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Catalogna

Catalogna. Maggioranza indipendentista, cammino tortuoso

de Marco Santopadre

Il cosiddetto “effetto Illa” c’è stato, e il Partito Socialista Catalano è arrivato in testa alle elezioni per il rinnovo del Parlament, passando dal 13.9% del 2017 al 23%. Un balzo che permette all’ex ministro della Sanità del governo centrale, dimessosi per poter trascinare la sezione catalana del partito di Sanchez sfruttando la notorietà concessagli dalla pandemia, di ottenere 33 seggi.

Ma la scelta dei tribunali spagnoli di facilitare la strategia del PSOE, imponendo che le elezioni si svolgessero il 14 febbraio (prima quindi che “l’effetto Illa” potesse svanire), in piena emergenza sanitaria, e non a maggio come chiedevano quasi tutte le forze politiche catalane, ha danneggiato le altre forze dello schieramento unionista senza intaccare il consenso al blocco indipendentista.
Sicuramente, la scelta di votare in una situazione di emergenza sanitaria e quindi di relativo pericolo ha causato un crollo della partecipazione (vedremo nei prossimi giorni se le stringenti misure di sicurezza adottate saranno state efficaci, oppure se si verificherà il boom di contagi avvenuto in altri contesti dove si è votato). Alle urne sono andati infatti solo il 53.6% degli aventi diritto, contro il 79,1% del 2017. Oltre al timore di contagiarsi, ha sicuramente pesato una certa smobilitazione e disillusione sociale anche se in una situazione come quella attuale è davvero difficile quantificarla.

Ma, nonostante l’altissima astensione e il primato socialista, il blocco indipendentista conferma la sua consistenza e anzi la rafforza leggermente. Se nel precedente Parlament le forze favorevoli all’autodeterminazione potevano contare su 70 seggi, ora ne hanno ottenuti 74, grazie alla CUP (sinistra indipendentista, anticapitalista e femminista) che passa da 4 a 9 rappresentanti. La sfida per la leadership del fronte indipendentista la vince, dopo anni di tentativi andati a vuoto, Esquerra Republicana, che supera di un seggio (33 a 32) Junts per Catalunya, il partito/coalizione formato e guidato dall’ex president Carles Puigdemont, in esilio a Waterloo ormai dalla fine del 2017 per sfuggire al mandato di arresto spiccato nei suoi confronti. Se Junts x Cat non avesse nel frattempo perso per strada la costola moderata, liberista e nazionalista (ma non indipendentista) del PdeCat, il tanto agognato sorpasso dei socialdemocratici di Pere Aragones e Oriol Junqueras non sarebbe avvenuto, e i due partiti che formavano il precedente esecutivo di Barcellona avrebbero potuto contare da soli sulla maggioranza assoluta (68 seggi). Ma la formazione che si richiama direttamente ai nazionalisti/regionalisti di Convergència Democràtica de Catalunya, guidata dai nostalgici dell’era Pujol e dalla cerchia che fu dell’ex president Artur Mas, messo ai margini dall’accelerazione indipendentista del decennio scorso, ha ottenuto solo il 2,7% dei voti e nessun seggio.

Sul fronte opposto, dicevamo, possono cantare vittoria i socialisti (pur penalizzati dal meccanismo di distribuzione dei seggi su base provinciale) ma non lo schieramento unionista nel suo complesso. Infatti, il boom del PSC avviene a spese di Ciutadans, la formazione di “centrodestra” che nel 2017 aveva ampiamente egemonizzato il voto antisecessionista giungendo inaspettatamente in testa. Stavolta C’s crolla da 36 a soli 6 seggi, confermando una tendenza al ridimensionamento già verificatasi in alcuni appuntamenti elettorali statali o regionali degli ultimi anni. La formazione nacque nel 2005 in Catalogna e poi fu adottata dalle oligarchie a livello statale per avere a disposizione una sorta di “Podemos di destra”, utile a catturare i voti in fuga dai due pilastri del “regime del ’78” (PP PSOE) dissanguati dalle proteste suscitate dall’austerity e dalla corruzione. Ma recentemente il sistema politico nato dalla transizione pilotata dal regime franchista alla monarchia parlamentare sembra essersi di nuovo rafforzato e stabilizzato, e l’offerta politica di Arrimadas & Company deve aver perso mordente.

Al netto del calo drastico dei votanti, che rende difficile quantificare i flussi da una formazione ad un’altra, è evidente che una quantità rilevante di voti è passata da C’s ai socialisti. Apparentemente una buona notizia, che indicherebbe un riposizionamento moderato e di “centrosinistra” di parte dell’elettorato che nel 2017 aveva invece premiato il discorso sciovinista e ultranazionalista dei cosiddetti liberali. Ma il travaso indica anche che per una fetta importante di voto unionista le differenze tra due formazioni – il PSC e C’s – che dovrebbero essere percepite come assai differenti per identità ideologica e programmi non è poi così marcata. E infatti se C’s ha perso molti consensi “a sinistra”, a favore della formazione di Illa e Iceta, ne ha ceduti tanti ai neofranchisti di Vox che si affermano come primo partito della destra con 11 seggi e il 7,7%. Schiantando il Partito Popolare, che retrocede da 4 a 3 rappresentanti, impossibilitato di nuovo a formare un proprio gruppo autonomo al Parlament.

La radicalizzazione dello scenario politico catalano – e probabilmente la scelta di governare a Madrid e a Barcellona insieme ai socialisti – non ha premiato En Comù Podem; la costola catalana di Podemos guidata da Ada Colau, infatti, riconferma gli 8 seggi del 2017 ma passa dal 7,46 al 6,86%.
Nel 2017 il governo Rajoy sciolse il Parlament – colpevole di avere una maggioranza che sostenne il referendum per l’autodeterminazione del primo ottobre – e impose nuove elezioni, senza però riuscire a ribaltare i rapporti di forza. Anche stavolta, seppure in condizioni molto diverse, la decisione della magistratura di inabilitare il President Quim Torra, colpevole di aver esposto uno striscione per la liberazione dei prigionieri politici durante una tornata elettorale, e di condurre a nuove elezioni si è dimostrato controproducente. L’ennesimo intervento della magistratura spagnola sulle istituzioni catalane ha rafforzato il blocco indipendentista e ridotto la forza dei cosiddetti costituzionalisti, che passano da 57 a 53 seggi (più gli 8 dei federalisti di En Comù).

Il problema sorge ora, al momento di formare il nuovo governo. Se almeno in teoria Junts per Catalunya conferma la strategia dello scontro con le istituzioni centrali e della spallata unilaterale (anche se non è chiaro attraverso quali meccanismi concreti), Esquerra ha da tempo optato per la via del dialogo con il governo centrale e preme per un allargamento della maggioranza ad altre formazioni. La CUP, pur uscita rafforzata dalle elezioni anche grazie alla candidatura di Dolors Sabater, ex sindaca di Badalona ed esponente di quella sinistra radicale che per un certo periodo ha coabitato con Podemos, sconta una crisi di prospettiva e potrebbe essere ora costretta a scegliere se entrare in un nuovo esecutivo insieme a ERC JxC, se sostenerlo dall’esterno come avvenuto nella scorsa legislatura oppure tentare, una volta rientrata la pandemia, di riattivare la mobilitazione e l’autorganizzazione sociale che tanto hanno contribuito negli scorsi anni a condizionare le principali formazioni catalaniste.

Esquerra, vinta la sfida con Junts, potrebbe rivendicare la guida di un eventuale governo indipendentista, e un Pere Aragonès nel ruolo di President potrebbe rappresentare un serio problema tanto per Puigdemont quanto per gli anticapitalisti. L’estensore della contestata legge sulla esternalizzazione/privatizzazione dei servizi pubblici potrebbe infatti annacquare ulteriormente il profilo di rottura della coalizione, continuando a fornire una sponda ai socialisti e a Podemos. Sempre che Esquerra non scelga di rompere il patto e tentare la carta del “tripartit” con PSC ed En Comù Podem. Questi ultimi implorano da tempo la costituzione di un “governo di sinistra” che faccia uscire la Catalogna dal clima di “contrapposizione” e di “odio” e riporti la dialettica politica all’interno dell’asse destra/sinistra mandando in soffitta le spinte trasversali all’autodeterminazione.

Senza una mobilitazione e una pressione della piazza, dei territori, dei movimenti sociali e sindacali, il rischio è che le schermaglie e i tatticismi delle formazioni indipendentiste contribuiscano a disperdere un enorme patrimonio di lotta, di coscienza e di determinazione che permise nel 2017 lo svolgimento del referendum per l’autodeterminazione, prima che un vero e proprio tsunami repressivo mostrasse quanto poco, anche nei paesi democratici, contino la partecipazione e i meccanismi di consenso.

Dal nuovo Parlament la società catalana si aspetta passi avanti concreti verso la creazione di quella Repubblica Catalana che nell’ottobre di quattro anni fa sembrò per qualche giorno a portata di mano; si aspetta la liberazione dei prigionieri politici, il rientro degli esiliati e la fine della persecuzione giudiziaria nei confronti di circa 3000 persone; pretende che la volontà popolare venga rispettata dai tribunali e dalle istituzioni locali e statali. Spera, soprattutto, che la pandemia non lasci dietro di sé quella devastazione economica, sociale e dei diritti che in molti cominciano ad intravedere dietro le briciole del “welfare d’emergenza” approntato per l’occasione dal governo Sanchez e dalle istituzioni europee.

Foto de presentada: Egor Myznik on Unsplash

15 feb 2021

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