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Il punto sulla Sardegna

La sanità malata. È da anni che continuiamo a girare attorno al problema della sanità che non funziona. Tanto in Sardegna come nel resto d’Italia. Conseguenza di una serie di problemi che non sono stati risolti, in parte per oggettiva mancanza di risorse, in parte per mancanza di volontà. E tutto questo nonostante nel 2020, sulla scia della pandemia del COVID, si parlasse di uscirne migliori da questa emergenza.

Uno dei pilastri sul quale si basa una comunità è la presenza di servizi fondamentali, che principalmente sono rappresentati dalle forze dell’ordine, dai servizi di istruzione e dalla sanità. Togliere una delle variabili dell’equazione di una comunità rompe quell’equilibrio che permette ad una comunità di conservarsi, trasmettersi ed ampliarsi. E non è un caso che l’Italia rurale e anche la Sardegna rurale, stiano arretrando per incapacità di rigenerarsi e di rinnovarsi, con le popolazioni locali che preferiscono spostarsi altrove, dove sono più frequenti e facili da ottenere i servizi mancanti.

La crisi della sanità ha origini e radici profonde, sulle quali si stanno accumulando decisioni e risposte sbagliate. O spesso scelte che hanno una valenza solo superficiale e apicale, che con la scusa di eseguire riforme richieste mettono in atto il più classico e becero degli spoil system isolani. L’ambito della sanità infatti rappresenta la principale fonte di denaro e il principale campo di azione delle Regioni. In una nazione con 21 sanità regionali (Trento e Bolzano assumono nelle rispettive province la valenza di Regioni), uno dei principali bacini economici è dato proprio dalla sanità. E assieme ad un apparato sanitario, fatto di medici, tecnici, infermieri, ostetriche, OSS, ausiliari, se ne affianca uno amministrativo, che spesso sclerotizza processi e meccanismi di funzionamento della macchina sanitaria.

Ed ecco che la sanità si burocratizza, aumentano i costi e contemporaneamente cala la qualità dell’offerta fornita. Tra uffici e “contruffici” che rimbalzano la risoluzione delle problematiche.

Poi esiste un problema di mancanza di risorse umane. Vale un po’ in tutta Italia, ma la Sardegna paga uno scotto maggiore legato al fatto della sua posizione e del fatto che in una Regione come la nostra vanno supportate e finanziate un maggior numero di borse di specializzazione. La risposta non è tanto l’aprire il numero di iscritti a Medicina con il semestre aperto (che anzi, rappresenta un nuovo metodo classista di selezione, che ricostituisce il baronato che tanto faticosamente si era eliminato), ma con l’aumento degli specializzati e dei professionisti della Medicina Generale.

Ma anche aumentando le borse e le risorse per la formazione specialistica, difficilmente riusciremmo a risolvere l’equazione. Sicuramente per un intervallo di 4-5 anni si porrebbe una situazione dove dovrebbero essere usate delle situazioni tampone (per intenderci, già avremmo dovuto vedere delle soluzioni a seguito del COVID dare i loro risultati). E l’azione non è unica, ma è necessario articolarla su più livelli, come elencherò nei paragrafi seguenti.

Un livello d’azione, forse il più urgente, è dato dalla medicina di base e del territorio. La carenza più grave, che in particolare si fa sentire maggiormente nelle aree interne è quella dei Medici di Medicina Generale e di Continuità assistenziale. Due episodi di cronaca che hanno segnato gli ultimi 20 giorni in Provincia di Nuoro esemplificano la gravità della situazione attuale: la morte della Collega, la Dottoressa Maddalena Carta a Dorgali e la morte di Nanni Mereu ad Aritzo.

Questi due episodi esemplificano due gravissimi problemi che affliggono la medicina del territorio: la carenza di medici di medicina generale e il sovraccarico di lavoro che affligge i pochi volenterosi e coraggiosi che cercano di fornire questo servizio fondamentale.

La carenza dei medici di medicina generale e di continuità assistenziale (volgarmente, la guardia medica) avviene da tantissimi anni. In Sardegna abbiamo perso circa 750 medici MMG, a fronte di un rincalzo insufficiente (circa 100-150 nuovi colleghi, che non possono coprire tutto il carico di lavoro richiesto). Aggiungiamo a questo un contratto di lavoro atipico e svantaggioso per chi vuole intraprendere la strada della medicina generale: convenzione SSN che si traduce in mancanza di tutele (quindi onere nella copertura del servizio in caso di maternità, malattia, aspettativa ecc.). Mettiamoci poi una burocrazia asfissiante, che prolunga all’infinito il carico di lavoro e poi non stupitevi come possa avvenire la tragedia di Dorgali. Una vera e propria morte sul lavoro, una morte bianca. Che doveva essere evitata, stante il fatto che ogni MMG ha un numero massimo di pazienti da poter seguire, ma che con deroghe e con la situazione de facto presente, viene ampiamente sforato.

E se mancano i medici della medicina generale, che scottano anche il fatto di avere un titolo spendibile solo a livello regionale (questo punto dovrebbe essere affrontato con l’ultimo decreto legge, link), figuriamoci la continuità assistenziale. Il calo dei medici disponibili rappresenta il primo colpo inferto, il secondo risale al periodo COVID, quando cioè furono presenti profonde disparità di trattamento economico tra i servizi specifici per l’emergenza pandemica (le USCA) e la classica Continuità Assistenziale. Non si colse la palla al balzo per adeguare le paghe relative alla Continuità Assistenziale, provocando un’emorragia di personale verso le USCA e squalificando economicamente la seconda. Mancano la guardie mediche e tragedie come quelle di Aritzo diventano possibili e non una cosa dell’altro mondo.

Paghe economiche inadeguate anche per il personale sanitario dipendente SSN, per intenderci medici e sanitari che lavorano negli ospedali. Al netto della tassazione presente (con aliquote IRPEF che oscillano tra il 35 ed il 43%), del balzello legato alla necessità di doversi pagare l’assicurazione RC per la colpa grave (quando in un mondo normale dovrebbe essere dovuta la sua copertura da parte del datore di lavoro, ossia l’Azienda Sanitaria di riferimento), è chiaro che con stipendi di fatto fermi a 20-30 anni fa, ci sia la tendenza di molti operatori ad esercitare anche in regime di libera professione (se non intramoenia). Ed è chiaro che anche per questo motivo, diverse specializzazioni meno spendibili sulla libera professione rimangano cronicamente sottocoperte e con poche borse di specializzazione assegnate (a causa anche del meccanismo di scelta delle borse di specializzazione, che non mette in primo piano le necessità del SSN).

Ripartizioni economiche, cattiva programmazione passata e presente, soluzioni che guardano più a discorsi qualunquistici che di fine regolazione delle necessità pubbliche (aprire il numero chiuso quando il problema è nell’imbuto formativo della specializzazione post-laurea), l’incapacità di garantire assunzioni costanti nel tempo e non a scaglioni come avvenuto negli anni 80 e recentemente in questi anni con periodi di completa mancanza di concorsi pubblici. Elementi che sommati assieme hanno creato la tempesta perfetta. E in un paese con denatalità ed emigrazione, chi ne pagherà maggiormente le conseguenze sono le aree rurali e le regioni meridionali ed insulari. E di conseguenza, anche noi Sardi.


Immagine: sardegnaierioggidomani.com

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