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Patrimonio archeologico e speculazione energetica. Come le dinamiche di potere si legano le une alle altre

È dei giorni scorsi la notizia dell’approvazione del progetto per la realizzazione di impianto fotovoltaico a 250 mt dalla necropoli preistorica di Monte Siseri (Putifigari, SS).
Lo ha riportato Ivan Monni su S’Indipendente. La notizia ha suscitato, comprensibilmente un’ondata di sdegno.

Quanto sta accadendo è grave? Sì. C’è da stupirsene? Purtroppo, no.
Era solo una questione di tempo: oltre a indignarci, però, è necessario mettere in relazione più fenomeni, perché non basta parlare del conflitto tra tutela del patrimonio archeologico e speculazione energetica. Serve inserire questo discorso nell’analisi della relazione diseguale tra Italia e Sardegna, nell’ambito del quale aspettarsi che il patrimonio archeologico sardo sia trattato come si confà a una parte importante di quello dello stato, è un’illusione.

Non c’è Unesco che tenga: la Sardegna è un bacino di estrazione per l’entità statale di cui fa parte, i suoi organi e il capitale privato. Che si avvantaggiano delle risorse, del prestigio e del portato simbolico della ricchezza ambientale, archeologica e culturale in genere dell’Isola, per anteporre ai diritti del popolo sardo, interessi esterni, con sede nel continente.

Non è lesa maestà dirlo.
E no, non è un discorso vittimista perché chiama in causa anche processi interni di autoaffermazione identitaria.

La trasformazione delle tracce del passato in “patrimonio” si inserisce nel processo di costituzione degli Stati-Nazione e della costruzione dell’identità nazionale. Le due cose, in Sardegna, non coincidono necessariamente.
Tant’è che il discorso sull’antico è, da noi, usato a salvaguardia della cultura autoctona, e quindi dell’identità, attraverso la ricerca nel passato delle ragioni culturali della fisionomia identitaria sarda. Per darle fondamento scientifico.
Farsi guidare da tali presupposti, nelle scelte del presente, porta a fallacie di ragionamento, alla feticizzazione dell’identità, ridotta a uno stereotipo da replicare, e a una coscienza di sé più retorica che sostanziale.

Pensiamo alla relazione che, come persone sarde, abbiamo con i segni del passato: per cosa ci interessano? Cosa ci comunicano? Li conosciamo davvero o ci accontentiamo di una narrazione che sconfina nella mitizzazione? Ci facciamo domande sul carattere coloniale (e/o essenzialista) dell’archeologia?
Il paesaggio (a maggior ragione quello archeologico) è frutto della relazione tra persone e ambiente: la conoscenza e la fruizione, possono diventare strumenti di potere.
E noi dobbiamo avere la capacità di autocollocarci in questo sistema. Non possiamo limitarci a indignarci quando il nostro patrimonio viene minacciato o sfregiato.

Riappropriarsi della propria storia non basta. Dobbiamo avere chiaro come le dinamiche di potere si concatenano le une alle altre e avere il coraggio di discuterle fino in fondo.

Nel luglio scorso accoglievamo con entusiasmo la notizia dell’inserimento di una ventina di Domus de Janas nel patrimonio Unesco. Questo passaggio è stato definito dalla presidente della Regione Alessandra Todde, “un traguardo storico che apre nuove opportunità”, quindi portatore di ricchezza e potenziale sviluppo, trasversalmente considerato utile. Bene, oggi forse è il caso di chiederselo: ma utile a chi?

La legislazione italiana considera quello sardo patrimonio nazionale. L’intervento dell’UNESCO sancisce questo fatto a livello internazionale ed extra-statale.
Che posto ha il popolo sardo in questa concatenazione di interessi? Ce l’ha (o vuole avercela) una voce in capitolo nei processi di appropriazione, espropriazione, turistizzazione, controllo e gestione?

Nei giorni scorsi il sindaco di Cagliari, Massimo Zedda, riprendendo uno dei punti della sua campagna elettorale per le elezioni regionali, ha dichiarato in un’intervista andata in onda su Tele Costa Smeralda: “dobbiamo imparare a presentare Cagliari insieme alla Sardegna, la Sardegna insieme a tante realtà, dall’interno alla costa e collegarci al Paese, all’Italia.

Perché un errore fatto nel passato è stato quello di presentarci solo come Sardegna. Tenendo conto che nell’ambito sempre dei dati, delle statistiche a livello mondiale, i viaggiatori, sia coloro che possono permettersi di viaggiare, sia coloro che vorrebbero viaggiare, l’85% esprime il desiderio di visitare l’Italia, con una serie di desideri di viaggio che partono dalla cultura, dal cibo, dalle tradizioni, dai monumenti, dall’archeologia, dall’ambiente.

Bene, alla luce dell’approvazione di “un progetto per una centrale fotovoltaica a terra da 72,64 MWp, che si estenderà su 86 ettari” a 250 metri da una delle Domus de Janas patrimonio UNESCO, che la Sardegna si proponga come parte dell’Italia, che si dica che può offrire le stesse cose, che il suo complesso di beni culturali, materiali e immateriali, sia integrato in tutto e per tutto nel patrimonio culturale italiano, a chi serve? Chi ne trae beneficio?

Veniamo all’analisi del contesto.

La necropoli di Monte Siseri, territorio di Putifigari (SS), rappresenta uno dei siti funerari sotterranei più importanti e interessanti della Sardegna.

La tomba n.1, chiamata “S’incantu”, è la più vasta e importante della necropoli.
Ha una pianta articolata in un dromos (corridoio), un padiglione, una cella principale ed altre secondarie.
La principale caratteristica di questa tomba è la decorazione: rilievi a fascia dipinti di rosso, la rappresentazione di coperture sommitali, nella fattispecie tetti a doppio spiovente; motivi a forma di corna. Un focolare rituale.

La stratigrafia indica che la fase più antica di frequentazione risale all’età del Rame.

Il complesso è inserito in un contesto paesaggistico formato da un fondo valle, tra colline e affioramenti rocciosi di origine vulcanica, immerso nella macchia mediterranea, nei suoi profumi, nel silenzio.

Ai luoghi è ancorato il senso di appartenenza individuale, basato, tra le altre cose, sul legame affettivo che instauriamo con uno o più contesti, su una familiarità personale e profonda con ciò che quel luogo rappresenta (sul piano del concreto e dell’intangibile).
Non si può separare un monumento dal contesto ambientale e dalla comunità a cui appartiene. Ogni elemento che delinea il paesaggio definisce il rapporto tra persone e ambiente. Un rapporto che è anche sensoriale e non solamente estetico.

Le alterazioni del contesto in cui ci si identifica producono conseguenze, dunque, che hanno un impatto profondo.

La gestione del territorio spesso richiede trasformazioni significative, specie quando si parla di transizione energetica, e fa nascere conflitti e attriti perché, per quanto vengano narrati come tali, i concetti di crescita, sviluppo e sostenibilità, non sono universali.
I soggetti che detengono il potere narrativo ed economico (istituzioni e privati) promuovono iniziative di sviluppo secondo un modello che prevede di far crescere costantemente la curva della crescita conciliandola con la sostenibilità. Per persuadere la popolazione il fronte industriale utilizza la retorica delle opportunità e del contributo alla transizione ecologica, ma anche simboli ed elementi identitari.

E quando il potere coloniale non riesce a integrarli nel processo estrattivista, non esita a calpestarli.

La transizione energetica non può, da sola, produrre una società giusta. 

Stiamo infatti assistendo alla reiterazione delle dinamiche di sopruso e all’accrescimento delle disuguaglianze, radicate nel sistema capitalista urbano e industriale. Per rendere la transizione redditizia (di nuovo per chi?), la si vuole riprodurre su larga scala, ignorando il volere delle comunità locali.

Scrive Stefania Barca in “Forze di riproduzione: Per una ecologia politica femminista”: il padrone è stato a conoscenza del pericolo, ma non ha saputo elaborare risposte efficaci. Ha semplicemente continuato a percorrere il proprio percorso storico, difendendosi con ferocia sempre maggiore contro chi gli resisteva. La resistenza è la nostra unica speranza.


Immagine sardegnaturismo.it:

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