Il “genocidio” bianco dei sardi: cronaca di una colonizzazione terminale

Che cos’è un genocidio
Il genocidio in corso in Palestina ha riportato in auge un termine, quello di genocidio, che molti pensavano fosse confinato nelle pagine della storia. In realtà non è mai stato veramente così e nella storia anche recente si sono consumati diversi genocidi, a vari gradi di intensità ed efferatezza. Il termine “genocidio” è stato coniato dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin, che perorò presso le Nazioni Unite la causa della “Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio”, anche per impedire che quanto era accaduto al suo popolo non potesse mai più ricapitare. Lemkin, nell’aprile del 1945, scrisse a tal fine l’articolo “Genocide. A Modern Crime” e in questo articolo troviamo dei passaggi che non descrivono solo quanto storicamente è accaduto a popoli sterminati con la violenza come appunto armeni, ebrei e oggi palestinesi, ma anche a tattiche più sottili finalizzate a disgregare e dissolvere i popoli senza usare bombe, cannoni, gas, assedi per fame, ecc..
Scrive Lemkin:
«mi sono preso la libertà d’inventare la parola “genocidio”. Questo termine deriva dalla parola greca ghénos, che significa tribù o razza, e dal latino caedo, che significa uccidere. (…) il termine non significa necessariamente uccisione di massa, ma questa può essere una delle sue accezioni. Più spesso, si riferisce a un piano coordinato volto alla distruzione delle fondamenta essenziali della vita dei gruppi nazionali, affinché tali gruppi avvizziscano e muoiano come piante colpite dalla ruggine».
“genocidio” nell’accezione del suo fondatore, non significa tanto eliminazione fisica e violenta delle persone, ma piuttosto – è bene ribadirlo – «distruzione delle fondamenta essenziali della vita dei gruppi nazionali, affinché tali gruppi avvizziscano e muoiano come piante colpite dalla ruggine».
Presegue Lemkin:
«Il fine può essere raggiunto mediante la disintegrazione forzata delle istituzioni politiche e sociali, della cultura del popolo, della sua lingua, dei suoi sentimenti nazionali e della sua religione. Può essere raggiunto cancellando ogni base di sicurezza personale, libertà, salute e dignità. Quando questi mezzi falliscono, la mitragliatrice può sempre essere utilizzata come ultima spiaggia. Il genocidio viene perpetrato contro un gruppo nazionale come entità e l’attacco alle persone è solo secondario all’annientamento del gruppo nazionale cui appartengono»
La violenza fisica e sistematica arrivano solo come extrema ratio, quando tutti gli altri strumenti genocidari sono falliti o non sono stati capaci di rendere un popolo evidentemente considerato problematico e di troppo inoffensivo o del tutto subalterno.
Ma l’aspetto più interessante del ragionamento di Lemkin arriva quando il giurista affronta le «tecniche del genocidio» e una di questa riguarda la rimozione della cultura del popolo vittima di genocidio:
«I tedeschi cercarono di cancellare ogni richiamo ai modelli culturali precedenti. Nelle aree annesse, la lingua locale, i nomi dei luoghi, i nomi delle persone, i cartelli pubblici e le scritte furono sostituiti con scritte in tedesco. Il tedesco doveva essere la lingua dei tribunali, delle scuole, dello Stato e della strada. In Alsazia-Lorena e in Lussemburgo, non era neppure consentito lo studio della lingua francese alle scuole elementari. La funzione delle scuole era quella di preservare e rafforzare il nazismo. C’era obbligo di frequenza di una scuola tedesca per tutte le classi elementari e per tre anni di scuola secondaria».
Quanto accade in Sardegna, con l’ormai certificata e sistematica rimozione della lingua sarda da ogni agenzia veicolare, contro le stesse pur timide garanzie costituzionali italiani e le altrettanto timide tutele regionali, ricorda da vicino queste tecniche.
Il popolo sardo sta subendo un “genocidio”?
Oggi parlare di Sardegna non significa più discutere di una “regione”, ma raccontare la lenta agonia di un popolo, il suo dissanguamento sistematico, la sua riduzione a mera risorsa territoriale senza soggetto. Altro che transizione ecologica, altro che rilancio delle aree interne, altro che “momento del noi”: ciò che si sta consumando davanti ai nostri occhi e oltre il muro di gomma della retorica coloniale è un vero e proprio “genocidio” perpetrato non con le bombe o gli stati d’assedio come in Palestina, ma con i guanti bianchi di un colonialismo capace di svuotare del suo contenuto umano la Sardegna senza che nessuno o quasi alzi la voce. Il genocidio dei sardi avviene dunque in silenzio, non nelle forme brutali di cui abbonda la storia del colonialismo classico e che oggigiorno viene replicato con tutta la sua brutalità e infamia in Palestina, ma in quelle più subdole e raffinate di una moderna ingegneria dello svuotamento: silenziosa, pianificata, mascherata da “sviluppo”.
La Sardegna sta morendo. Non solo demograficamente, ma culturalmente, economicamente, politicamente. Sta morendo nel silenzio complice delle sue élite cooptate a Roma, imposte anche per tramite di una legge elettorale ai limiti dell’autoritarismo più becero e nel fragore retorico delle nuove tecnocrazie colonizzatrici. Ormai è chiaro a tutti che non è una crisi passeggera. È il punto terminale di un processo di spoliazione coloniale che dura da più di un secolo, e che oggi si manifesta con tratti evidenti e irrimediabili: lo spopolamento, la perdita di senso del territorio, la desertificazione delle comunità, l’annientamento socio-culturale e la sua riduzione a folklore ad esclusivo utilizzo turistico.
Il primo a riprendere la categoria coniata da Lemkin per descrivere quanto accade in Sardegna – ce lo ricorda Ivan Monni sull’editoriale di S’Indipendente di sabato 4 ottobre – è stato il grande intellettuale poliglotta sardista indipendentista Simon Mossa:
«E poiché il sardo fin dall’infanzia viene inibito, in quanto gli si insegna a considerare male tutto ciò che gli viene dal passato o dal di dentro, e bene tutto quello che gli viene insegnato per volontà esterna, a un certo punto, quando deve muoversi da solo, si trova in un mare di contraddizioni terribili, perde la fiducia in se stesso, non ha spirito di iniziativa autonoma, perde i legami tribali che costituivano la sua forza di individuo in “quella” società, e preferisce servire, perché così scompaiono i problemi e il suo tozzo di pane è assicurato. Ditemi dunque se questo non è “genocidio”»
Il Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne 2021-2027
Quando Lemkin scrive che l’essenza del genocidio non consiste nella «mitragliatice» ma in un «piano coordinato volto alla distruzione delle fondamenta essenziali della vita dei gruppi nazionali, affinché tali gruppi avvizziscano e muoiano come piante colpite dalla ruggine», ciò significa che c’è genocidio laddove esistono documenti atti a dimostrare l’esistenza di questo piano.
Basta leggere con attenzione il Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne 2021-2027 per cogliere la cruda verità. Lo Stato non ha nemmeno più bisogno di nascondere la sua visione di ciò che è la Sardegna e altre zone terminali dello stato coloniale italiano. È tutto nero su bianco: le aree interne (di cui la Sardegna tende progressivamente ad essere interamente composta) vengono definite come territori già compromessi, da accompagnare in un “cronicizzato declino”, in una sorta di eutanasia sociale mascherata da gestione dignitosa del tramonto.
Ecco uno dei passaggi più raccapriccianti del piano:
«Un numero non trascurabile di Aree Interne si trova già con una struttura demografica compromessa. Queste aree non possono porsi alcun obiettivo di inversione di tendenza ma non possono nemmeno essere abbandonate a sé stesse. Hanno bisogno di un piano mirato che le possa assistere in un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento in modo da renderlo socialmente dignitoso per chi ancora vi abita»
Lo Stato, insomma, non ha alcuna intenzione di invertire la tendenza, il che non è una grossa novità, se non per il fatto che ora viene ribadito in un documento ufficiale. La verità nuda e cruda è che la Repubblica “nata dall’antifascismo” non prevede alcun futuro per i sardi. Ha semplicemente deciso di lasciarli sparire, ma con eleganza. Non è una fatalità. È una strategia. Una pianificazione coloniale del vuoto.
Il “genocidio” bianco dei sardi
Nel frattempo, mentre la popolazione scende sotto i livelli di guardia – meno di 1,56 milioni di abitanti nel 2025, quasi 100.000 cittadini in meno in dieci anni – la Sardegna viene ridisegnata come territorio da sfruttare e occupare. I nuovi padroni? Lo Stato centrale e i grandi interessi economici esterni, quasi esclusivamente privati, che vedono nell’isola una piattaforma logistica, energetica e militare strategica.
Questa è la funzione che oggi ci viene assegnata: non una terra da abitare, ma da servire. Non una comunità da difendere, ma un contenitore di impianti, servitù, progetti calati dall’alto. Il grande saccheggio si muove sotto il nome di “transizione”, “sviluppo sostenibile”, “rinnovabili”, ma il meccanismo è lo stesso di sempre: appropriazione senza consenso, spoliazione senza compensazione, annientamento culturale senza alternativa.
Il genocidio bianco è il risultato di una miscela letale: denatalità record (0,91 figli per donna), emigrazione strutturale (oltre 27.000 giovani emigrati dal 1995), povertà in crescita (+1,2% rispetto alla media statale), bancarotta fraudolenta dei servizi sanitari e sociali, paralisi indotta dell’agricoltura e del tessuto produttivo locale.
E questo non dipende da alcun governo regionale in particolare, perché l’essere colonia della Sardegna è variabile indipendente rispetto alle singole maggioranze che si compongono in via Roma a Cagliari. Che vinca la destra erede di Almirante o che vinca il “campo largo” le direttrici fondamentali dell’essere colonia restano inalterate. Tant’è vero che i vari contributi sardisti e indipendentisti che negli anni hanno spacciato la possibilità di “contaminare dall’intero” con politiche sovraniste sarde le diverse coalizioni di governo della Regione Autonoma, si sono rivelati dei veri e propri buchi nell’acqua. Buchi nell’acqua a dire il vero assai redditizi per chi li ha provocati, tant’è vero che oggi, a fronte della certificata inutilità politica di portare acqua al mulino del sistema politico coloniale, si assiste ad una proliferazione di dichiarazioni d’intenti collaborazioniste, dalla sedicente “sinistra indipendentista”, alle nuove forme di civismo “sardista democratico”.
Il colonialismo e le sue appendici “indipendentiste”
Aveva ragione Franz Fanon che svelava la natura meccanicamente violenza e arazionale del sistema coloniale. Ne “I dannati della terra” (Les Damnés de la Terre, 1961) Fanon ci ricorda che «Il colonialismo non è una macchina pensante, non è un corpo dotato di ragione. È la violenza allo stato di natura e non può piegarsi se non davanti a una violenza ancora più grande».
Insomma quando si tratta di sistema coloniale, è inutile cercare un dialogo. Perché il colonialismo comprende solo i rapporti di forza. Ovviamente non sto parlando di rivolta armata, la qual cosa sarebbe oggi completamente anacronistica e rafforzerebbe il colonialismo stesso. La forza che ci serve è il lavoro politico nelle comunità, la capillarità, la democrazia diretta, la presenza nei gangli vitali della società sarda e nel sindacalismo. Ma questo costa fatica e spesso i vari leader indipendentisti cedono all’illusione di imbucare scorciatoie che gli permettano una comoda sistemazione personale sotto forma di qualche incarico da consulente o di liberale elargizione governativa.
La storia del sardismo e dell’indipendentismo politici degli ultimi quindici anni è storia di tradimenti e manipolazioni di questo tipo.
Quindi siamo senza difese, per lo meno senza argini politici organizzati e spesso il bastone della resistenza passa a movimenti totalmente disorganizzati e poco attrezzati da un punto di vista di prospettiva d’insieme che possono magari durare il tempo di una vertenza, ma si dimostrano inadatti ad affrontare le sfide di una penetrazione coloniale così sistemica e brutale come quella che stiamo subendo.
E in questo clima di disarmo assistiamo alla cancellazione progressiva della nostra identità, del patrimonio linguistico, delle pur tiepide competenze autonomistiche e della stessa coesione comunitaria.
Usando le parole del XIX “Report su povertà ed esclusione sociale” dall’osservazione delle Caritas della Sardegna pubblicato il 12 novembre 2024 possiamo dire che la Sardegna è in piena «glaciazione demografica». Mauro Carta, presidente del CREI-Acli Sardegna sottolinea come «ormai la crisi demografica sarda è tale che ha cancellato il cosiddetto ‘effetto ciambella’; non esiste più solo uno spostamento dall’interno alle coste o verso le città ma una crisi demografica generalizzata. Siamo di fronte ad una voragine demografica che rischia di creare un collasso del bilancio pubblico e una ulteriore riduzione dei servizi sociali e sanitari» ( https://www.aclisardegna.it/rapporto-annuale-emigrazione-crei-acli-2022-dalla-sardegna-si-continua-a-partire/ ).
Le comunità non si salvano senza autodeterminazione
Tutto questo accade perché abbiamo perso ogni forma di sovranità reale. La Sardegna non decide più nulla: non su cosa produrre, non su come abitare il territorio, non su come gestire l’energia, non su come mantenere vive le proprie comunità mentre marionette senza spina dorsale siedono sui banchi di maggioranza e opposizione e fanno finta di contrastarsi su cose di poco o nessun conto, spesso inseguendo i temi farlocchi del dibattito oltremare.
Per esempio la retorica della “transizione fatta bene”, sbandierata da chi promuove megaprogetti da FER, serve solo a disinnescare le resistenze delle comunità. Chi osa alzare la voce viene bollato come “disinformato”, “arretrato”, “romantico”. Ma non c’è nulla di romantico nella difesa di un popolo che sta scomparendo. C’è solo resistenza alla sparizione.
La verità è che la Sardegna non ha più tempo. O ritrova la capacità di reagire, di ricostruire un tessuto di autodeterminazione politica, culturale, economica, oppure verrà completamente espropriata e condotta al capolinea del suo millenario percorso storico. Non resterà nulla se non un’isola svuotata di senso, al servizio di poteri esterni, dove i sardi superstiti verranno trasformati in comparse, in spettatori del proprio sterminio.
Ci troviamo di fronte a un bivio storico. O ci riprendiamo la parola, il territorio, la dignità, oppure saremo l’ennesimo popolo cancellato, silenziato, musealizzato. Il colonialismo non ha mai cessato di operare, ha solo cambiato linguaggio, strumenti, retoriche.
E ora sta per completare l’opera.
Non si tratta più solo di resistere. Si tratta di sopravvivere. Di impedire che il genocidio bianco della nostra civiltà diventi definitivo. Senza autodeterminazione, senza una visione radicalmente anticolonialista e senza una linea di condotta chiara e impermeabile a tradimenti e manipolazioni personalistiche e opportunistiche, non c’è futuro per i sardi.
Immagine Capo Teulada: rivistapaginauno.it
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Su primu problema de custa situatzioni est su sardu e totu: deu seu meurredinu e innòxi dogna dì mi bénnit su sanguini marigosu po s’ignorantza de sa genti ca nàrat cosa a chini protéstat contra s’RWM de Domunoas, cun su fueddu perigulosu “est fendi traballai a genti meda”… sceti ca a Domunoas, dae calincuna cidas, c’est unu grai problema de àcua ferenada… sa solutzioni a su scoramentu est su scoramentu e totu (bòfiu dae sos politicos, sindacados e dae sa genti), e su primu allenu ca arrìbat nci compòrat cun sa caridade, e innòxi? Merda, scoramentu, assistentzialismu e malis malus.
Articolo splendido, di una verità bruciante. Condivido ogni parola. Super bravo Cristiano!
La penso esattamente allo stesso modo, pur non avendo letto gli autori citati. Non riesco a capire come, tutti in massa, non non si riesca a vedere e porre freno allo scempio della nostra comunità e della nostra terra
Cuncordo belle che in prenu cun Sabino e so cuntentu chi isse puru apat cumpresu chi su collaboratzionismu, cu complementarismu cun su sistema politicu colono non solu siat unu traimentu politicu e ideale ma unu dannu mannu meda a s’isperu de unu populu de podere esprimere unu sistema politicu liberadore pro che bogare cussu ocupadore dae su gubernu de sa Sardigna. Non totu s’indipendentismu at perdidu s’andala de sa coerentzia e de s’iscontru cun su sitema politicu chi est intermediende su genocidiu de su populu sardu, genocidiu mudu ma resessidu. Cuncordo in totu s’analisi fata pro definire su genocidiu e pro testimonia direta debo narrere chi non semprere benit atzetada e cumpresa dae chie est gherrende pro firmare su genocidiu de su populu palestinesu e cndo mi so permissu de acostatzare sos duos genocidios calicunu sardu de sa sinistra italiana mi at chi non fiat gasi ca in Palestina ghetaianns sa bombas e inoghe no e a nudda est servitu a lis narrere chi b’at bombas silentes, sas matessi mentovadas dae Sabino, chi faghent galu prus dannu de cussas ci iscopiant. Cussas chi iscopiant alimentas sa rebellia, s’autoidentificatzione e sa voluntade de autodeterminatzione, cussas mudas ammasedant, eteroidentificant e intzerachint.
Traballemas paris pro fraigare unu fronte liberadore, cun totu sa gente sarda chi est pronta a lu faghere, chene nessuna distintzione si non cussa de su seperu de sa banda ue istare, cussa liberadora o cussa collaboradora cun su sitema coloniale, pro unu progetu craru ue sa paraula “autodeterminazione” non restest generica e indefiniti ma apat su significadu de INDIPENDENTZIA.