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Francesco Cillocco, notaio, rivoluzionario e martire della Sarda Rivoluzione

Illustrare la figura di Francesco Cillocco, martire della Sarda Rivoluzione spesso mal noto, a cominciare dal cognome la cui trascrizione nei documenti esiste sotto le molteplici forme di «Cilloco», «Cilocco», «Ciloco», «Ziloco» o «Cillocco» è giusto e doveroso.

Francesco nacque a Cagliari il 20 dicembre 1769, da Michele Cillocco, parrucchiere, e Giovanna Pisano.
Il 30 gennaio 1796 contrasse matrimonio con Giuseppa Liqueri, figlia di Gioachino e Anna Porcu.

Come Gio Maria Angioy, pur avendo combattuto contro i francesi nel 1793, fu un repubblicano convinto della necessità di abbattere il feudalesimo, oltre che notaio della Reale Udienza ed eccellente oratore.

Amico di Angioy, ne frequentò la casa condividendone i pasti, ma dal punto di vista del comportamento, più che ad Angioy, Francesco Cillocco si assimila al sacerdote Francesco Sanna Corda, mostrandosi molto meno moderato dell’Alternos e uomo d’azione impegnato sul campo.

Secondo l’autore della Storia de’ torbidi, Francesco Cillocco « con altri di lui compagni tutti aderenti, ed altrettanto allievi del Giudice Don Gio Maria Angioi s’introdussero armati  in casa di esso Pitzolo per assassinarlo, senza però, che sia loro riuscito di ritrovarlo, come accadde tante altre volte che cercarono d’ucciderlo». 

Il nome del Cillocco figura inoltre in una lista dei capi dei disordini degli anni precedenti, trovata a casa del marchese della Planargia, e letta pubblicamente il 22 luglio 1795 e in un altro elenco di soggetti pericolosi da tenere sotto stretta sorveglianza.

Nel novembre del 1795, Cillocco venne inviato nel Capo di Sopra dell’isola, allo scopo di pubblicare il pregone viceregio del 23 ottobre che contrastava la circolare del governatore di Sassari che invece ordinava di sospendere ogni ordine in provenienza da Cagliari.

Nell’autunno del 1795, secondo l’autore della Storia de’ torbidi e Giuseppe Manno, si erano riuniti a Cagliari i capi cagliaritani della congiura, gli avvocati sassaresi Gioachino Mundula e Gavino Fadda, il teologo Sechi Bologna e il medico Gaspare Sini, per discutere della situazione di Sassari in mano ai feudatari con il consenso dell’arcivescovo e del governatore. 

Il gruppo era stato ospitato nella vigna di Vincenzo Cabras, che aveva ricevuto anche Efisio Luigi Pintor, Matteo Luigi Simon, Vincenzo Sulis, Ambrogio Xiacca (Sciacca) ed altri.

In tale riunione, i patrioti si erano accordati sulle azioni a venire : contattare e mobilitare i villaggi del Logudoro, progettare l’assedio di Cagliari, arrestare i reazionari e tradurli a Cagliari.
Il viceré, informato dei progetti, scrisse alla Reale Governazione.

Don Antonio Fois inviò ad Alghero, per scongiurare ogni pericolo, Gioachino Mundula, incaricandolo di avvertire Cillocco che si era ammalato in quella città, « d’astenersi di recarsi a questa volta, per la pubblicazione del consaputo pregone, a fine d’evitare, attese le circostanze, qualunque sinistro avvenimento».

Nel frattempo, Francesco Cillocco, insieme all’avvocato sassarese Mundula e ai parroci Sechi Bologna, Aragonez, Sanna Corda e Muroni, conduceva la propria crociata antifeudale mobilitando i villici, la piccola nobiltà e il basso clero, tutti oppressi dal regime feudale. I primi avevano pure molto sofferto per gli esigui raccolti degli anni 1793-1795 infiammati dalla Rivoluzione. Anche le altre due classi lamentavano l’inesistenza di un controllo da parte del governo sabaudo sui feudatari.

A Thiesi, il notaio Cillocco esortò la popolazione a svegliarsi e questa, attaccò il palazzo baronale.

Il governatore di Sassari Santuccio lamentò con il viceré il suo deplorevole comportamento. 

Il 24 novembre 1795, vennero stipulati i primi patti antifeudali cui seguirono nuovi patti di alleanza.

I firmatari dei patti, sollecitati dai commissari al fine di mobilitare i villaggi del Logudoro secondo i dettami di Cagliari, giurarono di « non riconoscere più alcun feudatario ».

Intanto, Cillocco e Mundula continuavano a coinvolgere con passione antifeudale le popolazioni che, dopo i loro discorsi, si armarono per mettere a fuoco Sassari che, contrariamente a Cagliari che si schierava in difesa dei vassalli, rappresentava la roccaforte dei feudatari.

Il primo era convalescente ma si dichiararono entrambi costretti a mettersi a capo degli armati che minacciavano « temibili intenzioni ». 

I villici al grido di « Viva il Re, sia benvenuto il Signor Cillocco e il dottor Mundula che ci portano la pace e il grano », chiesero, in tumulto, l’apertura delle porte per dirigersi in campagna.

Gli assediati spararono dalle torri per otto ore. Le perdite degli assedianti furono ingenti.

Il Consiglio di Guerra optò dunque per una resa e Cillocco e Mundula,  esprimendosi a nome del viceré chiesero la consegna dell’arcivescovo Della Torre e del governatore e segretario della R.G. Belly, che però era già fuggito da Sassari.

Il 29 dicembre entrarono in città e piazzarono strategicamente ai posti di guardia i vassalli e i miliziani loro seguaci, per evitare saccheggi o atti di vendette personali.
Provvedettero poi alla sostituzione dei fedeli ai baroni con uomini antifeudali. 

Arrestarono l’arcivescovo Della Torre, il governatore Santuccio ed altri personaggi, portandoli nel convento adibito a loro quartier generale.
I feudatari, tuttavia, si erano già messi al riparo fuggendo dalla città, mentre le loro mogli e figlie erano state ospitate nei conventi.

I vassalli tentarono di demolire e saccheggiare il palazzo del duca dell’Asinara, ma Cillocco, Mundula e il brigadiere Livia, li trattennero dal farlo, consegnando durante il loro viaggio di ritorno a Cagliari, al sindaco di Sardara, il denaro e i gioielli del duca da loro messi in salvo.
Dopo alterne e avventurose vicende, Cillocco venne separato dal Mundula e rientrò a Cagliari con pochi fedeli.

Il 25 gennaio, al fine di festeggiare la pace fra Sassari e Cagliari, Angioy allestì un banchetto nella propria casa in cui Matteo Luigi Simon, o Gioachino Mundula, brindò alla Repubblica mentre Pintor rispose brindando al re. Tale episodio sancì la definitiva spaccatura fra i democratici in conservatori e repubblicani.

Dopo la precipitosa partenza di Angioy del 19 giugno 1796, anche il Cillocco, con Sanna Corda e Mundula, lasciò la Sardegna per cercare aiuto per la sua isola, presso i francesi, prima in Italia e poi in Francia, al fine di abbattere per sempre il feudalesimo.

L’11 giugno 1801, Cillocco si trovava ad Ajaccio da dove firmò, insieme ad altri esuli, una delega a Gio Maria Angioy, che lo autorizzava a rappresentarli presso il governo francese. 

Il 21 maggio 1802, si trasferì in Corsica dove, insieme al Sanna Corda, preparò lo sfortunato tentativo d’insurrezione in Sardegna senza poter contare sull’aiuto delle truppe francesi impegnate in altre azioni militari.

Nei primi di marzo, Cillocco sbarcò in Gallura dove contattò i pastori tramite il contrabbandiere Pietro Mamia di cui, ingenuamente, si fidò e che, successivamente, li tradirà.

Il Villamarina, tuttavia, informato sulla data dello sbarco, previsto per il 7 giugno, inviò i rinforzi ai 70 armati del presidio. 

Nella notte del 7 maggio, 200 armati conversero nella località Nuraghe Porcu, tuttavia l’assalto andò a monte, probabilmente a causa del rifiuto di Cillocco a mostrargli le patenti di commissario della Repubblica Francese che pretendeva di possedere ma che non aveva.

Uno dei due uomini presentatisi come « francesi », probabilmente il Cillocco, affermò che venivano da parte del Primo Console Napoleone per sapere se i galluresi volessero accogliere benevolmente le truppe francesi che presto sarebbero sbarcate in Sardegna. Proseguì affermando che il Primo Console li avrebbe trattati come figli e che sarebbero stati esenti da qualsiasi tributo. 

Un intervenuto fra la folla lo interruppe proclamando di preferire la morte al tradimento del re. Il francese allora rispose che Carlo Emanuele IV non aveva più il diritto di regnare, non soltanto perché non aveva rispettato la sua parola abbandonando la Sardegna dove la Repubblica Francese l’aveva inviato per « starsene in pace », ma anche perché aveva rotto i patti giurati con la Repubblica. 

I galluresi accolsero favorevolmente le osservazioni dell’oratore e 200 di essi chiesero di poter marciare verso Tempio per uccidere tutti coloro che vestivano panno, ovvero cavalieri, militari e ricca borghesia. Il francese però si schermì: non era un’impresa facile da realizzare.

Cillocco rimase ancora un po’ in Gallura e quando ritenne i tempi maturi per un’azione armata, si recò in Corsica per organizzare la spedizione.

D’altra parte, il bandito Mamia si era stancato delle mancate promesse degli emigrati sardi in Corsica che da tempo parlavano dell’intervento di truppe volontarie corse e regolari francesi che non erano sinora mai arrivate in Gallura per diversi problemi.

Il bandito tradì quindi i rifugiati sardi andando a riferire tutto quello che sapeva al giudice Lomellini. 

Quest’ultimo, promettendogli di salvarlo dal capestro a cui era stato condannato, lo indusse a trasformarsi da bandito in spia.

Mamia, in realtà, si faceva pagare dagli emigrati sardi, li spiava per ottenere la libertà dai Savoia e continuava ad esercitare il suo commercio di contrabbando in Corsica.

Anche il bandito, infatti, si recava sovente in Corsica dove aveva numerosi abboccamenti con il notaio cagliaritano, il lussurgese Michele Obino, il teologo Sanna Corda e Antonio Cauro, capo divisionale della gendarmeria corsa che favoriva l’azione dei rifugiati sardi. Di certo, Cillocco e i due sacerdoti Obino e Sanna Corda, motivati da ben altri ideali, ingenuamente si erano fidati di un uomo senza parola d’onore.

L’11 giugno, Cillocco ricevette da Sanna Corda, il grado di capitano aiutante di campo. Sei giorni dopo, il Cillocco occupò la torre di Longonsardo. 

Il 18 giugno venne pubblicato un pregone che, dichiarando Cillocco e Sanna Corda nemici della patria, offriva un premio di 500 scudi e l’impunità per i delitti commessi a chi li catturasse.

Ricevuta la terribile notizia della morte dell’amico Sanna Corda, Cillocco lasciò la torre dandosi alla macchia con il pastore Francesco Muntoni. Dopo nove giorni, Cillocco, temendo di essere da lui tradito, se ne separò. Venne allora coraggiosamente ospitato da Cicello Muntoni Decandia che non lo denunciò, malgrado la promessa fattagli di graziare i suoi stessi figli condannati a morte. Fu il Cillocco, tuttavia, che lo abbandonò per non farlo incorrere in gravi pericoli. Questi chiese quindi ospitalità a Michele Demuro che acconsentì ad ospitarlo, ma il 25 luglio si svegliarono – nel bosco di Padru Serra – non lontano da Tempio, entrambi circondati da un gruppo di pastori fra cui il padre e i fratelli di Giovanni Battino, un giovane già torturato e giustiziato ma che avevano promesso di liberare in cambio del Cillocco.

Quest’ultimo e il suo generoso ospite vennero quindi disarmati e legati ad un albero. Il Demuro, venne, in un secondo tempo, liberato.

Potrebbe sembrare strano l’accanimento della famiglia del coraggioso Battino contro il Cillocco, visto che il giovane Giovanni era già stato giustiziato per ordine del crudele giudice Valentino e che, malgrado la raccapricciante tortura della corda, non aveva voluto denunciare i complici. 

In realtà, però, la sua esecuzione non aveva fatto che acuire il loro dolore per una morte di cui attribuivano l’indiretta colpa ai responsabili dell’insurrezione, e dunque anche a Francesco Cillocco.

Così, il 29 luglio, le truppe del luogotenente avvocato Magnon, catturano quest’ultimo, in tristi condizioni, dopo essere stato legato a un albero per quattro giorni senza mangiare né bere. 

L’ingresso di Francesco Cillocco a Sassari fu un triste spettacolo per il popolino avido di emozioni e per i baroni che si liberavano di colui che per sette lunghi anni si era coraggiosamente battuto contro i loro smoderati soprusi nei confronti dei vassalli.

Il giovane notaio cagliaritano venne caricato su un asinello, stordito dagli eventi e le sofferenze patite, al grido del popolo al boia : « Batti, batti bene quell’assassino » mentre i nobili feudatari ridevano ai balconi.

Il duca dell’Asinara non ricambiò la generosità e la signorilità del condannato Cillocco che aveva prima impedito di far distruggere e saccheggiare il suo palazzo dai vassalli e messo in salvo e consegnato intatti tutti i suoi beni materiali. 

Il duca infatti, dal suo balcone, gridava al boia « Percuoti bene » e fornì pure una lauta mancia per non lemosinare sulle sferzate. E così accadde, visto che il  medico constatò che la pelle del Cillocco gli si staccava in lembi sanguinolenti.

La frusta era infatti di doppia suola intessuta con piombo ; e mentre il Cillocco pativa il martirio una ciurma di ragazzi prezzolati andava fischiando e gridando « Evviva il generale cagliaritano ».  « …una fustigazione così barbara mai si vide in Sassari…».

E perfino il Manno, storico algherese molto vicino alla casa Savoia, deplorò l’accaduto commentando che « alla mano del manigoldo non fu lasciato l’arbitrio di quella naturale umanità che poteva sorgere anche nel cuore di un carnefice ». 

La condanna a morte di Francesco Cillocco, pronunciata nel carcere di San Leonardo l’11 agosto 1802, fu eseguita lo stesso giorno, dopo la tortura della corda e delle tenaglie infuocate a torso nudo : la forca, il rogo, la testa conficcata sul patibolo, le ceneri sparse al vento e la confisca dei beni. Padre Pinna e Gavino Murru, rettore di San Sisto che sarebbe poi divenuto Vescovo di Bosa e Arcivescovo di Sassari, pietosamente lo coprirono con la loro cappa durante il martirio del ‘’tenagiamento’’.

Cillocco morì alle Forche del Carmine Vecchio, a Sassari. Aveva solo trentadue anni.


Immagine: camineras.blogspot.com

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