E se fosse solo cinema?

“E se fosse solo cinema?” così un lettore (che ringrazio per lo spunto) ha commentato il mio precedente articolo sul film ispirato alla storia di Ovidio Marras in uscita il prossimo ottobre intitolato “La vita va così”. Nel film, scritto e diretto da Riccardo Milani, il pastore si chiama Efisio Mulas ed è interpretato dall’esordiente Giuseppe Ignazio Loi che è “un vero pastore sardo” come sottolineato nei post promozionali di Medusa Film su Instagram.
Non mi dilungherò sulla narrazione che emerge da questi post rispetto alla figura del pastore come il buon selvaggio che lascia una terra antica, prendendo l’aereo per la prima volta, per andare in città. Perché si sa che la Sardegna ha solo borghi turistici, mentre le città – quelle vere – sono in continente. Mi limito a riprendere i caratteri essenziali emersi dall’analisi di Andrìa Pili che ha parlato del caso specifico in un post su Facebook e di Federica Marrocu, che ha approfondito la vicenda con una riflessione molto seria sull’origine del mito di Ovidio Marras sul suo blog e su Instagram. Da una parte Pili racconta come nei video del backstage Loi appaia come una “sorta di simpatica mascotte” che viene bonariamente presa in giro, depotenziando la narrazione politica dell’identità sarda, dall’altra Marrocu ci ricorda il carattere anticoloniale e anticapitalista della lotta di Marras, che si perde nella passerella della sfilata del famoso stilista sardo Antonio Marras. Marrocu definisce quella che riguarda Loi “una narrazione nella narrazione” nella quale il “vero pastore sardo” è un altro personaggio, ambasciatore di bellezza secondo lo stilista, esibito come un accessorio simbolo di autenticità, quasi un oggetto di scena.
“E se fosse solo cinema?” dunque, che io leggo come: “E se fosse solo intrattenimento?”
Ebbene sì, anche. Ma per chi? Ragioniamo su questa ricerca di intrattenimento attraverso l’autenticità, l’attenzione quasi “morbosa” per il selvaggio e il primitivo, come sottolinea Marrocu. Non è forse questo il continuo del filone turistico esperienziale, che permette al ricco di comprare la povertà per assaggiarla quel tanto che basta per rifarsi la bocca e poi andare avanti? La lotta per la propria terra diventa glamour, si fa bella. Si fa più dolce: Pili ha parlato di “sardità ammessa sul palcoscenico purché addomesticata”.
Ancora: “E se fosse solo cinema?” Il cinema è intrattenimento, certo, ma è anche racconto. Tutti i popoli raccontano storie: pensiamo ai racconti attorno al fuoco che gli anziani tramandavano ai giovani del paese. In antichità si inventavano miti terrificanti e spettacolari sull’origine del mondo e del proprio popolo: tutti avevano in comune la glorificazione della propria gente. Quando si inizia a raccontare l’altro? Molto spesso quando è il nemico. Le cronache dei romani sui popoli da loro conquistati non sono esattamente piene di complimenti quanto di descrizioni talvolta raccapriccianti sui loro usi barbari. E i racconti dei colonizzatori sui popoli africani che ancora oggi invadono il nostro immaginario su un intero continente? Forse non sono così dissimili dalle teorie sulla “razza sarda” del XIX secolo, come riportato da Andrìa Pili nell’articolo “L’invenzione del pastore nella razzializzazione dei sardi”:
“Alfredo Niceforo (1897), escludendo la causa economica, spiegò l’alta incidenza, nell’isola, di determinati reati quali omicidi, rapine e danneggiamenti con i fattori biologici del sardo, il “temperamento etnico regionale”: ogni varietà razziale, infatti, sarebbe caratterizzata da un suo reato specifico e i sardi sono predisposti al delitto di sangue. Tale condizione della società sarda sarebbe il risultato di un’atrofia nell’evoluzione sociale verso la civiltà, determinante un arresto nello sviluppo psichico, a causa dell’isolamento; la Sardegna viene dunque inserita tra i “popoli primitivi” e le “razze inferiori” il cui ciclo di sviluppo non si è completato. Giuseppe Sergi (1907), autore di studi sulla “varietà umana microcefalica mediterranea” dei sardi, detti “pigmei d’Europa”, sosteneva che i sardi fossero rimasti immutati, nei propri caratteri, dal Neolitico, più vicini alla natura che alla civiltà; la psicologia del sardo è quella del primitivo, le sue concezioni mentali sono ristrette, egoistiche e sentimentali.”
Il punto non è e non è mai stato: “aspettiamo di vedere il film e poi giudichiamo”. Questo non è un discorso sulla bontà della sceneggiatura né sulla bravura o caratura degli attori. Questo è un discorso sul potere narrativo. Netanyahu ha recentemente dichiarato che le armi più importanti per combattere la guerra oggi sono i social, vale a dire la narrativa. A volte crediamo che la propaganda per essere tale si debba vestire di clamore e rumore, ma non è così. La narrazione è politica, sempre. Le nostre idee e il modo in cui guardiamo il mondo vengono costruiti nel quotidiano, mattoncino dopo mattoncino. Se il film sarà bello, se veramente avranno dato risalto a una storia importante (di nuovo, per chi? Qual è il target del film?) il discorso non cambierà di una virgola.
Nell’altro articolo ho parlato brevemente dell’importanza di riappropriarsi del racconto su sé stessi. Voglio porre l’accento su questo concetto a partire dai numerosi commenti che hanno dichiarato che Virginia Raffaele è stata scelta per il ruolo della figlia del pastore perché in Sardegna non ci sono abbastanza attori famosi o talentuosi. Ammettiamo che sia vero per semplificare il discorso, vi chiedo: non ci poniamo una domanda su questo vuoto? Non ci rendiamo conto che questo vuoto è, in realtà, pieno di altra presenza, cioè della narrativa altrui su di noi? Negli ultimi anni il mondo del cinema si è aperto sempre di più alle persone con disabilità, alle persone neurodivergenti, alle persone queer ed è stato uno shock per molti: quelli che erano personaggi sono diventati persone, cioè: “una persona disabile è in grado di raccontarsi e forse ha qualcosa da dire sul suo vissuto che noi non avremmo mai potuto immaginare!” Chissà quei selvaggi della Sardegna quante cose avrebbero da dire, parlano? Hanno una voce?
Perché oggi le minoranze combattono per rappresentare loro stesse sul grande schermo? Non è per una mera questione di realismo, è per riprendersi lo spazio che è stato tolto loro. Più ci si presta a farsi raccontare dall’altro, meno la nostra voce sarà richiesta. È anche una questione di accessibilità: impuntarsi sul chiedere di raccontare, interpretare, scrivere noi stessi significa creare dei precedenti che aiuteranno la normalizzazione dell’inclusione e poi del protagonismo delle minoranze. Certamente questo lavoro per iniziare (lo ribadisco: per iniziare) può essere fatto anche da sceneggiatori e registi esterni, ma lo sguardo e il rapporto di potere devono essere messi in discussione, cosa che non avviene nel film in questione perché è già problematica la presenza di un’attrice che imiti la sardità. Per approfondire consiglio la lettura dell’articolo di Barbara Ranghelli sulla costruzione del film “Anna” di Marco Amenta, non a caso un siciliano cioè un altro isolano la cui identità è permeata di esperienze assimilabili a quelle sarde, che stranamente non ha avuto lo stesso risalto de “La vita va così”.
Facciamo un ulteriore passo nel ragionamento. Un attore sardo che interpreta un personaggio sardo è garanzia di un racconto privo di sguardo colonialista? Assolutamente no. Pensiamo a Lucio Salis che ha lanciato a livello nazionale il tormentone “Capitto mi hai?” nel programma Drive in oppure all’inviato di Striscia la notizia Cristian Cocco e al suo – purtroppo – famoso “Ajò” in chiusura di ogni servizio. Queste battute a quale pubblico erano destinate e cosa raccontavano? Una Sardegna stereotipata allineata al pensiero italiano sul sardo buffo e macchiettistico. Non è forse la stessa pratica di chi interiorizza il desiderio del colonialista e per soddisfarlo rende la propria identità una performance fatta di veri pranzi del pastore, di diete dei centenari, di maschere decontestualizzate, di paesaggi immacolati?
Mi sono interrogata al lungo in questi giorni sulle opinioni delle persone sarde che dicono “aspettiamo di guardare il film prima di giudicare” oppure “l’attrice è brava e professionale” e ancora “finalmente qualcuno che recita con l’accento sardo senza renderlo ridicolo” e mi sono chiesta perché questa rappresentazione non crei a tutti lo stesso disagio. Mi sono data una risposta priva di tecnicismi, che vi propongo, mi perdoneranno i sociologici, gli antropologi e gli storici all’ascolto.
Credo che per la costruzione di una coscienza sarda “non aver mai pianto il morto” sia un grandissimo ostacolo. Non avere una memoria storica di quello che ci è stato sottratto si fa sentire anche in quelle che ci sembrano piccolezze. Parliamo di trauma generazionale, che è una delle conseguenze del colonialismo, mai riconosciuto. Davvero pensiamo di essere usciti indenni dalla razzia fatta della nostra lingua e identità? Davvero pensiamo che sa bregungia provata dai nostri genitori, nonni e bisnonni rispetto a loro stessi non viva ancora in noi? Il senso di inferiorità trasmesso dal conquistatore che ti dice che devi dimenticare te stesso, che come ti esprimi non va bene, che la tua lingua è primitiva, che la tua esistenza è esotica e periferica, che sei un essere sottosviluppato, aggressivo, primitivo e perciò vai amministrato. Questo è un dolore che ognuno di noi si porta dentro, senza comprenderlo né riconoscerlo, perché non è mai stato attenzionato a livello popolare.
Il famoso orgoglio dei sardi, in realtà, esiste in risposta a questo funerale mancato. Il mio primo trauma da sarda fuorisede è stato scoprirmi inferiore attraverso gli occhi dell’altro, il secondo è stato scoprire che da me ci si aspettava connivenza rispetto a quel racconto di inferiorità, che mi è stato più volte presentato con assoluta nonchalance, come se io sapessi o, meglio, dovessi sapere che sono inferiore in quanto sarda. Pretesa manifestata in pieghe sottili di discorsi quotidiani, come il dare per scontato che la nostra educazione sia inferiore, così come la nostra capacità di parlare e scrivere in italiano. Pretesa camuffata da consigli e osservazioni: “così non ci siamo proprio, dovreste migliorare questo o quello”.
Quando questa realtà bussa alla porta cosa si può fare? Per riprendere il controllo della propria identità qualcuno si scopre ancora più sardo, talvolta estremizzando e facendo del suo orgoglio identitario una competizione, allora lì si conferiscono le patenti di sardità, si stilano le liste di requisiti per essere un vero sardo, tra tutte quella di non essere emigrati dalla propria terra, non a caso. Qualcun altro fa spallucce e va avanti: è meno doloroso aderire alla narrazione che fanno di noi, finché è fatta di contentini sulla bellezza della terra, sulla resilienza e la genuinità dei suoi abitanti. Non è una colpa, siamo stati abituati così. Siamo abituati a essere raccontati, siamo intrappolati in un rapporto di dipendenza affettiva rispetto allo Stato italiano che rincorriamo tra il bisogno di essere riconosciuti e validati come italiani, dove italiano in questo contesto significa “civile, intelligente, acculturato, moderno” e il bisogno di riaffermare la nostra identità come persone sarde. Decolonizzare la nostra immaginazione è dolorosissimo, perché richiede in prima battuta di riconoscere l’inferiorità a cui siamo stati relegati, allora speriamo che qualcuno ci citi, che ci racconti bene, che ci renda giustizia. Ma se non siamo noi in grado di immaginarci diversi da quello che ci hanno sempre raccontato, non possiamo aspettarci che lo siano gli altri.
Ma forse esagero ed è solo cinema.
Immagine: ciakmagazine.it
6 commenti
Lascia un commento / Cummenta
I commenti saranno sottoposti ad approvazione prima della pubblicazione.
















Raccontare la Sardegna è da anni il mio mestiere: sono una guida turistica e ogni volta è una sfida andare oltre la bellezza naturale, il buon cibo e descrizioni architettoniche che hanno origini altrove (quando racconto Cagliari). La riflessione arriva quando racconto la leggenda della creazione dell’isola, bellissima e affidata all’angelo più melanconico del paradiso, il sardo che la ammira ma sa che non è sua, e oggi assiste impotente al suo ratto. E allora mi viene chiesto perché questo finale: ciò mi permette di raccontare ciò che accade nel quotidiano furto del nostro futuro.
Non c’entra molto col film ma sullo stato dell’arte dell’identità. Si può parlare ancora di buon cibo sardo quando il 90 % delle materie prime per realizzarlo provengono d’altrove? Nel mio paese una volta tempio e patria del fiore sardo i formaggi più consumati delle famiglie sono il grana e il parmigiano.
Condivido profondamente quanto riportato in quest’articolo. Ho realizzato un film, “Némos andando per mare”, uscito di recente in tutte le sale sarde e non solo in quelle. Io sono sardo, e credo di aver fatto un film sardo di sardi diretto a tutto il mondo. Ma devo dire, con amarezza, che dal mondo di chi come voi (giustamente) fa notare le insidie e le offese (nel senso di danni) fatte dai raccontatori esterni e dagli autocolonizzati, non ho avuto grandi segnali di interesse, non dico di sostegno. Forse ci interessa troppo criticare chi ci colonizza col cinema ma meno sostenere chi facendo lo stesso mestiere prova a fare il percorso contrario? Ma forse mi sto sbagliando, e magari ho fatto anch’io un’operazione autocoloniale, senza volere, e i miei connazionali sardi preferiscono non infierire con me?
Ciao Marco Antonio,
su questo ti devo amichevolmente smentire. Non siamo riusciti a venire al Cinema Odissea alla prima, ma in realtà il secondo giorno di proiezione (sempre a Cagliari, una sera in seguito a una delle prime manifestazioni pro Palestina), c’era una delegazione di 10 persone di Assemblea Natzionale Sarda, me compreso, a vedere il film.
Abbiamo amato il film, abbiamo elogiato te e abbiamo ragionato su quanto sarebbe opportuno far girare il film (anche) nelle scuole.
Avevamo Fàulas “di mezzo” e abbiamo rimandato la questione al dopo festival. È il momento di parlarci 😊
Caro Riccardo, ti ringrazio per le parole e, insieme agli altri che con te sono venuti a vedere il mio film, per averlo visto e per l’apprezzamento. Non volevo essere antipatico con il mio commento precedente e spero di non esserlo stato troppo. Voglio però precisare una cosa che secondo me non è di troppo. Scrivere di un film, anche se per criticarlo, è fargli pubblicità. Farlo quando il film non è ancora uscito, ancora di più. Non scrivere di un film che è uscito, invece, è aiutarlo a non esser visto. Quindi parlare di un film ambientato in Sardegna e che parla della Sardegna in un certo modo, per criticarlo, quando non è ancora uscito, non fa che richiamare gente a vederlo, se non altro per vedere se è vero quel che si scrive su di esso. Non parlare di un altro film, che invece parla della Sardegna, e lo fa in un modo che si ritiene invece utile e positivo, per ben 5 mesi dalla sua uscita, è aiutarlo a non essere visto e non incoraggia certo autore e produzione a ripetere operazioni del genere. Oltretutto la produzione del mio film è di Milano, e ha creduto nel mio film e lottato con coraggio e fiducia per lasciare che potessi realizzarlo come volevo, il che dimostra che anche sulle produzioni di fuori (lo dico per qualche commento che ho letto) è sbagliato. Anche se potrebbe sembrare il contrario, non scrivo tutto questo pro domo mea. Di solito mi esimo completamente dall’iniziare qualsiasi tipo di polemica che abbia a che fare con il mio lavoro. Lo scrivo, invece, perché credo che questo ci danneggi tutti, ognuno nel suo campo. E sento che è mia responsabilità offrire questo mio spunto di riflessione. Il modo di vederci, immaginarci, rappresentarci degli altri, possiamo cambiarlo soltanto noi. E promuovere il lavoro di chi si spende per una rappresentazione senza complessi della propria società, della propria terra e della propria gente, è molto più utile, secondo me, che fare pubblicità, seppur negativa, a chi lavora diversamente. Ma è solo il mio punto di vista e, ripeto, l’articolo mi è piaciuto molto, e credo che Alessandra Saiu non esageri. Non è solo cinema. Ma non lo è uno e non lo è l’altro, solo cinema.
Bellissima lettura delle varie opinioni generate da questa film (già famoso ancor prima di andare nelle sale: potenza dei social, manovrati a secondo la bisogna!). Narrazione, trasportato nel film, che mette in evidenza (o vorrebbe mettere) la forza di un’etnia (o di un solo pastore?) contro il potere finanziario rappresentato dai vari speculatori che si sono succeduti dagli anni ’60 in poi, “occupando” le nostre coste. Occupazione accettata e condivisa dai vari proprietari terrieri SARDI, o no?
È pur vero che la Sardegna smette di essere terra dei sardi con la fine dei giudicati, lasciando da parte il periodo dei greci e dei romani. L’isola è sempre stata ambita dalle varie potenze che scorrazzavano per il mare Mediterraneo con la bramosia di allargare i propri confini, e la Sardegna ha sempre rappresentato un punto fisso imprescindibile.
Hai ragione quando affermi che dovrebbero essere i sardi a raccontarsi… ma, ahimè, credo che ciò sia difficile, a parte qualche eccezione, (non certo come ha detto la Gepi…) essendo venuta meno la propria identità etnica, antropologicamente condizionata dal millennio di occupazione, e non solo come territorio…