Il popolo sardo non sta subendo un “genocidio”

In generale, in che termini si può discutere la legittimità dell’uso di un termine ritenuto, nel senso comune e dominante, non applicabile alla Sardegna? Penso che per valutare l’opportunità di usarlo si debba tenere conto di due piani: l’analisi e la finalità politica. Il primo riguarda l’utilità di un termine per spiegare e per capire il nostro determinato contesto; la seconda riguarda l’utilità rispetto a un determinato fine politico che ci si pone.
Più specificamente, le domande da porsi sull’uso di un termine sono due, molto legate: è utile per spiegare/capire la questione sarda, la condizione delle persone sarde? L’uso di questo termine aiuta a creare maggiore consapevolezza nei sardi e maggiore solidarietà e comprensione nei confronti del popolo palestinese? Se il termine è “genocidio” – fosse pure “bianco”, cioè inteso come compiuto senza l’uso della violenza fisica – la risposta, per me, è “No”.
Innanzitutto, sul piano dell’analisi, il “genocidio” del popolo sardo, semplicemente, non c’è. Perché non esiste un piano volto a distruggere il popolo sardo. La realizzazione di un “genocidio” non serve perché la Sardegna possa essere sfruttata. A prova di ciò, basti pensare che la popolazione sarda dal 1847 almeno sino al 1991 è sempre cresciuta, eppure le dinamiche di colonialismo interno hanno potuto agire lo stesso molto bene.
Se ci sono diversi tipi di genocidio, affinché siano riconoscibili, identificabili come tale è necessario un nesso comune e questo è l’esistenza di “a coordinated plan aimed at destruction of the essential foundations of the life of national groups”” (Lemkin), “acts committed with intent to destroy, in whole or in part, a national, ethnical, racial or religious group” (Convenzione ONU per la Prevenzione e la Repressione del Delitto di Genocidio). Mi limito a citare i riferimenti usati da Cristiano Sabino a giustificazione dell’uso del termine, cosciente del fatto che sarebbe necessario andare a fondo nello studio della letteratura su questo concetto e la sua applicabilità. Del resto, se perfino la sua applicazione alla Palestina odierna o all’Holodomor ucraino è oggetto di dibattito tra gli esperti, possiamo ben comprendere quanto applicarlo alla Sardegna sia un’enormità.
Il genocidio non è una mera diminuzione della popolazione, per quanto grave, fosse pure come risultato non intenzionale di determinate politiche, ma è la pianificazione della distruzione di un popolo – in tutto o in parte – con l’intento specifico di farlo. Cristiano Sabino a dimostrazione dell’esistenza di questo piano cita l’ultimo Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne, in particolare nel passaggio in cui si afferma l’impossibilità di arrestare il processo e di accompagnare tali aree al declino. Il passaggio citato, al massimo, mostra nero su bianco l’orientamento politico di fatto dominante nel gestire il problema e possiamo trarre varie conclusioni su di esso e sui rapporti di forza fra territori. Pensare che ci informi dell’esistenza di una pianificazione dello sterminio del popolo sardo è un’enormità. Nello stesso documento allegato all’articolo si può vedere che le aree interne oggetto del Piano sono diffuse in tutto lo Stato, sebbene più diffuse al Sud sono presenti anche nel Nord Italia in una proporzione rilevante. Se il punto è lo svuotamento di ampie aree territoriali più diffuse e in condizioni più gravi in Sardegna che altrove, in che modo il concetto di genocidio ci aiuta a capire il problema e a far fronte a esso?
La denatalità, lo spopolamento, il declino e le difficili condizioni di vita nelle aree interne sarde, l’emigrazione, il calo demografico nell’isola, la situazione demografica complessiva palesemente drammatica non sono il risultato di un piano volto ad annientare i sardi. Se Stato e capitale esterno palesemente possono trarre vantaggio dalla situazione, come da ogni elemento che rafforza il sottosviluppo economico – dunque i vari governi centrali o non hanno alcun incentivo o interesse ad arrestare tali problemi – per farlo non hanno bisogno di avere un piano per annientare la popolazione. Oltre a ciò, è noto che si tratti di un fenomeno molto più ampio e diffuso oltre la nostra isola, malgrado le conseguenze non siano uguali ovunque. Una qualsiasi mappa sullo spopolamento delle aree rurali in Europa mostra facilmente che non c’è una chiara relazione con l’essere nazione senza Stato o colonia interna. In tutta Europa si è alle prese con un calo delle nascite, un aumento della proporzione più anziana; un calo di popolazione delle aree rurali verso le città e le coste che va avanti da decenni. Il caso più famoso è quello della Spagna, tanto che si parla diffusamente di “Spagna vuota” – termine reso popolare anche dal libro di Sergio Del Molino – in cui sono anche sorti dei movimenti politici territoriali a difesa di una specifica area interna, capaci di ottenere rappresentanza istituzionale a livello statale (Teruel Existe) o regionale (Democracia Ourensana in Galizia).
Un’analisi comparata con quanto sta avvenendo in Europa è assolutamente necessaria e non può che essere che preliminare per capire non solo in che termini il nostro caso sia più grave – e lo è – rispetto ad altri contesti, il peso che si può attribuire al ruolo della nostra storia di colonialismo interno, alla nostra subalternità, ma anche quali sono gli aspetti per cui è possibile individuare responsabilità politiche precise localizzate in Sardegna e altrove, nelle politiche statali ed europee.
Ad esempio, un fenomeno come quello del drenaggio di cervelli rivela in maniera evidente quanto pesi la nostra condizione rispetto al Nord Italia e a governi centrali che, oltre a non avere alcun incentivo a risolvere il problema, incoraggiano di fatto l’emigrazione qualificata da Sud a Nord e favoriscono gli atenei del Nord Italia. La questione in una prospettiva storico-economica è capire come un fatto differenziale sardo, la scarsa demografia, sia stata, nei secoli, funzionale agli interessi di attori esterni. Abbiamo bisogno del concetto di “genocidio” per comprendere meglio tutto ciò? No.
Per quanto riguarda la questione dell’identità culturale, si potrebbe discutere di usare un altro termine: etnocidio. Penso che si potrebbe usare per descrivere quanto avvenuto con la modernizzazione passiva. L’aspetto più evidente e spia di altri aspetti legati all’appartenenza “etnoculturale” – tralascio per comodità ogni problematica sull’uso del concetto di etnia – è quello linguistico. Si è fermata la trasmissione intergenerazionale a causa dello stigma sociale, si è affermata un’italianizzazione con tutte le armi del nazionalismo statale, dall’educazione ai mezzi di comunicazione. Tutto ciò rientra nei rapporti tra una cultura dominante e una dominata, dove quest’ultima, quella sarda, è stata classificata come inferiore. Tuttavia, la questione oggi si pone in termini diversi rispetto al passato. In un certo senso è cambiata in meglio: oggi, grazie alle conquiste ottenute dal movimento linguistico, come il riconoscimento ufficiale di minoranza linguistica e le leggi a suo regolamento, esiste un ampio margine perché la volontà politica dei sardi possa agire per compiere i necessari passi in avanti per una piena emancipazione culturale. Oggi, per quanto la stigmatizzazione persista e non si possano cancellare rapidamente gli effetti della storia passata, l’identità sarda viene vista, dai sardi, in modo fondamentalmente positivo e pochi politici e intellettuali in pubblico direbbero mai le cose che venivano dette apertamente contro la lingua sarda. Mi preoccupa più l’abuso e la strumentalizzazione che la distruzione della cosiddetta identità culturale. La contemporaneità dimostra che più che una distruzione dell’identità sarda c’è un suo utilizzo con fini non emancipativi, da parte del potere politico regionale – come forma di legittimazione – e del capitale turistico come area di estrazione a suo profitto, che purtroppo ha campo libero in assenza di una “politicizzazione dell’identità”, come nel caso ben noto di nazionalità interne capaci di organizzarsi e agire nel conflitto centro-periferia a difesa dei propri interessi. In questo contesto, una difesa e valorizzazione dell’identità sarda può non essere conflittuale con lo Stato italiano, anche perché relega in tal modo la questione sarda a una mera questione di riconoscimento culturale anziché di libertà dallo sfruttamento. Forse c’è troppa identità ma ben poca coscienza. Ciò che potevano pensare Simon Mossa e i neosardisti nel loro contesto storico – utilizzando il concetto di “genocidio” per descrivere l’assimilazione culturale e la “catastrofe antropologica” cui stavano assistendo – oggi non è più capace di rappresentare quanto sta avvenendo su questo fronte. Anche in questo caso, il termine “genocidio” non serve, non aiuta a capire. L’acculturazione di fatto forzata – in quanto avvenuta entro un’asimmetria di potere – non si spiega con l’esistenza di un piano specifico volto a distruggere il popolo sardo ma con le dinamiche di costruzione dello Stato-Nazione cui la Sardegna è integrata dal 1847. Inoltre, oggi – come mostrato dalle difficoltà incontrate dalle politiche a supporto del basco e del catalano – data la globalizzazione e la diffusione di nuovi media molto più pervasivi, il problema non è più relegabile al solo potere nella scuola.
Ora vediamo il piano politico. Io non sono contrario all’uso di figure retoriche, analogie, paragoni, metafore, provocazioni e altro per porre in relazione i sardi con popolazioni colonizzate del Sud globale o a comunità razzializzate. Penso possa essere utile per creare maggiore consapevolezza sulla nostra condizione che non è spiegata dalla nostra cittadinanza o appartenenza a uno Stato dell’Europa Occidentale. Siamo in una condizione al limite tra il Nord e il Sud globale, entro una rete di relazioni che ci vede subalterni rispetto a centri del potere economico e politico del Nord ma sicuramente privilegiati rispetto a chi ha subito il colonialismo classico o alle comunità di immigrati razzializzati. La nostra posizione al margine deve essere vista come una possibilità per scegliere di schierare la nostra causa con i popoli oppressi, per smettere di identificarci con uno Stato fra i responsabili dell’imperialismo occidentale, in favore di una decolonizzazione della Sardegna entro una decolonizzazione dell’Europa. Cercare di creare una maggiore identificazione con altri popoli che hanno subito e subiscono una forma di colonialismo differente e più grave nelle conseguenze può essere utile a rafforzare la solidarietà nei loro confronti, individuando nessi ed elementi in comune, costruendo potenziali alleanze. Tuttavia, occorre sempre andare in punta di piedi tenendo conto sia del contesto in cui ci troviamo, come possono essere recepite certe espressioni, sia delle esigenze del popolo diverso a cui ci rapportiamo. Mi pare evidente che l’uso del termine “genocidio” sia un’iperbole controproducente e inopportuna: provoca perplessità e respingimento persino verso le persone sarde che non sono ostili alla causa dell’autodeterminazione, come le reazioni all’articolo di Sabino hanno mostrato, rischiando di togliere credibilità e forza ad analisi critiche dello stesso orientamento decoloniale; può apparire come un’irrispettosa banalizzazione con invasione del campo di un popolo a cui, in questo momento, tutto il mondo rivolge lo sguardo proprio in quanto sta resistendo contro un genocidio messo in atto non retoricamente.
Legare cause differenti in nome di un obiettivo politico non può e non deve significare la sovrapposizione di una causa a un’altra. La lotta contro l’occupazione militare in Sardegna è un esempio di come due cause di autodeterminazione, quella sarda e quella palestinese, possano essere affiancate senza sovrapposizioni, in modo realmente internazionalista, creando consapevolezza nei sardi sulla propria condizione, costruendo concreta solidarietà mostrando come questa forma di oppressione nei nostri confronti sia funzionale anche all’oppressione della Palestina e dunque che la nostra liberazione dall’Italia e dalla NATO può infliggere un colpo al complesso militare che supporta il sionismo.
In sintesi: il termine “genocidio” non aiuta a comprendere la questione sarda, non è necessario per spiegare la nostra condizione specifica e la nostra storia di colonialismo interno e rischia di provocare effetti contrari rispetto alle proprie finalità politiche di creazione di coscienza nei sardi e di solidarietà internazionalista.
Immagine: arbataxpark.com















