Il 25 aprile e la Sardegna: grande storia e storie familiari

de Omar Onnis

In Sardegna il 25 aprile è una data strana. Chi aderisce alla celebrazione come un dovere morale lo fa perché sente questa data come una scadenza rituale importante. Ma non è detto che ci sia dietro un ragionamento o una consapevolezza profonda.

Altre persone la respingono, perché si sentono minacciate, perché propendono idealmente per valori che questa data condanna. Forse sono una minoranza, anzi lo do per certo; ma esistono. 

La gran parte delle persone sarde però credo che sia disorientata da una ricorrenza che avverte come molto retorica e molto distante, anche senza respingerne il contenuto (la sconfitta del fascismo). Poche persone, se interrogate, saprebbero spiegare cosa questa ricorrenza rappresenti per loro. Non in generale, ma proprio per loro, come individui, come parti di una storia collettiva fatta di relazioni familiari, conoscenze, memorie, studi, idee politiche, riferimenti etici. 

Entra in gioco, qui, anche la circostanza che, come per altri aspetti, ciò che rileva per tutta la cittadinanza dello stato italiano è ciò che rileva per una sua parte, di solito quella settentrionale. Il baricentro politico e gli interessi prevalenti, in Italia, da che esiste come stato, sono sempre stati collocati al Nord, con la sola eccezione strumentale e solo parzialmente contrapposta di Roma.  

Nel caso del 25 aprile questo aspetto è più sfumato, ma si somma a tutto il resto. Che il Meridione italiano fosse già libero, quel 25 aprile 1945, che Napoli si fosse liberata da sola, che la Sardegna fosse uscita dal conflitto fin dall’autunno 1943, sono circostanze che hanno poco o nessun peso nella retorica istituzionale e nell’uso pubblico della storia in Italia. La Stessa Resistenza è stata strapazzata e deformata a seconda delle esigenze nel discorso politico italiano, fino a indebolirne il senso e prima ancora la conoscenza presso la cittadinanza chiamata, ogni anno, a celebrarla. 

I disastri compiuti nei decenni dalla classe politica e dai mass media, in questo senso, sono enormi. Non dimentichiamo che se oggi al governo del Paese c’è una maggioranza a chiara trazione neo-fascista ciò è dovuto all’edulcorazione del fascismo – storico e attuale – e alla sua sostanziale legittimazione da parte dei suoi avversari, in primis i reduci del PCI e il PD, in questo spesso più accondiscendenti degli stessi liberali – o sedicenti tali – sempre timorosi di una vera svolta democratica e sempre più che pronti ad appoggiare qualsiasi deriva autoritaria e anti-popolare.

Negli anni Novanta, le dichiarazioni solidali con “i ragazzi di Salò” di Luciano Violante e la retorica patriottarda imposta soprattutto sotto la presidenza di Ciampi e poi con Napolitano (altro ex PCI, sia pure “migliorista”) hanno fecondato un terreno già di per sé abbastanza predisposto a far attecchire e crescere una nuova popolarità della destra estrema. Con i governi Berlusconi avevamo già avuto un assaggio di normalizzazione anti-antifascista, poi dilagata in televisione e nei social media con estrema facilità e ormai entrata nel senso comune. Persino il povero Pasolini è stato usato in questi termini, violentandone la figura e la memoria.  

L’effetto complessivo prodotto in Sardegna da questa somma di fattori rispecchia in qualche misura quello prodotto nel resto dello stato italiano, ma ha peculiarità sue. Il fatto che la popolazione sarda, in generale, si senta tagliata fuori dalla storia della Liberazione fa sì che essa ne viva la celebrazione in modo perlopiù passivo, o meccanico, o retorico, o indifferente o banalmente ostile. Non c’è una vera partecipazione e un coinvolgimento diretto, una confidenza con fatti, luoghi, personaggi che invece esiste laddove esista anche una memoria diretta, di gruppo, di famiglia, di comunità sui fatti rievocati. A tratti, il 25 aprile in Sardegna assume persino i connotati di una festa imposta, a cui aderire solo per non sentirsi da meno, o giocoforza. 
È un peccato.  

Come per tanta, troppa, della nostra storia, anche la storia dell’antifascismo e della Resistenza in Sardegna è ampiamente ignota. Eppure, questa storia esiste. Ed esistono le storie di moltissime persone sarde che, a vario titolo e in varie circostanze, hanno preso parte attiva alla storia più generale dell’antifascismo e della Resistenza.

Non dovrebbe esserci bisogno di scomodare figure note come Antonio Gramsci ed Emilio Lussu, ma forse vale la pena ricordare, ogni tanto, che erano entrambi sardi. E che tutto il primo sardismo, non cooptato nel fascismo, sia stato una delle prime espressioni esplicite e attive di antifascismo, è ugualmente un dato acquisito, benché non troppo raccontato. Figure come quella di Dino Giacobbe o di Marianna Bussalai dovrebbero forse dire qualcosa di più alle persone sarde di oggi; invece, temo che ben poche ne sappiano qualcosa. 

Ma anche negli anni più duri della Seconda guerra mondiale e nel durissimo 1943, in cui la Sardegna passò dalla distruzione di Cagliari a base di bombe e spezzonamenti, allo sfollamento di migliaia e migliaia di persone, fino all’isolamento totale e alla fame generalizzata, esistettero fermenti antifascisti e un attivismo democratico molto radicato.

La nuova leva sardista, fatta di giovani, perlopiù di sentimenti indipendentisti, così come la riemersione del comunismo ma in salsa sarda, con la fondazione del Partito Comunista di Sardegna, furono segnali di una vitalità tutt’altro che spenta e subalterna. E poi, naturalmente, la massa di persone sarde che presero parte, in diversi scenari, alla Resistenza. Molti ex militari sardi rifiutarono l’arruolamento nelle forze armate della Repubblica di Salò, sotto il comando tedesco, e finirono nei campi di concentramento. Molti altri, appena possibile, si unirono alle formazioni partigiane, in Italia e altrove. 

Su questo posso io stesso portare una testimonianza di famiglia. Quando io penso al 25 aprile, penso al fratello di mia nonna materna, Antoni Luisi Tumbarinu (all’anagrafe Antonio Luigi Tamburini), di Magomadas, partito per la guerra nel 1940, a vent’anni, fatto prigioniero dai tedeschi all’indomani dell’8 settembre 1943 in Jugoslavia, evaso dalla prigionia con altri commilitoni sardi e unitosi alle bande partigiane locali su quel fronte.  

Zio Antonio morì in uno scontro a fuoco avvenuto nel dicembre 1944 sull’isola croata di Poljana. Gli fu poi conferita la medaglia d’argento al valor militare. L’onorificenza non compensò mai il dolore della perdita, per la famiglia, tanto meno gli restituì la sua giovane vita. Da qualche anno a Magomadas lo ricorda una lapide posta all’imbocco della strada che gli è stata dedicata

La sua è una storia misconosciuta nella nostra stessa famiglia. Così come sono misconosciute e spesso del tutto dimenticate le storie di centinaia, forse migliaia, di altre persone sarde che, al momento di scegliere dove schierarsi, scelsero l’antifascismo e la lotta per la libertà e la democrazia. A questo penso io, quando penso al 25aprile. E non ho alcun bisogno della retorica ipocrita, troppo spesso nazionalista, delle istituzioni italiane per dare a questa ricorrenza un significato forte e vivo. A dispetto del fatto che celebra una circostanza in cui la Sardegna non fu coinvolta direttamente e nient’affatto in contrapposizione, ma anzi in consonanza, con la vicina ricorrenza del 28 aprile. 


Immagine: Omar Onnis

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2 commenti

  1. Buongiorno,
    molto interessante la descrizione del rapporto tra Sardi e 25 aprile, concetto che condivido. Resto invece molto perplesso sull’affermazione circa i “reduci del PCI e il PD” che sarebbero: “sempre timorosi di una vera svolta democratica e sempre più che pronti ad appoggiare qualsiasi deriva autoritaria e anti-popolare”.

    Non le sembra un concetto “leggermente” esagerato?

    Grazie.

    • Buongiorno Massimo.
      Non è leggermente esagerato, è proprio sbagliato.
      Il passaggio è formulato male, e me ne scuso. Manca una virgola e manca un “a loro volta”. In altre parole, quel rilievo non è riferito ai reduci del PCI e al PD in particolare (non a tutto, almeno), ma ai sedicenti liberali in salsa italiana.
      Il liberalismo italiano storicamente è sempre stata una variante ipocrita del conservatorismo e ha rappresentato prevalentemente la difesa politica dei ceti abbienti. Con rare eccezioni (penso a un Gobetti, per dire). Ancora oggi i sedicenti liberali, nel contesto italiano, sono i più strenui difensori della legittimazione pubblica degli eredi del fascismo, ne hanno garantito la sopravvivenza e, all’occorrenza, il successo. In questo il PD non ha fatto mostra di essere troppo diverso. A livello locale sono ampiamente documentate alleanze e forme di desistenza diciamo piuttosto opaca con la militanza neo-fascista (nelle sue diverse incarnazioni di comodo e di facciata). Nel discorso pubblico e nell’uso pubblico della storia, i vertici del PD e varie sue espressioni locali non hanno mai avuto alcuna difficoltà a sostenere e fare proprie le riletture revisioniste di vicende più o meno reali, a volte del tutto manipolate (pensiamo alla faccenda delle foibe o alla narrazione accusatoria contro la Resistenza), strumentalmente propagandate dalla destra.
      Insomma, al di là della inefficace formulazione di quel passaggio nel mio pezzo, ne difendo il contenuto e il senso. Se in Italia, il luogo di nascita del fascismo, oggi mancano vistosamente robusti anticorpi antifascisti non è certo per merito dei vari Salvini e Meloni. Una riflessione su questo andrebbe fatta. Tanto più in Sardegna, dove le distanze tra centrodestra e centrosinistra sono sostanzialmente solo retoriche e l’espediente di chiamare a raccolta l’elettorato democratico per “battere le destre” ha già mostrato la sua natura ingannevole.

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