Una sconfitta elettorale o una sconfitta politica?

de Alessandro Mongili


Le elezioni del 25 febbraio scorso sono state caratterizzate dalla mancata elezione di rappresentanti della Coalizione sarda (e di Sardigna R-esiste) in Consiglio regionale. Dieci anni fa, per un numero di voti analogo, la stessa sorte ebbero le liste di Sardegna possibile. In entrambi i casi, a cui ho partecipato come candidato (ora in Vota Sardigna, allora in Gentes), non si sono create le condizioni per partecipare alle elezioni con un’unica lista, cosa che ci avrebbe consentito di avere rappresentanti eletti e, chissà, di modificare la struttura della politica sarda. Quest’ultima, per me, è stata la vera sconfitta. Una sconfitta politica successiva al risultato elettorale. Il fatto che ancora oggi non esista una Rete, una Piattaforma, un’Intesa che porti avanti collettivamente una nostra agenda politica radicata sui problemi propri della nostra condizione. Che in realtà, tutti condividiamo, alla fin fine.

Ma questa, per ora, non è ancora una sconfitta politica. Infatti, la rude temperie della competizione elettorale ha portato alla politica reale, non immaginaria, una nuova generazione di attivisti. Che si sono confrontati con la realtà di indifferenza e di lontananza dalla politica di metà della popolazione, ma che hanno iniziato ad apprendere metodi e tecniche del lavoro elettorale, e che hanno misurato anche quelli dei competitori e degli avversari. L’esistenza di un numero irriducibile di elettori che non si piega alle logiche del voto utile o dei portatori d’acqua al bipolarismo italiano, di Sarde e Sardi senza la schiena curva, resistenti, è costante negli ultimi decenni. Ed è preziosa.

Nel quindicennio scorso la sconfitta è purtroppo stata anche politica, oltre che elettorale. Infatti, alla sorte riservata dalla legge elettorale sarda a chi non superi il 10% dei voti (una emergenza democratica, questa, altro che “il pericolo fascista”!), si è aggiunta l’incapacità di elaborarla successivamente. Si sarebbe dovuti arrivare a formare una struttura politica, in qualsiasi forma, ma democratica, in modo da eleggere rappresentanti nelle amministrazioni locali, di iniziare quel lavoro culturale necessario per allineare la coscienza politica dei sardi con la loro condizione strutturale di dipendenza e di malinconico abbandono dell’attività politica. Ho personalmente denunciato pubblicamente la mancanza di generosità, l’arroccamento settario, il familismo e il nepotismo dell’indipendentismo, comune però alle esageratamente troppe formazioni politiche sarde. Tutte: basti pensare al fatto che nessun partito politico sardo, neanche il PD o FdI, arriva ai 100.000 voti, che il partito della presidente Todde ne ha appena 53.000. Per il resto possiamo parlare di consorterie. In questa occasione, l’indipendentismo si è presentato meno frammentato del campo “a sinistra” del PD (almeno 4 liste diverse), per esempio, o del fantomatico “centro” (almeno 6).
Per questo, cinque anni fa, fondammo Assemblea Natzionale Sarda, un’associazione con una struttura interna agile e interessante, con il fine unico di contribuire a liberare i sardi dai pregiudizi che hanno interiorizzato, mentre gli amministratori indipendentisti formarono, per conto loro, la Corona de Logu, che li raduna ancora oggi. Una risposta molto interessante è arrivata due anni fa, sul piano politico, dall’esperienza partecipativa di Sardegna chiama Sardegna, sfociata poi nella lista Vota Sardigna, la seconda lista della Coalizione sarda per voti ricevuti (11.000).
In entrambi i casi, SP e CS, ci siamo trovati davanti alla difficoltà di accettare la realtà, cioè che siamo una minoranza attiva, e come minoranza attiva dobbiamo agire. Abbiamo immaginato di essere in una società democratica, in cui gli elettori scelgono su base individuale in base a proprie scelte razionali. Posto che da qualche parte questa finzione incontri la realtà umana e sociale, in Sardegna assolutamente no.

La realtà che abbiamo davanti è dura.
A parte gli ideologismi, chi fa politica in Sardegna spesso manca di lucidità. Interpreta i nostri problemi come contingenti. E invece i nostri problemi sono strutturali, cioè sono legati, da una lunga storia, alla dipendenza dall’esterno, in termini di nostro sfruttamento, e di successivo complesso di inferiorità, malinconia, depressione, e ogni altro aspetto che ci blocca nell’azione (talvolta anche sul piano individuale, vista l’urgenza disagio psichico in Sardegna). Non ha proprio senso, per chi fa politica in Sardegna, scambiare l’effetto con la causa, perché conduce a sconfitte e soprattutto a illusioni prive di senso. L’uso del voto sardo per rafforzare la coalizione detta “Campo Largo” in Italia è – peraltro – l’ultimo esempio di colonialismo e di estrattivismo, stavolta politico.
A me ha fatto subito pensare alla vecchia canzone dei fanti della Brigata Sassari:“Pro defèndere sa pàtria italiana/distruta s’est sa Sardigna intrea”.
E infatti, dai discorsi politici della nostra nuova e curriculum-dotata Presidente, la Sardegna è già sparita, a parte la retorica identitarista da quattro soldi, e che trasuda subalternità da tutti i pori.
Per capire i due poli della cultura politica sarda (quello che vede i nostri problemi come causati dalla nostra identità arretrata, e quello che indica la causa nella dipendenza e nel nostro successivo sfruttamento) si può ripartire dallo scambio Gramsci-Lussu, in cui trovarono, ad altissimi livelli, una formulazione. Nel 1926, deputati entrambi, si conobbero a Roma. Emilio Lussu era capo carismatico del Partito sardo d’azione, nato nel 1919 e partito che contenne ed eliminò il partito fascista (della prima ora), in una prima fase, dalla scena sarda. Eventi raccontati nel suo brillante Marcia su Roma e dintorni. Gramsci sosteneva che la soluzione dei problemi della Sardegna, del Meridione e delle colonie, passasse per il rovesciamento dei rapporti di subalternità rispetto alle classi dominanti del Nord, alleate con i ceti parassitari e clientelari del Sud. Questo si riverberò da un lato nella tradizione comunista, ma dall’altro, in forme non identiche, anche nel nuovo indipendentismo sardo e nei movimenti per l’autodeterminazione. Ancora oggi non si può parlare più di rivoluzione nei termini che appartengono a un’altra storia, ma di cambiamento radicale sì. Al contrario, Lussu pensava che il nostro problema fosse il ritardo, gli atavismi, insomma che il nostro problema fossimo noi. E questo ha generato l’autonomismo sardo, e l’accettazione di politiche di sviluppo eterodirette, che colmassero il nostro “ritardo”.

Lussu ha prevalso, sino almeno agli anni 2000. Non lui, finito a Roma in ruoli secondari della politica, ignorato da tutti. Ma l’idea che il problema siamo noi, e che le soluzioni siano i Piani di Rinascita, o perfino il Campo Largo e la nostra Presidente curriculum-dotata ma scortata dai boss dei partiti “nazionali”, cioè italiani. I sardi sono stati vinti da questo ragionamento, ma mai convinti del tutto.
Penso che in ognuno di noi però queste due posizioni si combattano, ma coesistano. C’è in noi qualcosa di sbagliato? Oppure è sbagliato il ruolo che ci viene imposto, come anche ai meridionali, agli stranieri, in questo paese? Da questo paese. Quante volte ci “frastimiamo”, piuttosto che osservare con lucidità le condizioni difficilissime in cui viviamo, che fanno dell’essere sardi una specie di “lavoro in più” rispetto agli altri nostri compiti?

La politica è immersa in queste idee dominanti che egemonizzano il nostro pensiero, le nostre aspettative depresse, la visione condivisa delle cose. Per cambiare la politica, cioè l’agire collettivo che, unico, può rimettere in discussione la nostra subalternità e dipendenza, e la nostra malinconica depressione, la cosa più importante da fare è rovesciare l’egemonia culturale dipendentista e depressista che domina la Sardegna. Come? Con l’organizzazione culturale, come ci ha insegnato proprio Gramsci. E con la parallela organizzazione politica che deve uscire dalle forme settarie, clientelari e familistiche, presenti nell’intero spettro politico in Sardegna.
Infatti, è inutile osservare indignati il fatto che sondaggi usati come manganelli prevedessero che con difficoltà avremmo raggiunto la soglia minima di sbarramento, pur rappresentando una parte così importante dell’elettorato. Il meccanismo terribile della profezia che si autoavvera ha funzionato, sul crinale del voto utile, proprio perché esiste una visione collettiva che assegna la causa dei nostri problemi a noi sardi, per cui la salvezza può venirci da fuori. E il fatto di aver contribuito ad abbattere (chissà, poi…) Meloni a Roma è ragione di vanto, come quella di aver fermato gli Austriaci ad Asiago. Tanto, per noi non c’è salvezza, se non nell’alcool, negli psicofarmaci, o nel triviale folklorico.


immagine:rainews24

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Un commento

  1. Qui tutti si fanno concorrenza fra loro senza cavarne un ragno dal buco.

    Per cominciare, o se preferite proseguire, ma sempre mettendo ordine là dove impera il caos…

    Se ai nomi facessimo corrispondere la funzione.

    L’ “Assemblea Natzionale Sarda” dovrebbe essere un forum riunente amministratori indipendentisti su questioni politico-amministrative;

    la “Corona de Logu” un ente votato agli alti studi Statutari comparati passati e presenti con futuribili prospettazioni;

    “Sardegna chiama Sardegna” un ente votato alla sensibilizzazione su temi di comune interesse attraverso il coinvolgimento della società civile.

    Gli Enti citati dovrebbero attuare forme di rappresentanza “incrociata” in cui i rappresentanti legali (o loro delegati) degli stessi, abbiano cogiuntamente un ruolo di rappresentanza all’interno delle rispettive entità statutarie.

    Ps.
    La politica è un incontro di box senza arbitri non un walzer viennese.

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