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Dimmi che stai decolonizzando senza dirmelo

C’è chi fa teoria decoloniale a colpi di paper e chi invece la pratica raccontando la vita, la strada, il palco, i bar, le periferie e le infinite sfumature di un’isola che non smette mai di farsi raccontare. Michele Atzori – per i più, Dottor Drer – appartiene alla seconda scuola. Giovedì 30 ottobre, alla sede di Sa Domo de Totus di Sassari, ha presentato Ponitì a una party, ma in realtà ha fatto molto di più: ha trasformato la presentazione in un piccolo rito collettivo di riappropriazione culturale, con la complicità della brillante scrittrice e giornalista Daniela Piras.

L’incontro era annunciato come una chiacchierata su un libro, ma è finito come una lectio magistralis di autodeterminazione travestita da stand-up comedy, con tanto di filosofia della strada e dialettica gramsciana applicata al quotidiano. Atzori non “spiega” la decolonizzazione: la incarna. La fa con la lingua, con le storie, con la capacità di ridere di sé e degli stereotipi che ci incollano addosso da secoli e che accompagnano e giustificano la nostra subalternità e il sardicidio che si sta compiendo tra culle vuote, terre rubate, assimilazione culturale e turistificazione totale.

C’è la Sardegna che si ribella al ruolo di cartolina e di colonia; quella che rivendica la propria voce anche quando balbetta, anche quando inciampa in un “ponitì a una party” che diventa, appunto, la metafora di tutto: un popolo che si arrangia in un mondo che parla un’altra lingua, ma non si rassegna a essere raccontato sempre dagli altri e per gli altri.

Atzori butta dentro il racconto le piazze, le strade, i palchi dei suoi concerti, le lotte e i personaggi da Le mille e una notte che hanno incrociato il suo lungo cammino, compreso quel Renato Soru che, da presidente della Regione, Atzori andò a invitare ad una festa semiclandestina sulla scalinata di Bonaria suonandogli il campanello e lui rispose “mi dispiace, sono già in pigiama”. 

L’aspetto che convince di più è che parla della condizione di subalternità dei sardi come di una febbre che bisogna imparare a riconoscere nei sintomi: il disprezzo per se stessi, la fuga continua, la convinzione che “altrove” sia sempre meglio, la ricchezza che porta il turista, il “da soli muoriamo di fame”. Ma lo fa con la leggerezza di chi sa che il primo passo verso la liberazione è imparare a ridere del padrone, e di noi stessi quando ci facciamo suoi complici.

In questo senso Ponitì a una party non è solo un romanzo, è un esercizio di libertà linguistica e culturale. È un libro che prende in giro il colonialismo interno e l’autoesotismo, ma lo fa con amore, non con cinismo. Un libro che, come Atzori stesso, non ti giudica se non sai ancora decolonizzarti: ti invita semplicemente a provarci.

Alla fine dell’incontro, tra risate e riflessioni, restava quella sensazione rara di aver partecipato non a una presentazione, ma a un momento di crescita collettiva. Una di quelle serate in cui capisci che la cultura può davvero essere un’arma — e che certe battaglie, come quella per restituire dignità alla Sardegna, si combattono anche con una buona battuta, una storia ben raccontata e una lingua che non chiede il permesso per esistere.

E Atzori ci ricorda anche una militanza piena di umanità, dove ci si poteva anche tirare addosso qualcosa per una divergenza ideologica, ma poi si andava a bere insieme e ci si tirava una bella sbronza. Continuando a litigare di politica, ovviamente.


Immagine: Cristiano Sabino

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