eleonora-darborea

Verso il 621° Anniversario della morte di Eleonora d’Arborea

de Francesco Casula

Non si ha certezza sulla data della morte di Eleonora d’Arborea. “Di recente era in auge il 1402 – spiega Giampaolo Mele, Direttore scientifico dell’ISTAR -, alcuni documenti barcellonesi parlano chiaro: fine maggio 23 giugno 1403. Le fonti citano fra gli altri Giorgio Curculeu, abitante di Stampace che si recava ad Aristanis per consegnare alcune lettere del governatore “a la Juighissa d’Arborea e a son fill”. Ma dal 23 giugno 1403 il nome della Juighissa non ricorre più nei documenti della Corona d’Aragona.

Prima di entrare in medias res, raccontando la figura storica di Eleonora, due premesse per liquidare alcuni luoghi comuni ancora largamente diffusi: 

Due luoghi comuni da liquidare

1. Il primo attiene alla sua “icona” all’immagine di Eleonora d’Arborea, che solitamente vediamo riprodotta non solo nelle copertine dei libri ma persino sulle confezioni dei prodotti alimentari. Ebbene essa è falsa: rappresenta Giovanna La Pazza – figlia di Ferdinando II d’Aragona e di Isabella di Castiglia e non la regina-giudicessa, passata alla storia per la straordinaria Carta de Logu che sarà vigente in Sardegna per più di 400 anni. 

   In questo “falso” ci sono cascato anch’io nel volume che su di lei ho scritto in lingua sarda (Leonora d’Arborea, Alfa Editrice, Quartu, 2006). Ma ecco come descrive e spiega l’origine del “falso” Francesco Cesare Casula, eminente storico medievista, già docente di Storia Medioevale dell’Università di Cagliari: ”Cinquant’anni dopo la morte di Giovanna la Pazza avvenuta nel 1555, un pittore napoletano di maniera, certo Bartolomeo Castagnola, ricopiò a Cagliari un suo ritratto che fu riscoperto nell’Ottocento da un ignoto cultore di storia sarda il quale, in clima albertino di ricostruzione delle patrie memorie e di esaltazione romantica, vi scrisse in calce: D(OM)INA LEONORA, credendo o volendo far credere che si trattava di un dipinto trecentesco della famosa giudicessa Eleonora d’Arborea. E tale, dal 1859 in poi, è stato sempre accettato e ammirato dai Sardi di ieri e di oggi i quali, ignorantemente, continuano a riprodurlo dappertutto”. Sarà lo stesso Casula a individuare invece  l’immagine autentica di Eleonora nel 1984 quando la ritrovò effigiata nei peducci pensili della volta a crociera dell’abside della chiesa di San Gavino Martire in San Gavino, insieme al busto del padre Mariano IV, del fratello Ugone III e del marito Brancaleone Doria. Nel volto di Eleonora (parte sinistra) è evidente una vasta cicatrice. Bene. Proprio nei giorni scorsi a Mogoro, durante i lavori di restauro di una casa privata, è stato ritrovato un busto in altorilievo, che prepotentemente si stacca dalla chiave di volta di un arco. Sembra proprio di Eleonora e comunque rassomiglia enormemente – anche in questo è presente una vasta cicatrice nella parte sinistra del volto – a quello scoperto a San Gavino da Casula. In autunno è previsto un Convegno scientifico, con storici italiani ed esteri per una valutazione definitiva del ritrovamento e anche per chiarire la frequentazione della giudicessa-regina d’Arborea  a Mogoro, in una casa privata.

2. Il secondo luogo comune attiene al suo ruolo di giudicessa-regina. Continuo a sentire e leggere: la Giudicessa Eleonora d’Arborea. Anche recentemente da parte di importanti personaggi politici sardi. E’ vero: ma a livello di comunicazione, rivolta a un pubblico generico, simile locuzione (Eleonora giudicessa) può ingenerare  equivoci e confusione. L’ascoltatore (o il lettore comune) sentendo/leggendo “Giudicessa”, a cosa pensa? A un magistrato?

   Per evitare simili equivoci, a mio parere occorre sempre dire e scrivere “Eleonora d’Arborea giudicessa-regina.

   I Giudicati sono infatti dei veri e propri Regni: sos Rennos sardos: con ordinamenti propri, un territorio, frontiere, accordi interni, rapporti esterni e esteri.

   C’è di più: in tutte le iscrizioni e i sigilli appare la scritta: Iudex sive rex (Giudice ossia re). Investito della summa potestas (somma potestà): non cognoscens superiorem (che non riconosce uno superiore). 

   Certo di tratta dei “regni” particolari e specifici: intanto erano regni non patrimoniali (cioè di proprietà del sovrano), come erano quelli del medioevo italiano ed europeo feudale, ma superindividuali (o subiettivi). Ma soprattutto non erano sovrani “assoluti”, come lo saranno tutti i sovrani europei dopo la fine del Medioevo feudale. Sono sovrani costituzionali e “democratici” ante litteram, O meglio semidemocratici, scelti con un sistema misto: da una parte vige l’ereditarietà dall’altra l’elezione da parte della Corona De Logu, Essa è strumento deliberativo del Governo, in quanto Assemblea dello Stato, un vero e proprio Parlamento che si riunirà – per quanto attiene al Giudicato di Arborea – inizialmente nelle Curatorie e poi a Oristano, quando questa si afferma come capitale importante. 

   Il Giudicato era diviso in Curatorie (una sorta di Circoscrizione o Provincia): il numero variava da Giudicato a Giudicato. Arborea ne aveva 14. Ogni Curatoria inviava alla Corona De Logu un suo rappresentante, la capitale ne mandava due. Il rappresentante era scelto, a sua volta, fra i rappresentanti delle singole ville (sas biddas) che erano stati inviati alla Curatoria stessa.

   La Corona De Logu come Parlamento aveva queste tre funzioni:

1.Intronizzare il nuovo sovrano.

2.Decidere le Paci e le Guerre.

3.Deliberare sui rapporti internazionali e le politiche inerenti.

   Il giudice-re governava sulla base di un patto con il popolo (chiamato bannus consensus): il potere veniva infatti concesso al Giudice-re (con l’intronizzazione) in cambio del rispetto delle prerogative popolari, tramite la Corona de Logu, ovvero il Parlamento. 

Se non rispettava tale patto, poteva essere detronizzato e persino legittimamente giustiziato dal popolo stesso.

Sempre a proposito del Giudicato-Regno, basta riferirsi al Proemio alla Carta De Logu in cui Eleonora stessa precisa che la Carta di Mariano IV da sedici anni non era stata rivista e poiché non rispondeva più ai bisogni delle nuove condizioni sociali, occorreva rivederla e aggiornarla:”pro conservari sa Justicia et in bonu, pacificu e tranquillu istadu dessu pobulu dessu RENNU nostru…dessa terra nostra e dessu RENNU de Arbarèe”.

      Certo si potrà persino obiettare che Eleonora pur chiamandosi giudicessa, ovvero regina, non fu regina regnante ma reggente (il figlio maggiore Federico Doria-Bas, non aveva la maggiore età e lei governò in sua vece) ma si tratta di una distinzione da azzeccagarbugli, di formalismo giuridico (peraltro del diritto di quei tempi). Ma la sostanza non cambia.

La figura di Eleonora

Dopo l’uccisione di Ugone III, il 15 marzo 1383  fu chiamato a regnare il figlio maggiore di Eleonora, Federico Doria-Bas. Ma non avendo la maggiore età (era nato nel 1377), in linea con le consuetudini giudicali, governò in sua vece la madre, che pur chiamandosi “giudicessa”, ovvero regina, non fu regina regnante ma reggente. Passerà alla storia come simbolo di unità e di indipendenza della Sardegna.

   Giuseppe Dessì, il grande scrittore di Villacidro, una volta ebbe a scrivere, fra il serio e il faceto,  che la Sardegna aveva avuto nella sua storia solo due grandi uomini: Eleonora d’Arborea e Grazia Deledda. 

   Molti storici, per la sua grandezza, il suo ruolo storico e la sua opera hanno paragonato Eleonora a Caterina II, imperatrice di tutte le Russie. 

   Il Giudicato-regno di Arborea conosce i tempi di maggior prestigio con i Giudici Mariano II (morto nel 1297), Mariano IV (1346-1376) ma soprattutto con Eleonora (1330-1403), con cui Arborea è riuscita a conquistare l’intera isola fatta eccezione solo per Castel di Cagliari e Castel d’Alghero, appartenenti al regno di Sardegna. In altre parole unifica sotto il suo scettro l’intera Sardegna, sconfiggendo a più riprese l’esercito aragonese: in condizioni difficilissime e sotto il ricatto de re Pietro IV d’Aragona che minacciava di non liberare il marito Brancaleone Doria – che aveva arrestato a Barcellona e poi condotto prigioniero a Cagliari – se non avesse posto fine alla guerra e non si fosse arresa.

Il suo ruolo legislativo:la Carta de Logu 

Ma ancor più del suo ruolo politico è importante la sua opera giuridica con l’emanazione della Carta de Logu, probabilmente nel 1392. Sicuramente è il Codice legislativo più importante e più noto del medioevo sardo e non solo sardo. 

   Si tratta dell’unica Costituzione che la Sardegna nella sua storia ha avuto che non sia octroyé, ottriata: ovvero concessa dall’alto e da “fuori”. Elaborata localmente dunque e indigena essa è espressione, anche linguistica, di una autorità isolana.

La lingua della Carta de Logu

La lingua che utilizza Eleonora nel suo codice è la lingua sarda. “Il sardo colto – scrive un grande studioso della Carta,, Marco Tangheroni – che va visto nel quadro di una consapevole volontà politica dei Giudici di Arborea di presentarsi come interpreti e guide dell’intera nazione sarda”. 

   E aggiunge: “Il termine «nazione sarda» è usato correntemente nel Trecento, e in misura crescente quanto più la guerra accentuava le differenze e le contrapposizioni con «la nazione catalana». Così ad esempio, da una connotazione neutra essa assume nella propaganda catalana una caratterizzazione dispregiativa: “es nacion que tots temps es estrada en servitud”

   Un sardo-arborense che é una miscela di logudorese e di campidanese. Scriveva Camillo Bellieni su questo sardo: “È un dialetto vivo ancora sulle colline che sovrastano il Campidano maggiore, fra Abbasanta, Ghilarza, Neoneli e Sorgono, in una zona ristretta.Un tempo essa arrivava fino ad Oristano e più oltre. Il dialetto è fondamentalmente il logudorese nei suoi svolgimenti morfologici, ma è influenzato da accidenti fonetici del campidanese, che di giorno in giorno prende sempre più piede verso il settentrione dell’Isola. È un linguaggio ricco e armonioso che ha tutta la dignità necessaria, per dare forma solenne alla legge”1

   Bellieni scriveva ciò nel 1929: ma oggi cosa sostengono gli studiosi a proposito del Sardo della Carta de Logu?

   Più o meno la pensa come Bellieni, una studiosa come Antonietta Dettori: “I confini storici dell’area di produzione e fruizione del codice di leggi – il Giudicato d’Arborea – includevano le plaghe agricole del Campidano settentrionale e della Marmilla e penetravano con le curatorie barbaricine nella zona montuosa dell’interno dell’Isola. Una posizione mediana che ponevano il territorio sulla linea di confluenza dell’area campidanese con l’area logudorese e lo apriva inoltre a una componente culturale esterna, mercantile e commerciale, etnicamente differenziata che trovava sbocco nella «finestra» mediterranea costituita dal golfo di Oristano”2.

   È proprio così, basta leggere la Carta per avvedersi che in essa è presente una lingua “mediana” o “di mesania”. Occorre però porsi anche un’altra domanda: che fine ha fatto oggi il sardo-arborense? 

   Questa la risposta data da uno storico sardo di prestigio come Francesco Cesare Casula: “Abbattuti definitivamente nel XV secolo i confini ex giudicali e giudicali arborensi, anche le aree delle parlate sarde si sfecero, si sfumarono, si mischiarono. La lingua nazionale d’Arborea scomparve quasi del tutto, fagocitata dal moderno campidanese (o vecchio calaritano) forte dell’autorità governativa iberica che operava nella città di Cagliari e che in qualche modo si avvaleva oltre che del catalano e del castigliano anche del sardo popolare per farsi intendere”3.

L’articolato della Carta De Logu

La Carta de Logu contiene un Proemio e 198 capitoli: i primi 132 formano il Codice civile e penale, gli altri 66 il codice rurale emanato dal padre di Eleonora, Mariano IV. 

   Dopo tanto lavoro da parte di giuristi sardi e italiani venne promulgata, forse il 14 aprile del 1392 (il giorno di Pasqua), da Eleonora, madona Elionor per gli Aragonesi, che proprio dopo la promulgazione cominciano a chiamare la Sardegna «nacion sardesca» e la Carta «de sa republica sardisca» in quanto espressione della Sardegna intera.

   Oggi non abbiamo l’edizione principe del 1392 in sardo arborense ma un brutto manoscritto quattrocentesco, custodito nella Biblioteca universitaria di Cagliari e nove copie in sardo campidanese e logudorese, fatte a stampa molto tardi nel 1485 – 1500 – 1567 – 1607 – 1617 – 1628 – 1708 – 1725 – 1805.

   La Carta si presentava come una vera e propria Carta costituzionale nazionale. Scritta nelle intenzioni di Eleonora in quanto serve ad ciò qui sos bonos e puros et innocentes pothant viviri et istari inter issos reos ad seguridadi.

   La Carta di Mariano IV da sedici anni non era stata rivista e poiché non rispondeva più ai bisogni delle nuove condizioni sociali, occorreva rivederla e aggiornarla pro conservari sa Justicia et in bonu, pacificu e tranquillu istadu dessu pobulu dessu rennu nostru predittu et dessas ecclesias, raxonis ecclesiasticas, e dessos lieros,e bonos hominis, et pobulu tottu dessaditta terra nostra e dessu rennu de Arbarèe.

   Quando parla di ammodernamento in base alle nuove condizioni del Giudicato, Eleonora pensa in modo particolare: alla necessità di rafforzare le disposizioni per conservare l’ordine pubblico, spesso in pericolo; aumentare la produzione e la ricchezza del regno; garantire lo sviluppo della piccola proprietà privata, proteggere e difendere l’attività di chi lavorava la terra e dei pastori. 

   Ma soprattutto occorreva definire i reati e precisare le responsabilità delle persone stabilendo con precisione l’entità delle pene che saranno aumentate rispetto a quelle stabilite e previste dalla legislazione del padre Mariano e del fratello Ugone, come abbiamo visto nel proemio.

   Le disposizioni risultano molto precise soprattutto relativamente alla chiusura dei terreni, il lavoro nelle vigne, negli orti e nei terreni seminati. Precise e con pene molto severe nei confronti di chi distrugge le chiusure (capp. XLI-XLIII); contro il padrone degli animali che invadano i campi altrui distruggendo il raccolto (cap. XCV); contro chi bruci le stoppie prima dell’8 settembre (cap. XLV), con il rischio di spargere il fuoco nei terreni coltivati.

   È estremamente importante la disposizione che concede in proprietà il terreno a chi lo ha avuto e lavorato per cinquanta, quaranta o trent’anni, a secondo che esso sia del fisco, della Chiesa o di un privato, se il proprietario originario nel frattempo non ha rivendicato i suoi diritti (cap. LXVII).

   Per i reati maggiori si stabilisce la condanna a morte (con l’impiccagione, la decapitazione e sa brusiadura) e non è possibile salvarsi attraverso il pagamento in denaro di una multa (e pro dinari neunu non campit) e dunque con un riscatto, come aveva previsto il fratello Ugone: in casu qui alcunu homini ochirit homine, pagando liras milli siat campatu e non nde siat mortu.

   Per fare qualche esempio: l’omicida è decapitato. Ma se si tratta di legittima difesa: no ‘ndi siat mortu e pena alcuna no ‘ndi apat.

   Chi incendia le abitazioni è condannato ad essere arso vivo: Su fogu postu a sas domos est degumadu cun sa bruciatura (cap. XLVI). 

   La prigione non è prevista come pena: qualche volta se ne parla ma solo come mezzo di sicurezza per custodire il colpevole prima di prendere altre decisioni (cap. IV) o ulteriori accertamenti (cap. XII).

   Ciò a significare che c’era la convinzione che lo Stato non poteva mantenere né campare i delinquenti, anzi mirava a colpirli nel loro patrimonio, considerando ciò un intervento molto più proficuo di qualunque pena. In generale le pene servivano per colpire il malfattore nel suo patrimonio o per spaventarlo con la minaccia di multe molto salate. Per chi eventualmente non pagava la multa erano previste pene fisiche molto dure. 

   Gli Aragonesi, giudicando la Carta saggia e rispondente alle necessità dell’Isola nel 1421 – con il re Alfonso il Magnanimo –  la estendono a tutta la Sardegna (fuorché alle città di Cagliari, Iglesias, Bosa, Alghero, Sassari e Castelsardo che erano “governate” da Statuti speciali). La Carta inoltre rimarrà in vigore fino all’applicazione del Codice feliciano del 1827.

Nella Carta de Logu invece vi sono parecchie disposizioni che denotano la sapienza giuridica, l’avvedutezza e il buon senso di Eleonora. Pensiamo soprattutto alla distinzione fra colpa e dolo (animu deliberatu, lo chiama la Carta); alla legge che è uguale per tutti; al fatto che quando a qualcuno vengono sequestrati tutti i possedimenti, alla moglie e ai figli, comunque, viene riservata la parte che loro spetta.             

   O pensiamo ancora alla norma secondo cui nessuno può dare alloggio o aiuto ai banditi ma ciò è permesso al loro padre, alla madre, alla moglie e ai figli, ai fratelli e alle sorelle, perché non vogliono distruggere la famiglia né uccidere i vincoli più sacri (cap.VII). Molti articoli sono dedicati ai furti, segnatamente degli animali e dei cereali. Ma non occorre meravigliarsi. Questi furti ci dicono chiaramente che ci troviamo in una società di contadini e di pastori, che dunque occorre difendere con pene molto severe, pecuniarie o fisiche, contro chi attenta ai loro interessi. 

Eleonora d’Arborea e la donna: Ecco che cosa prevede la Carta nel caso di violenza a una donna.

La donna era allora semplice oggetto di desiderio e di piacere dell’uomo, senza diritti né riconoscimenti. Non così per la Carta de Logu.

E in questo articolo è chiaro il contributo di Eleonora alla Carta. 

XXI CAPIDULU

De chi levarit per forza mygeri coyada.

Volemus ed ordinamus chi si alcun homini levarit per forza mugeri coyada, over alcun’attera femina, chi esserit jurada, o isponxellarit alcuna virgini per forza, e dessas dittas causas esserit legittimamenti binchidu, siat iuygadu chi paghit pro sa coyada liras chimbicentas; e si non pagat infra dies bindighi, de chi hat a esser juygadu, siat illi segad’uno pee pro moda ch’illu perdat. E pro sa bagadìa siat juygadu chi paghit liras ducentas, e siat ancu tenudu pro leva rilla pro mugeri, si est senza maridu, e placchiat assa femina; e si nolla levat pro mugeri, siat ancu tentu pro coyarilla secundu sa condicioni dessa femina, ed issa qualidadi dess’homini. E si cussas caussas issu non podit fagheri a dies bindighi de chi hat a esser juygadu, seghintilli unu pee per modu ch’illu perdat. E pro sa virgini paghit sa simili pena; e si non hadi dae hui pagari, seghintilli unu pee, ut supra55

Traduzione

CAPITOLO VENTUNESIMO

Di chi violentasse una donna sposata.

Vogliamo ed ordiniamo che se un uomo violenta una donna maritata, o una qualsiasi sposa promessa, o una vergine, ed è dichiarato legittimamen te colpevole, sia condannato a pagare per la donna sposata lire cinquecen to; e se non paga entro quindici giorni dal giudizio gli sia amputato un piede. Per la nubile, sia condannato a pagare duecento lire e sia tenuto a sposarla, se è senza marito (=promesso sposo) e se piace alla donna. Se non la sposa (perché lei non è consenziente), sia tenuto a farla accasare (munendola di dote) secondo la condizione (sociale) della donna e la qua lità (= il rango) dell’uomo. E se non è in grado di assolvere ai suddetti òneri entro quindici giorni dal giudizio, gli sia amputato un piede. Per la vergine, sia condannato a pagare la stessa cifra sennò gli sia amputato un piede come detto sopra.

In altre parole, l’uomo che violenta una donna non sposata è costretto a sposare la donna stessa ma a condizione che a lei piaccia: nel testo in sardo è scritto placchiat assa femina: ovvero che sia consenziente e gradisca quel matrimonio: per la cultura e i costumi di allora una vera e propria rivoluzione.


Note bibliografiche

1. Camillo Bellieni, Eleonora d’Arborea, G. Gallizzi, Sassari, 1978, (che riproduce testualmente quella apparsa nel 1929 per le edizioni della Fondazione “Il Nuraghe” di Cagliari), pagina 70.

2. Italo Birocchi-Antonello Mattone (a cura di), La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno,  Editori Laterza, Bari 2004, pagina 139.3.Francesco Cesare Casula, Dizionario storico sardo, Carlo Delfino Editore, Sassari, 2003. pagina 849.

immagine: shmag.it

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