PCI sostanzialmente tradita. Di quella volontà si fece interprete, a loro modo, la comunità anarchica, soprattutto mediante l’esperienza della Federazione Municipale di Base

La Federazione Municipale di Base è una organizzazione di massa, a cui chiunque può aderire, che è riuscita a costruire un’altra società, un’altra dinamica politica, senza mai presentarsi alle elezioni, bensì mediante il controllo popolare, l’autorganizzazione, l’azione di massa. 

Nella mia personale ricerca in questi anni ho cercato di conoscere e capire altre esperienze, soprattutto pratiche. 
La prima, molto diversa da Spezzano, è quella di Marinaleda, un piccolo comune della Andalucia

La sarda Elvira Corona ne ha scritto qualche anno fa, nel suo libro “Si, se puede! Viaggio nella Andalusia della speranza oltre la crisi”. Io stesso l’ho visitata molti anni fa. 

A Marinaleda Juan Manuela Sanchez Gordillo ha realizzato una piccola realtà socialista, vincendo le elezioni ininterrottamente dalla fine della dittatura sino al 2023, quanto ha deciso di non presentarsi alle elezioni municipali, che sono state vinte da Sergio Gomez Reyes. 

A Marinaleda, con una epica lotta per la terra, l’occupazione delle terre del latifondo, la costruzione di cooperative agricole e molto altro, si è realizzata una società in cui tutti hanno una casa ed un lavoro. A Marinaleda ci sono le scuole, attività sociali e culturali, impianti sportivi e parchi. 

A Marinaleda sono passati per le elezioni, a differenza di Spezzano, ma anche là l’azione popolare diretta è stata fondamentale. È stata l’unica ragione per la quale, alla fine, il popolo di Marinaleda ed il suo Sindaco hanno vinto. 

Insieme a Marinaleda, l’esempio del Rojava, del Kurdistan, del confederalismo democratico praticato nei comuni e nelle regioni, teorizzato da Murray Bookchin e tradotto per il Kurdistan da Abdullah Ochalan, è sicuramente l’altro esempio che trovo più interessante. 

Il caso curdo viene trattato da Tiziana Barillà, insieme al Chiapas e ad Exarchia, Grecia). 

Al di là delle singole esperienze, delle specificità territoriali, e delle diverse posture ideologiche soggettive, un elemento di giudizio mi sembra pacifico: da solo il momento elettorale non serve a nulla. Se si vuole cambiare la società, in profondità, non basta vincere le elezioni. O c’è un movimento popolare continuo, che da una vittoria elettorale viene rafforzato e non spento, oppure si potranno anche rivincere le elezioni, ma la volontà di cambiamento rimarrà una mera enunciazione di principio. 
Con cambiamento intendiamo cambiamenti strutturali, di lungo periodo, profondi.  

Oggi in Sardegna qualcuno si pone questi problemi? A me pare di no.

Il caso di Soru, del suo governo tra il 2004 ed il 2008, peraltro, andrebbe studiato anche in questa ottica. Se ci fosse stato, dall’inizio, la costruzione di un movimento popolare di massa, a sostegno del processo riformatore più importante della storia della Sardegna contemporanea (al netto di evidenti contraddizioni), forse oggi staremmo ragionando di un’altra Sardegna. 

Oggi, nel 2024, con il Mediterraneo pieno di navi di guerra, con una terza guerra mondiale in corso, la quale ogni giorno rischia di diventare nucleare, con un governo Meloni che realizza gli ordini neoliberisti di Bruxelles, e nonostante questo continua ad avere un enorme consenso, complice anche una opposizione che se fosse al governo farebbe le stesse cose (M5S escluso), come impostare il ragionamento?

La prima risposta è che, in ogni caso, il problema va posto. 

Ragionare sul ruolo delle assemblee elettive, degli assessori e dei sindaci, se questi vogliono essere vettori di cambiamento, è necessario, se vogliamo dare un senso alla stessa partecipazione al voto. E la partecipazione al voto cala, banalmente, perché le persone si accorgono che nulla cambia dopo che sono andati per tanti anni a votare. 

Per una organizzazione politica sarda che vuole radicalmente modificare la società si pongono diversi profili critici da approfondire:

  • Partecipare alle elezioni può servire? Se si, come parteciparvi?
  • Quali politiche strutturali realizzare per modificare in profondo, migliorandola, la comunità che ha (eventualmente) eletto un Sindaco o un consigliere interessata/o al cambiamento?
  • Una volta eletto, come aumentare, invece che diminuire, la partecipazione popolare? 

 1Marinaleda, per sua stessa natura, è sempre in pericolo. Cfr.
2 A Cagliari Luca Pusceddu si soffermò, anni fa, sugli insegnamenti di Bookchin

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